Racconto di Elisabetta Tocchetti
(Seconda pubblicazione)
Ci vuole materia, Ruben, immergi il pennello e butta il colore sulla tela, crea strati, spessori, consistenze: la materia è vita. Metti in ogni dipinto tutta la materia possibile. Tutta la vita possibile. Solo così diventerai un grande pittore, i tuoi quadri riempiranno i musei e il tuo nome, un giorno, finirà nei libri di storia dell’arte.
La materia è vita.
Ruben spremette sulla tavolozza un ricciolo di colore dal tubetto e ne annusò l’odore intenso, che andò a fondersi con l’essenza di trementina di cui lo studio nel sottotetto era già saturo. Immerse il pennello e trasferì il colore sulla tela, sovrapponendo strati e creando increspature ondulate, zone d’ombra e di luce. Materia. Vita.
Si fermò ad ascoltare il brusio proveniente dalle tele appoggiate sul pavimento con la faccia rivolta al muro. Il borbottio sommesso delle voci lasciava intuire solo qualche parola, ma Ruben afferrò il senso dei discorsi. Da qualche giorno i ritratti finiti, in attesa di consegna ai committenti, non parlavano d’altro. La Baronessa stava dicendo: non è così che si fa, Maestro Ruben, devi dipingere dal vero, come puoi catturare un’anima se non la respiri e la vivi? La Figlia Del Colonnello la sosteneva, e anche Il Commendatore si era intromesso per dire la sua. E La Signora In Ombra, poi, persino lei, che non parlava mai, si era lanciata nella discussione. Il Ritratto Di Bambina Con Le Trecce, Il Direttore D’Orchestra, insomma, concordavano tutti. Che avessero ragione loro?
Era la prima volta che Ruben dipingeva senza un modello in carne e ossa. Vorrei un ritratto cento per settanta, gli aveva scritto Santiago Rivera Beltran allegando alla lettera una serie di fotografie e un assegno. Ruben aveva esitato – tutti quei soldi solo per un ritratto? – poi si era lasciato convincere. Era impossibile rifiutare un’offerta così, ma dipingere copiando da una manciata di fotografie si stava rivelando difficile. Non era così che avrebbe potuto imprigionare l’anima nella tela, i ritratti avevano ragione. Per questo li aveva voltati tutti, faccia al muro. Quegli occhi sempre puntati sulla schiena, quelle sopracciglia inarcate, le bocche pronte a criticare, basta, non ne poteva più.
Si allontanò leggermente dalla tela e osservò, nelle fotografie sparpagliate sul tavolo, la donna dai capelli neri e gli occhi azzurri. In alcune immagini ravvicinate sorrideva, in altre sembrava triste e assente, non guardava l’obiettivo, gli occhi fissi su qualcosa che solo lei vedeva. Indossava sempre una catenina con un ciondolo a forma di conchiglia. Ruben l’avrebbe dipinto dopo aver definito le linee del collo. Prese in mano un primo piano e lo confrontò con la bozza sulla tela, dove i capelli sciolti scoprivano l’orecchio sinistro. Somigliante, sì, ma non era soddisfatto. Non ancora.
Posò il primo piano e si concentrò su uno scatto a figura intera. Lì la donna era in piedi su uno scoglio, con un’onda che si sollevava dietro la schiena proprio nel momento del clic. C’era qualcosa di vivo in quell’immagine, un’idea di movimento, il boato della burrasca, le sferzate del vento, il profumo della salsedine nei capelli. Decise che avrebbe usato il mare come sfondo.
Aggiunse qualche nuova pennellata e osservò il risultato, poi pulì il pennello nello straccio e lo mise a mollo nel solvente. Per il momento poteva bastare, aveva bisogno di un cognac e di una dormita. Ignorò le voci risentite dei ritratti e scese al piano di sotto.
