Racconto di Massimiliano Morgavi

(Prima pubblicazione)

 

— Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Sia lodato Gesù Cristo.

Aspetto la risposta, che non arriva. Da dietro la grata del confessionale alzo gli occhi e vedo la testa calva di un uomo, un pezzo d’uomo, dalle spalle larghe.

— Sia lodato Gesù Cristo. —  ripeto, forse l’uomo non ha capito, oppure ha poca abitudine.

Invece arriva tutt’altra cosa.

— Che giorno è oggi? In che anno siamo?

Resto in silenzio. Sorpreso. Non mi pare di conoscerlo. Mai visto in paese. Forse mi dice qualcosa la voce.

— Oggi è il 12 luglio, un sabato. — rispondo calmo.

— Il 12 di luglio. Sì ma di che anno?

— Siamo nel ‘30. Stai bene figliolo? Posso fare qualcosa per te? Come ti chiami?

— Per me? Sono qui perché voglio confessarmi. Anzi, devo chiedere una cosa.

— Questo lo so. — Da quanto tempo non ti confessi? — gli dico — Prima di rispondere ci pensa su, poi sbotta: — Sapete, reverendo, sono stato via dal paese per un po’ di tempo. Ma tanti anni fa abitavo nella prima casa tra il Lemme e il Morsone. Mi sono fatto più di tre anni di guerra, Palmanova e poi San Vito al Tagliamento. Fin verso la fine del ’18. Quindi arriva l’inizio del ’19. Forse, chissà. La guerra era finita insomma. Torno a casa da Igina. Mia moglie.  La vedo strana, la mia donna. Non è più come prima. Una notte faccio un sogno: sono in cortile e vedo uno scimmione come quelli che si vedono sui manifesti attaccati ai muri. Reverendo, mi capite vero?

— Certo, vai avanti figliolo. — lo capisco poco, ma devo ascoltare.

— Allora vedo questo scimmione che esce da casa, sta sulla porta, si guarda in giro e poi scappa. E l’ho sognato due notti di seguito eh. Un giorno ne parlo a Igina, così racconto il sogno. Lei quasi si spaventa, mi guarda strano. Bon, finisce lì. Invece no. Allora avevo trovato da lavorare duro nella cartiera, là ai Molini, così succede che un giorno torno prima dal lavoro. Igina stava insieme a un tizio, più giovane di lei, mai visto prima. Non so neanche se aveva fatto la guerra. Tremavano i muri della casa sapete? L’ho accoppato, quel bastardo. Era lui, lo scimmione. Igina l’ho buttata dalla finestra. Ma si è salvata. Mi hanno dato undici anni di galera. E dove mi hanno messo ho perso il conto del tempo. Ora sono qui, fuori, ma non so se posso fidarmi di voi, reverendo. Avrete sentito parlare di me.

Prima di rispondere penso che è una strana confessione, ma il mio compito è quello di salvare le anime. In verità qualcosa so, poco per dire di conoscerlo. Però, io quella voce mi pare d’averla già sentita. Forse durante la guerra, quand’ero cappellano militare, ma non sono mai stato né a Palmanova né a San Vito.

— Figliolo, a settembre saranno cinque anni che il Signore mi ha mandato qui. Non so chi sei. Mi vuoi dire come ti chiami? Dove abiti adesso?

— Beh, anche se non sono neppure cinque anni, un prete lo siete lo stesso, per questo vi devo chiedere una cosa. Ma non so se posso. Facciamo la prossima volta. Ora devo andare. Ah, il mio nome è Sebastiano Gerbi, fu Camillo, ma per tutti sono Bastianin. Sono tornato nella mia vecchia casa. È malandata, ma il tetto è buono. La stufa a due bocche l’hanno lasciata. Per l’inverno mi basta.

Così dice, si alza ed esce. Non riesco ad aprire bocca. Finisco di confessare, vado in canonica.

