Racconto di Angela Maria Diano
(Prima pubblicazione)
Non mi piace adeguarmi alle convenzioni, non sopporto le imposizioni e faccio fatica a seguire le regole. Figuriamoci se posso accettare che qualcuno mi dica cosa fare, che cosa dire o come vestirmi.
Forse per questo porto lividi sul corpo e piaghe nell’anima. Forse per questo Anita, l’assistente sociale, ha insistito tanto a farmi indossare l’anello.
L’abbiamo scelto, l’abbiamo programmato secondo le mie esigenze. Quattro minuti bastano, le ho detto.
Mi bastano 4 minuti per farmi la doccia, l’unico momento in cui tolgo l’anello. Ho cronometrato e scelgo sempre canzoni che finiscono entro i 4 minuti. È come cadenzare la paura. Non posso andare oltre.
E quel giorno ascoltavo “E ti vengo a cercare” di Franco Battiato.
L’anello era lì sullo scrittoio, tra me e mia figlia. Avevo due casse in bagno, una per la musica e una per sentire se si svegliava e piangeva. Non sono mai tranquilla. Lui potrebbe tornare e non sarebbe una bella cosa. Ma 4 minuti sono sufficienti per rilassarmi e non correre rischi.
Mi sbagliavo.
Il commissario mi guarda e aspetta da me un aiuto ma non riesco a controllare lo spasmo delle mani e un tic all’occhio destro.
“Lily dove sarà? E quel maledetto anello perché non ha funzionato?” Eppure mi avevano assicurato che sarebbe stata una misura di sicurezza efficace. Mi hanno raccomandato di rispettare alcune indicazioni e io le ho seguite in maniera precisa.
La prima cosa che ho fatto è prendere l’anello e la seconda è andare da Lily ancora con indosso l’accappatoio.
Anita si avvicina e mi tiene forte le mani.
L’anello è lì davanti a noi. Se non l’avessi indossato entro i quattro minuti il segnale di allarme sarebbe stato inviato al commissariato e intanto la microcamera avrebbe registrato tutto a 360°.
I video sono fondamentali, mi avevano spiegato, per capire che cosa stava succedendo, nel caso in cui io non avessi potuto attivare autonomamente l’help me. Mi sono fidata, mi avevano assicurato che già in altri casi si era dimostrato utile.
Lui è stato bravo perché quando sono uscita dalla doccia erano passati 3 minuti e 50 secondi, il tempo della canzone.
Quando mi sono avvicinata alla culla e ho visto che Lily non c’era è stato come se un dinamitardo mi fosse esploso nel cervello. Per un attimo sono andata in tilt. Poi ho preso l’anello, ho lanciato l’allarme come mi avevano insegnato. La porta d’ingresso era aperta.
Sono andata alla finestra urlando per richiamare l’attenzione ma nessuno mi ha sentito e non ho visto andar via nessuno con mia figlia.
Il commissario chiama Anita in disparte.
Sento i loro discorsi. Da quando sono diventata mamma l’udito si è sviluppato.
Mi hanno spiegato che succede spesso quando si teme un pericolo. Anche gli animali sviluppano i sensi per la paura.
“Siamo sicuri che è non è fuori di testa? Che non si è inventata tutto? Io la tengo in fermo finché non dice la verità”
“No maresciallo, la conosco bene. Lei vive per sua figlia”
Se non temessi di peggiorare la situazione mi metterei a urlare.
“È lui che dovete cercare!”
Anita si avvicina: “Lo troveremo. Il giudice ha già disposto che deve essere immediatamente trovato e fermato. Conosce bene il tuo caso. Sei mesi fa aveva deciso che non poteva avvicinarsi a te e alla bimba.”
Continuo a tremare, con la testa fra le mani, non so se pregare o piangere. Odio questa gente che mi sta attorno senza fare niente. Dovremmo essere tutti lì fuori a cercare Lily. Di lui non mi interessa. Voglio solo mia figlia.
Il giudice arriva. Forse si sente in colpa. Nonostante tutte le misure non è riuscito a proteggere me e Lily.
Penso si vergogni di essere un uomo. Per tutte le volte che mi ha vista coperta di lividi, per tutti i ricoveri in ospedale.
Si consulta con il commissario, chiama Anita, mi guarda come fossi un marziano. Forse perché ancora sono qui e non sono morta di dolore o di terrore.
