Racconto di Simonetta Belloni
(Prima pubblicazione – 20 luglio 2020)
Avrei voluto ucciderlo per la sua ignoranza ma, non riuscendo nell’intento, lo dovetti lasciare sprofondare nelle proprie convinzioni.
Quella primavera mi trovavo a Firenze, perché è bella e val la pena viverla appieno tutto l’anno ma siccome impegni improrogabili mi portavano lontano in giro per il mondo per buona parte dell’anno, quindi mi dovevo accontentare.
Una mattina sul tardi, l’aria frizzantina mi accompagnava nella consueta passeggiata che mi vedeva lasciare casa in via Degli Strozzi, per dirigermi a Ponte Vecchio e, una volta in Oltrarno raggiungere piazza Santa Felicita, dove mi apprestavo a fare sosta in una antica osteria per degustare dell’ottimo vino accompagnato da formaggi locali e perché no, magari un delizioso crostone con la milza ed altre prelibatezze toscane preparate da Miro, il vecchio proprietario dal passato da vero buttero, che sapeva come trattare ogni sorta di avventore del locale a seconda della simpatia che provava a pelle, avrebbe persino potuto far scappare le persone a gambe levate.
Io ovviamente non mi posso definire un fiorentino doc ma essendo vissuto per molti anni durante la gioventù nella fantastica città di Firenze, ne avevo assorbito la classica parlata romanza, dunque me la cavavo sia nel capire che nel esprimermi in vernacolo e, per spiegare il rispetto e la stima che Miro provava per me, mi si rivolgeva con l’encomiabile appellativo di dottore.
Mi ero da poco accomodato ad un tavolo esterno, dato che la giornata meritava essendo che il sole filtrando attraverso le fronde di un maestoso pergolato, si sentiva addosso volentieri, potevo rimirare dinnanzi a me l’enorme calice contenente quattro dita di uno stupendo cupo rosso rubino, che l’oste, senza dire una parola ma solo con un gioco di sguardi, aveva stappato appositamente per me. Un calice appositamente strutturato per permettere la naturale ossigenazione del vino, in quel caso dalle note tanniche setose, le più melodiose che avessi nei ricordi, godevo quindi della circostanza assaporando con lieve malinconica delizia, mentre pensavo alla piccola barrique di rovere tostato che lo aveva portato in grembo anni prima, durante l’elevazione o così detta maturazione.
Ad un tratto fui distolto da quei languidi pensieri, dalla presenza di un uomo alto e dinoccolato, sui cinquant’anni e dallo sguardo semi intelligente, che si apprestava a prendere posto proprio al tavolino accanto al mio e così, ritrovandoci affiancati dalla casualità educatamente ci presentammo. Giovanni … dissi tendendo la mano in un gesto classico e fuori dal tempo, di rimando Edoardo accolse e contraccambiò benevolmente la stretta di mano, purtroppo ricordo ancora quel nome nonostante avrei dovuto dimenticarlo subito dopo essere venuto a conoscenza del vergognoso vizietto di cui era portatore sano invece fu proprio quello il motivo che me lo fece ricordare negli anni a venire.
Mi chiese consiglio su quale vino avrebbe dovuto ordinare “per bere bene”, quando sarebbe arrivato il cameriere per le comande, ricordo nettamente quelle parole, gli risposi che mi stavo beando nelle volute di un Masseto Cru affinato nelle cantine dell’Ornellaia, omettendo volutamente la data di produzione per capire quanto fosse sviluppata la sua cultura enologica, ma non ottenni alcuna soddisfazione.
Chissà per quale motivo mi sentii di aggiungere che, se me lo avesse permesso, sarei stato felice di offrire il primo calice, egli acconsentì senza fare una piega e, mentre si aspettava pazientemente il servizio al tavolo, ci si rilassava facendo due chiacchiere del più e del meno senza mai entrare nella sfera privata.
All’arrivo dell’oste mi prodigai ordinando per lui lo stesso meraviglioso vino che stavo ancora coccolando rigirando il calice tra le mani per rimirarne i bagliori ma soprattutto per mantenerlo alla giusta temperatura, diciotto gradi sarebbero stati perfetti, intanto non mi sfuggì ciò che Edoardo aggiunse alla ordinazione … “porti anche dell’acqua!” Inorridii sentendo quelle parole e spalancai gli occhi stranito alzando un sopracciglio con fare interrogativo … come sarebbe servita dell’acqua a quel tavolo, per quale motivo ordinarla? Presto il cameriere servì quell’ uomo che, col senno di poi dovetti definire un grande ignorante, uno sconosciuto che meritava di rimanere tale e ancor oggi mi pento di aver accolto tanto calorosamente. Sul tavolo ora stavano: un enorme calice con le stesse quattro dita dello stesso mio vino che emanava meravigliosi bagliori color rubino cupo, lo stesso che io centellinavo ritenendolo un tesoro e, proprio accanto, una inelegante piccola bottiglia di una generica acqua minerale con annesso misero bicchiere.
Edoardo prese subito il calice tra le mani e, portandoselo vicino al viso mi meravigliò come ne inspirò gli effluvi, ma poi … giù una generosa sorsata! Sicuramente non era al corrente del fatto che il vino andando ad ossigenarsi, ad ogni secondo che passava, avrebbe avuto il potere di cambiare le proprie note aromatiche, acquisendo tratti diversi e sempre migliori, in quel caso … mirtilli maturi, more, frutti di bosco, morbide note di vaniglia e cacao, tabacco e … tartufo nero.
Era di questo che si sarebbe dovuto beare, invece di trangugiarne una sorsata, senza nemmeno tenerselo in bocca il tempo necessario per permettere l’estasi di ogni papilla gustativa di cui era provvisto, o forse no! A quel punto mi sentivo alquanto disturbato da quella strana persona che niente aveva a che vedere col mio mondo, probabilmente si era accomodato in quella osteria prendendola per un bar, col solo scopo di dissetarsi e stava facendo soltanto quello che gli dettava la sete.
Credevo di aver visto tutto quando ad un tratto, presa la bottiglietta di acqua in una mano con l’altra svitò il tappo, Edoardo si apprestava a rovesciarne una generosa quantità dentro al calice divino, dove ancora stava buona parte del favoloso nettare, non resistetti un secondo in più e, mentre il mio viso si trasmutava nel protagonista del famoso dipinto “l’urlo di Munch” i miei occhi videro cambiare nettamente il colore di quell’intruglio che ormai stava nel calice, trasformato in un rosa pallido sciacquato .
Alzandomi in piedi ebbi uno scatto da rovesciare addirittura la sedia mentre dalla mia gola eruttò un urlo terrificante che credo udirono fino ai confini della città …NOOOO … MA CHE FA?! Di corsa arrivò il buon Miro che, capendo al volo la situazione, provò grande soddisfazione nello sbattere fuori dalla sua osteria quel cliente depravato che aveva infranto il galateo enologico e con esso, il mio cuore.
Spaventato e non ancora consapevole dell’avvenuto, Edoardo se ne stava seduto a terra in mezzo alla piazza, tutto spettinato e con la giacca in disordine, chissà se gli servì da lezione?
Io invece non mi ripresi mai completamente da quel esecrabile episodio, infatti ancor oggi tendo a non dare confidenza agli sconosciuti, soprattutto quando mi trovo in modalità relax, meglio soli che mal accompagnati … dico io!!
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