Passa una settimana. Bastianin compare di nuovo nel confessionale, sempre di sabato.

— Salve reverendo. Ma voi come vi chiamate? Sapete, da quando sono tornato non parlo con nessuno. Ma continuo a sognare. Faccio sogni strani. Mi sveglio nel buio, caldo e sudato come quando stavo male in galera. Male da morire. Febbre. Tutti abbiamo preso la febbre alta. Molti sono crepati come mosche. Io no.

Mi stupisco che non sappia il mio nome. Quest’anima m’inquieta: è inviata da Dio?

— Sia lodato Gesù Cristo. Figliolo, devi rispondere con sempre sia lodato. — Ignora le mie parole. Ma non mi do per vinto e lo incalzo: — Mi chiamo Don Andrea Bava. Così ora lo sai. Cosa sogni figliolo? Apriti davanti a Dio, purificati l’anima e sconfiggi il maligno. — Come al solito si mette a parlare d’altro. Guardo sopra la sua spalla e vedo alcune teste chine nascoste dalle velette nere. In attesa. Bastianin si è già dimenticato il mio nome.

— Reverendo, i preti sognano? Voglio dire, voi siete come noialtri, vero? O no?

Ora ne sono certo. L’Altissimo Onnipotente mi sta mettendo alla prova. Tento di cambiare discorso, ma Bastianin insiste. Dovrei essere io a condurre la confessione.

— Ecco, quello che volevo chiedervi è questo. Fare sogni strani è peccato? Intendo … donne e uomini insieme … gente che muore di malattie… scimmioni che corrono via… Cose così insomma.

Con la mente ritorno al sogno che mi ha raccontato. Ma chi è veramente lo scimmione che scappa? Quel giovane o Bastianin? Cerco di ricordare quel che ho imparato in seminario.

— Per ognuno di noi Dio ha un disegno misterioso. L’Altissimo ha parlato nel sonno a Giacobbe, Giuda Maccabeo, San Giuseppe. Come vedi sei in buona compagnia ma …

M’interrompe.

—  Stanotte ho sognato un tizio vestito di nero. Dietro ad una cornice di pietra. Piangeva come una fontana. Il diavolo mi vuole dire qualcosa? Oppure Dio? Tra un po’ succederà un guaio. Lo sento.

Decido di dargli una penitenza e tento di congedarlo. Prima però lo ammonisco.

— Non bestemmiare nella casa del Signore! Solo Dio ha il potere di predire quel che accadrà. Io, nei tuoi confronti, sono giudice e medico. Si fa peccato anche sognando, certo. Recita subito un pater noster e un’avemaria. Questa sera prima di coricarti dirai dieci pater noster e dieci avemarie. Ego te absolvo a peccatis tuis in nomine Patri et Filii et Spiritus Sancti.

Parlo in latino per impressionarlo. In verità non so se sono io che confesso o il contrario. Dio mi perdoni, ma credo che quest’uomo sia un po’ matto.

— Sapete, reverendo, esco solo la sera tardi, oppure di notte, e in giro vedo delle cose che non capisco.

Poi torno a casa e i sogni che faccio sono tremendi. Sempre quell’uomo vestito di nero.

Fatica a ricordare il pater noster e l’avemaria. Alla fine ci riesce. Quindi si alza e va via senza salutare.

Faccio ammenda a me stesso per non essere ancora riuscito a redimere quest’anima. M’impongo di riuscirci e basta. Passo un fazzoletto sulla faccia per asciugare il sudore. Sopporto il caldo con rassegnazione. Anche per questo sabato finisco di confessare, le pie donne se ne vanno una per volta, in silenzio. Chissà perché vengono qui tutte le volte: sono creature tra le più lontane dall’essere peccatrici. Ma tant’è. Vado a dormire, ma fatico a prendere sonno. Anche se non dovrei, ho paura di sognare. E il sogno arriva, come una delle sette piaghe d’Egitto. Pietre enormi che rotolano lungo un ruscello ripido e una stanza piena di soldati. Che cosa mi vuole dire l’Altissimo?

