Racconto di Luigina Parisi
(Prima pubblicazione – 26 marzo 2021)
Costruiva castelli di sabbia da bambina. Li dotava sempre di ponti verso il mare e ampie terrazze, da dove si poteva guardare il cielo, nelle sere d’estate. Si immaginava distesa tra il cielo e il mare, lei fatta di sabbia, pronta a disperdersi in granelli che, presi dalla brezza serale, avrebbero compiuto voli immaginifici. Tutto in movimento, tutto nuovo in ogni istante della sua vita. È così che sognava la sua esistenza, in perpetuo moto, lei parte del tutto.
A scuola imparò a stare seduta, lei che non conosceva soste, poi imparò a parlare solo se richiesto, a non uscire dal tema, a colorare entro i bordi coi colori richiesti dal caso, senza poter immaginare gli alberi azzurri, il cielo giallo. Imparò a chiedere permesso prima di entrare nella vita di qualcuno, a scusarsi, a sorridere, a cedere il passo, a essere brava, nonostante il suo lupo che ringhiava.
Sta buono, le diceva, quando la sera stesa sul letto fissava il soffitto, dove le scorrevano come in un film le scene che non aveva vissuto, come fossero refusi, provini sbagliati, di un cortometraggio cestinato. Ma il lupo ringhiava molesto, accucciato vicino al suo letto, nell’ombra in cui lei lo aveva relegato.
Domò quel lupo che le correva dentro, sconfinando spesso, senza rispettare i suoi margini che divenivano sempre più solidi e impermeabili, sempre più grigi, ma sempre più sferzati dal vento che sapeva di lei e dei suoi mille voli, sapeva di Icaro che viveva tra i suoi neuroni, ribelle e sempre pronto a varcare i limiti, amante dell’oltre contro la ragione, subdola carceriera di sogni.
Dove l’avevano condotta i suoi passi di giovane donna assennata, garbata nel vestire di sobri tessuti quando invece sognava l’arancio abbinato al verde smeraldo e al giallo di un giorno di giugno?
Era un passero, ma sognava i colori del vento sulle piume di un maestoso pappagallo variopinto. Era terra bruciata dal sole, con sterpaglia comune a intralciare i passi dei bambini, che per fortuna non hanno voluto o potuto arrivare. Ma erano lì nella sua mente a giocare con ciò che era rimasto di sano e incontaminato dal mondo, che ignorava di lei, del suo grido di madre mancata, del suo dolore di figlia inquadrata, e si nutriva del suo sorriso di sposa misurato, appropriato.
Ma il lupo digrignava i denti la notte, quando il mondo taceva. La teneva sveglia a guardare il soffitto su cui scorreva una vita non sua, dove un ruscello nutriva cespugli di fiori selvatici e rovi, dove uccelli e foglie si muovevano mescolando le scie, dove lei nuda si muoveva come regina di una tribù dimenticata.
Tutto intorno odore di cloro, pareti bianche e mobili di formica a spegnere la vita che si ribella come un lupo in gabbia.
Delle stringhe la tenevano legata al letto, perché il lupo non la facesse alzare e muovere passi in un ambiente dove era meglio restare fermi e non disturbare. Ma gli ululati dei ricoverati insieme al suo, soprattutto nelle notti di luna, quando la luce si ritagliava spazi su quelle pareti senza quadri, si libravano nell’aria rendendo inquieto il sonno del sorvegliante del turno di notte.
Di giorno i lupi dormivano, quietati dal vociare, ora sommesso, ora squillante, che risuonava nei corridoi, percorsi da carrelli metallici, senza un filo d’olio alle ruote, e da strani mix di farmaci a rendere meno dolorosa quella specie di vita guidata da geni che non sapevano o non volevano spegnersi.
L’ora di pranzo si andava tutti nel refettorio dove veniva servito il pranzo che non aveva mai sapore; il pesce poteva essere carne, la minestra sapeva sempre di cavolo e a lei i cavoli non erano mai piaciuti. Ma non si lamentava mai, mangiava a testa china senza parlare con nessuno, lentamente perché i gesti le costavano fatica, come tenere dritta la testa e gli occhi aperti. Non aveva uno specchio in camera e neanche in bagno ve ne era uno, per cui aveva quasi scordato il suo viso e il colore dei suoi occhi.
Ma si vedeva negli occhi degli altri che la guardavano con quel fare spento come doveva essere il suo. I medici, le suore e gli inservienti non contavano. Per loro non erano che una pratica di lavoro, un compito da assolvere prima di riuscire a tornare a casa. E una volta tornati a casa facevano di tutto per dimenticare quei volti smunti, quell’ululare di lupi, quelle solitudini inguaribili su sentieri che nessuno vedeva, se non gli occhi dei folli che li percorrevano. Per vivere bisogna avere la capacità di rimuovere il dolore degli altri, insieme agli spettri che a volte si riesce a intravedere negli occhi persi di chi guarda vedendo immagini e storie invisibili alla luce del senno. Per sorridere mentre si spinge una altalena bisogna dimenticare le stringhe dei letti che serrano polsi e le lunghe file di compresse avvolte in piccoli pezzi di carta poste sul carrello, distribuite la sera per sedare i fantasmi e far tacere i lupi. Ma i lupi sono resistenti al sonno e traggono dalla notte energia sufficiente a infastidire il sonno di chi vorrebbe dormire.