Il mattino dopo si svegliò avvolto in un bozzolo di lenzuola umide. Il ventilatore a soffitto era spento e dalla finestra aperta entravano ondate di afa e puzza di catrame sciolto al sole. Doveva essere passato mezzogiorno, le strade di Barcellona cuocevano nella calura d’agosto, sotto un cielo turchese chiaro velato da una leggera foschia grigio perla. Non ricordava il momento in cui era crollato sul letto, i ricordi della sera precedente sbiadivano in una nebbia alcolica che sapeva ancora di cognac. Aveva perso il conto dei bicchieri. Si vestì e salì allo studio nel sottotetto, dove i grandi lucernari rovesciavano sul pavimento la luce intensa del primo pomeriggio.
Da un rumore di passi sulle scale riconobbe Milagros. Era già mercoledì.
«Oggi no», urlò sentendo il lieve bussare alla porta dello studio, «fai solo il piano di sotto».
«Ma anche la settimana scorsa mi ha detto di pulire solo di sotto, Maestro Vargas» disse Milagros. «Quando pulisco qui? Si ricorda che poi vado in vacanza?».
Ruben non si preoccupò di risponderle perché, quando si piazzò davanti alla tela, incontrò uno sguardo attento che seguiva tutti i suoi movimenti. Dunque, la Baronessa sbagliava. Sbagliavano tutti. Era possibile catturare l’anima anche copiando dalle fotografie. Il ritratto cominciava a prendere vita. Per un po’, Ruben si concentrò sulle pennellate, poi fece una pausa e andò a spalancare la porta-finestra del terrazzino. L’aria calda entrò nello studio come una marea di melassa rovente.
I ritratti borbottarono qualcosa, forse soffrivano il caldo anche loro, poi tacquero di colpo e una voce nuova si fece sentire in mezzo al silenzio.
«Dove sei, Ruben?» disse il Ritratto Di Donna Con Ciondolo. «Torna da me, Maestro. Sono ancora così incompleta, così imperfetta.» La voce era ruvida, spettinata come i capelli aggrovigliati dal vento nella fotografia sullo scoglio.
Ruben prese la tavolozza, dove un ricciolo di rosso intenso aspettava solo di essere trasferito sulla tela, e immerse un pennello pulito nel colore denso, burroso. Materia su materia, per definire quelle labbra piene, morbide e corpose, incurvate in un accenno di sorriso. Dopo aver finito la bocca, Ruben la vide così perfetta, e viva, che dovette frenare l’impulso di baciarla. Non gli era mai successo di innamorarsi di un ritratto. Non pensava potesse succedere, non a lui. Passò l’indice sopra la bocca e il colore bagnato si trasferì sulla pelle, una macchia rossa che colava, sembrava una goccia di sangue.
«Voglio altro colore. Ti prego, Ruben, ne voglio ancora.»
Quando le ombre si allungarono e il cielo divenne color ametista, Ruben aveva già terminato il ritratto. La curva della mascella era sublime, il nero dei capelli aveva bagliori violetti e blu di Prussia, la pelle era rosea, il ciondolo a forma di conchiglia brillava ipnotico. Sullo sfondo, il mare: vortici di blu ceruleo, oltremare chiaro e scuro, celeste e turchese, e poi bianco, mille piccoli lampi di bianco sulle creste delle onde. Anche il mare era vivo.
Ruben si pulì le mani sulla maglietta, che puzzava di sudore e trementina. Il coro di voci dei ritratti si fece risentire, la Baronessa sembrava arrabbiata. No, forse più preoccupata che arrabbiata. Non ascoltare quella donna stava dicendo, non è come noi, Ruben, è pericolosa, non la conosci. I ritratti erano d’accordo con lei, si levò un coro per sostenerla.
«Resta con me, Ruben», disse il Ritratto Di Donna Con Ciondolo, la voce che sovrastava tutte le altre.
«Dimmi chi sei. Conosci il mio nome, dimmi il tuo.»
«Io sono Blanca.»
Ruben protese una mano verso di lei, le sue dita incontrarono la guancia sulla tela. Era calda. Viva. Era carne e sangue, materia, l’aveva creata lui, avrebbe potuto ricrearla ancora, infinite volte. Si avvicinò, fino a quando poté respirare fra i suoi capelli, che sapevano di acquaragia e salsedine, di trementina e di vento. La sentiva, ne percepiva la consistenza: materia, colore, carne. Vita.
Solvente.