Una sera, sul tardi, sto tornando dalla cascina della Bruciata dopo un’estrema unzione, ho con me la lampada all’acetilene per farmi chiaro e vicino all’argine del Rio della Barca mi sento chiamare.

— Reverendo, che fate? Prendete il fresco?

Fuori dal confessionale l’uomo ha abbandonato il sussurro, la voce è diversa.

— Buonasera Bastianin. — Sono inquieto, però non dovrei. — È caldo, vero? — Mi guarda e sorride. Gira gli occhi tutt’ intorno, poi inizia di nuovo a parlare sottovoce.

— Ho sognato di nuovo. Ho capito chi è l’uomo nero. Siete Voi. Stanotte eravate abbracciato con una femmina. Cantavate una canzone da chiesa. Eravate allegro. E allora ho capito. È la donna che nascondete in canonica.  Che poi non è proprio una perpetua, vero, reverendo? Ve l’ho detto, io giro di notte. Dormo poco. Come facevo in galera. Ho visto il mio sogno. Da una finestra illuminata.

Resto pietrificato.

Bastianin parla veloce e io mi faccio il segno della croce più volte, gli dico di stare zitto. Sì: è matto. Alzo la lampada. Lo guardo bene in faccia. La voce è cambiata. Ma gli occhi no. L’ho riconosciuto, prima della guerra, a Treviso, voleva essere riformato, era un attaccabrighe, i preti gli andavano poco a genio e io più degli altri. Mai saputo il suo nome. E ora me lo ritrovo davanti. Mi colpisce sulle spalle con due mani. Indietreggio. Vuole danaro? Fino a che punto sa di me? Poi capisco. Bastianin sta sognando, e io sono parte del suo sogno. Solo che i suoi occhi azzurri che mi fissano sono reali, dopo che l’ho spinto giù nel greto del ruscello, li vedo quando scendo l’argine puntando la lampada su quel corpo immobile, vedo la faccia che guarda verso le stelle del cielo. E la testa spaccata. M’inginocchio e recito il santo rosario. Resto lì sino a che non arriva l’alba, quando mi decido a venire in caserma da voi, brigadiere. Lo troverete là, nel greto del Rio della Barca.

Questo è molto. Ma non ancora tutto. Il brigadiere dei carabinieri ascolta in silenzio il mio racconto. Lo sguardo fisso su di me, come un buon padre con il figlio. Alla fine sospira.

— Reverendo, quello che state dicendo mi sconcerta. Voi capite che mi risulta difficile … sì insomma … la faccenda dei sogni, e ora voi mi dite che addirittura troveremo il cadavere del Bastianin laggiù …

Lo interrompo. — Sì, comprendo. Ma è la semplice verità.

— E se è vero che nascondete una donna in chiesa, devo avvertire il maresciallo, poi sapete a cosa andate incontro, vero? Perché un sacerdote che ha un …

— Non è come pensate voi, brigadiere. — prendo anch’io un bel respiro.

— Ebbene, io sono il padre di quella donna.

— Ma cosa dite …

— Sì brigadiere. È mia figlia. — Il brigadiere continua a guardarmi incredulo, nero di sonno. Poi riprende.

— Reverendo, cosa c’entrano i sogni in questa storia?

— Spesso il volere di Dio è misterioso. Ha voluto sul mio cammino quell’uomo con i suoi sogni rivelatori, Bastianin. Ha voluto che venisse alla luce la verità, mi ha liberato da un peso che gravava su di me da anni e ha liberato anche mia figlia. Sapete brigadiere, c’è un tempo per uccidere e un tempo per sanare, così vuole l’Altissimo, ed è quello che è accaduto.

Ora, per cortesia, avvertite pure il maresciallo.