Sara sfibrata dalla vita reclusa dietro una finestra, dotata di sbarre di ferro, guarda il giardino restando seduta sulla sua sedia accostata vicinissima al vetro per poter schiacciare il viso su di esso e cogliere dell’esterno persino la carezza del vento. Vede gente che entra e gente che esce tutto il giorno. Ma nella sua stanza non entra mai nessuno. Tranne sua madre, ogni tanto. La va a trovare portandole fiori, diversi ogni volta. Quando fuori è ormai buio, usa quei vetri come specchi e si pettina a lungo i capelli, anche se ora sono corti e non ne vede più il colore. La spazzola continua il lavoro andando oltre la lunghezza dei capelli, proseguendo a pettinare l’aria che un tempo conteneva quei capelli lunghi e dorati di fata.
“Ancora fiori, mamma? Sai che qui non li posso tenere? Me li portano via appena esci da questa stanza. Dicono che profumano troppo e fanno sognare. Qui è vietato sognare. Perché non dici mai una parola? Perché non mi racconti una storia come quando ero piccina e mi addormentavo tra le tue braccia?”
La madre non risponde mai alle sue domande, perché non ha voce, perché è frutto dei suoi ricordi e della sua fantasia. La vede bella e truccata, coi capelli cotonati e alti in testa come non li ha mai avuti. È vestita con abiti da gran signora e ha sempre quella borsa che un giorno aveva visto in un negozio di lusso. Costava troppo, le disse, non possiamo permettercela. Ma la guardava ogni volta che passava da lì. Lei avrebbe voluto comprargliela e per questo metteva da parte i pochi spiccioli che riusciva ad avere; li nascondeva in una scatolina di latta, di quelle che un tempo erano usate per i biscotti dei poppanti.
Un giorno, quando immaginò di averne abbastanza, andò nel negozio di borse, versando il contenuto della scatolina sul bancone di fronte alla commessa, chiedendo il costo di quella borsa. Le commesse si misero a ridere e le dissero di tornare quando ne avesse avuti molti di più. Quella notte non riuscì a dormire, perché quelle risate le rimbombavano nella testa. L’avevano presa in giro. Avevano preso in giro la sua voglia di fare un regalo alla mamma. L’avevano trattata come fosse una stupida o una bambina piccola. Ma lei non lo era, lei aveva già sei anni. Però ora che sua madre veniva a trovarla aveva quella borsa appesa al braccio, e la portava con orgoglio. Forse alla fine era riuscita a comprargliela, ma questo non lo ricordava. Dimenticava troppe cose ora, non ricordava neanche quanti anni avesse, ma di sicuro più di sei, si diceva. Ma ciò che ricordava le bastava per attraversare quei giorni tutti uguali, fatti di corridoi lunghi e bianchi, di docce fatte da un inserviente dalle mani lunghe e schifose; ciò che ricordava era un luogo di luna, era la magia delle vesti bagnate di mare, scaldate da abbracci impetuosi, era l’ombra che si stendeva sul suo corpo per portarla nel suo castello di sabbia, dove Idrusa insieme a lei sognava e respirava l’amore. Dove era quell’amore ora? Perché l’aveva abbandonata in quel posto lontano da Dio? Il lupo tornava a ringhiare e lei a urlare.
Arrivano; le fanno scorrere nelle vene un liquido trasparente fino a farla morire un’altra volta. E nel sonno, spesso senza sogni, quella volta ricordò voli di gabbiani con cui un tempo contornava i giorni, i ciuffi d’erba appena sbucati, il rumore di passi sui selciati, le nuvole passanti su cieli immensi.
Sognò di quella speranza con cui da bambina imbastiva gli orli alle giornate. Al risveglio intorpidita e stanca se ne nutrì, mentre pian piano smise di mangiare, e il suo parlare divenne sempre più breve e sincopato, perché era altrove, in un posto incantato di more e di madri che spingevano altalene, col sorriso appagato di chi c’è davvero. Sua madre non c’era, non c’era più, forse era scappata o il mare l’aveva risucchiata, come qualcuno diceva. Era stata colpa sua e di quella borsa che non era riuscita a comprare, delle commesse che avevano riso, di suo padre che non aveva capito.
E’ molto delicato il modo in cui viene descritto il disagio mentale di Sara. Complimenti.
Bellissimo pezzo Luigina. L’ho letto tutto d’un fiato e ho immaginato Sara al centro di un palcoscenico con una tunica bianca che si racconta. Quando si potrà tornare in teatro ti chiederò il permesso per metterlo in scena. Sei molto brava nell”esporre le storie, i sentimenti e gli stati d’animo. Complimenti.
Le parole creano immagini lucide e discrete, sarebbe davvero interessante vederlo realizzato a teatro!
Complimenti all’autrice!