“Io vado via!”
“Cosa?”
“Non posso più aspettare”
“Deve ancora fornirci qualche elemento per trovare la bimba. Aspetti ancora”
“Lei sa già tutto di me. Non è la prima volta che ci vediamo.”
“Dobbiamo capire dove può essere andato, lei può aiutarci”.
“L’ho perso di vista sei mesi fa. Non mi ha più contattato. Pensavo che si fosse messo l’animo in pace”.
“Non è così. È riuscito ad eludere il confino. Abbiamo messo il doppio braccialetto al polso, ricorda? È riuscito a liberarsene e non abbiamo modo di monitorare gli spostamenti. Non ha neanche un cellulare”.
So di che cosa è capace. Non è uno stupido. È un violento.
“Abbiamo messo dei posti di blocco, se cerca di andar via in macchina, lo prenderemo”
“La barca… aveva una chiatta sul fiume. Forse l’ha portata lì.”
“Andiamo. Venga con noi.”
Sono passate 4 ore ma a me sembra un’eternità.
Arriviamo al molo che il sole è già alto, ma una nebbia copre la distesa d’acqua, confondendo i confini di luce.
La barca è attraccata, c’è vita lì dentro.
Gli agenti di P.S. sono in posizione sul molo, il commissario sale chiamando il suo nome. Io sono immobilizzata dal terrore. Ecco lo vedo, esce con le mani in alto. La bimba? Un agente esce dalla barca facendo un diniego con la testa. Lily non c’è.
“Dov’è mia figlia? Io ti ammazzo, che cosa le hai fatto?”
“Non l’avrai, l’hai persa per sempre!”
Nonostante sia sotto il tiro dei poliziotti, la sua faccia esprime la soddisfazione di vedermi soffrire.
Io non posso più trattenermi. Lo assalgo, gli strappo i capelli, lo prendo a calci.
Riesco a sputare nella sua direzione e a urlargli contro tutto il mio disprezzo, prima che un agente mi allontani.
Guardo Anita che scende dalla barca con lo sguardo spento.
Mi guardo attorno, ho paura che possa averla lanciata in acqua. Percorro di corsa il molo, spingendo lo sguardo fin dove è possibile.
La nebbia si dirada leggermente e vedo un piccolo canotto alla deriva.
Mi tuffo sentendo che, dietro, chiamano il mio nome ma continuo a larghe bracciate, senza fermarmi. Devo raggiungerlo.
I vestiti sono inzuppati d’acqua, riesco a liberarmi delle scarpe per andare più veloce. Dietro avverto che qualcuno mi sta seguendo mentre un’imbarcazione parte dal molo.
Sono sfinita, ma sono vicina, ancora qualche bracciata e lo raggiungo. Grido al poliziotto che è dietro di me di non far avvicinare l’imbarcazione. Intuisco il pericolo, il canotto potrebbe capovolgersi con il movimento delle onde.
Arrivo, mi aggrappo al bordo. È qui! — urlo.
È lì ma non si muove. Il poliziotto mi raggiunge. Appoggia la mano sul corpicino. Io penso di svenire.
Teniamo il canotto uno da un lato e uno dall’altro mentre l’imbarcazione si avvicina lentamente. Ci tirano su.
Io cedo. Non riesco più a pensare. Anita è vicina a me, come nei momenti più bui. Sento la sua presenza ma non la guardo. Ho paura di quello che potrei leggere nei suoi occhi. Sento le sue mani che stringono con forza le mie spalle. Mi scuote.
“Apri gli occhi. È salva!”
Due grandi occhi azzurri mi guardano. Ha dormito tranquilla, cullata dalle onde. Non si è accorta di nulla. Come un novello Mosè salvato dalle acque è tra le mie braccia, Lily.
Un racconto che va dritto al cuore. Brava
Grazie. Un incoraggiamento a continuare
Anche 4minuti divorati con ingordigia ,per raggiungere il finale.Maledetta violenza!
4 minuti preziosi. Grazie
Ansia dall’inizio alla fine, anche se per soli 4 minuti. 4 minuti di ottima scrittura
Grazie. Felice di aver catturato l’attenzione
Complimenti Angela. 4 minuti di cuore in gola❤❤❤
Grazie. È il mio primo racconto. Sono felice che sia piaciuto
Angela, è scritto bene. Non avrei fatto meglio.