La stanza sfumò in un vapore blu. Onde blu, acqua blu. Acqua ovunque, sopra, sotto, intorno. Ruben si ritrovò ad affogare sotto pennellate d’acqua gelida che gli rotolarono addosso, materia su materia, vortici di materia che toglievano il fiato. Trascinato da una forza oscura in quell’abisso di freddo liquido, rabbrividì e annaspò in cerca d’aria, mentre tutto il suo mondo annegava in un silenzio blu notte.
La risata di Blanca attraversò quel silenzio. Era una risata a colori, che esplose in una grande fiammata. Intorno a lei, il blu divenne giallo, poi fu inghiottito dal rosso. Rosso fuoco. Fuoco, ancora fuoco, fuoco ovunque. Fiamme che divoravano i pennelli, le tavolozze, i pigmenti e i barattoli di trementina, fiamme che bucavano le travi del soffitto, consumavano le pareti, ululavano la loro rabbia incandescente fuori dai lucernari, oltre i tetti, su, su, verso il cielo nero punteggiato di stelle.
Ruben tentò di lanciarsi in mezzo all’incendio, ma vortici di blu ceruleo, celeste e azzurro lo riportarono indietro. I ritratti si contorcevano urlando in una danza macabra, mentre Blanca rideva ancora, coprendo le voci sempre più deboli. Un lampo maligno attraversò i suoi occhi blu oltremare quando incrociarono quelli di Ruben, ormai prigioniero della tela.
«Blanca, aiutami, fammi uscire. Portami via con te.»
Un’ultima pioggia di scintille, braci fumanti, cenere calda.
Lei non c’era già più.
Un giorno assolato di giugno, Milagros Sandoval camminava lungo un vialetto del cimitero di San Andrés, tenendo fra le mani un mazzetto di erica violetta.
Da quando il Maestro Ruben Vargas era morto, l’estate precedente, si era trovata un’altra casa da pulire il mercoledì. Il cambio non era le era dispiaciuto, i suoi nuovi datori di lavoro non erano scorbutici come il pittore. Lui sì che era stato un tipo difficile. Ma alla fine, poveretto, le faceva anche un po’ pena, per la brutta fine che aveva fatto. Bruciato vivo – Madre de Dios! – nell’incendio del suo studio. Da quel rogo spaventoso non si era salvato niente, nemmeno il cadavere. Tutto distrutto, tranne – che strano – un solo quadro, un autoritratto che la critica aveva definito un capolavoro. Lo avevano esposto al Museo di Arte Contemporanea, in centro. Lei era andata a vederlo e non le era parso un granché, con quegli strani occhi spiritati, che sembravano muoversi e le avevano fatto una paura del diavolo. Sembrava… Sì, ecco, sembrava vivo, come se da un momento all’altro avesse potuto uscire dalla cornice. Ma, in fondo, Milagros non capiva niente di pittura, di arte e di tutta quella roba lì, né ci teneva a capire. Era solo dispiaciuta, quello sì, perché il Maestro Vargas, in tutti quegli anni in cui gli aveva pulito la casa, era sempre stato solo. Non un parente, un amico, un amore, niente. Solo. Da solo era vissuto e da solo era morto. Per questo, quando lei andava a trovare il suo povero marito al cimitero, non mancava mai di fare una visita anche alla tomba del Maestro.
Dopo aver deposto l’erica sulla lapide, recitò una preghiera e si allontanò lungo il vialetto. Mentre attraversava il nucleo più antico del cimitero, popolato dalle tombe delle famiglie più in vista di Barcellona, il suo sguardo fu attratto da un lampo di luce. Incuriosita, si avvicinò all’unica lapide che i rampicanti non avevano ancora invaso del tutto e lesse l’iscrizione incisa nel marmo.
“Blanca Rivera Beltran – Per sempre viva”.
Ai piedi della lapide, un luccichio metallico: una catenina con un ciondolo a forma di conchiglia. Milagros si chinò e la prese fra le dita. Era tiepida, come se qualcuno se la fosse appena sfilata dal collo. Ma, forse, era solo calda di sole, perché in giro non c’era nessuno.
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