Racconto di Maurizio Fierro

(seconda pubblicazione – 25 settembre 2020)

 

 

Patrick Nightingale è un uomo tranquillo. Avete presente quei tizi che sembrano fluttuare sopra la propria esistenza senza mai decidersi a planarci dentro veramente? Quelli che cercano di tenersi alla larga dalle trappole che la vita dissemina sul cammino? Ecco, te lo potresti immaginare di notte, intento a spegnere un incendio in cucina facendo attenzione a non fare troppo rumore, giusto per non svegliare i vicini. Poi però capita che il Destino lo riconosca fra la folla e decida che sì, Patrick Nightingale è il tipo giusto per divertirsi un po’. E allora gli spedisce in regalo dei nuovi vicini di casa, e all’improvviso tutto cambia, nella sua vita. Uno di quei famosi punti di svolta, giusto?

Ma la questione è un’altra. Perché quando il Destino ti individua, tu puoi anche cercare di allontanarti da lui, ma è lui che non si vuole più allontanare da te.

La volta prima era stata alla vigilia del Giorno del Ringraziamento.

«Ho paura», disse Helen.

Sbuffai.

Helen ruotò gli occhi, fissandomi. «Sembra che la cosa non ti preoccupi, invece dovrebbe. Hai sentito anche tu, come urlavano, no?»

Annuii, continuando a sfogliare “American Drive”.

Disse: «Ma lo fai apposta, allora. Hai capito? Lui se n’è andato, come al solito. Patrick, mi stai a sentire?»

Avvertivo le palpebre farsi pesanti.

Disse: «Ehi, non avrai intenzione di addormentarti così, come se niente fosse. Io non sono tranquilla. Lo vuoi capire o no?» Poi aggiunse: «E quella povera Dora? Io ho paura che quel Joe le abbia fatto del male. Ma a te, a quanto pare, non interessa».

Non che non avessi sentito, prima. Le vibrazioni dei toni che crescevano, le urla, il clangore delle padelle e il fracasso dei piatti rotti. Poi lo stridere delle gomme del pick-up di Joe, che usciva dal garage allontanandosi a velocità folle; e il silenzio che seguì, come se una nuvola di ghiaccio avesse avvolto quella porzione di quartiere gelando cose e persone, tutt’intorno.

Joe e Dora Flaming erano i nostri vicini da circa tre anni, da quando i Martins si erano trasferiti in Minnesota. Loro, Jim e Lorene Martins, erano stati i nostri vicini per una vita. Villette a schiera contigue, figli nelle stesse classi, e barbecue d’obbligo nei weekend di Gateway Street. Poi Jim aveva dovuto accettare quel trasferimento per lavoro a Minneapolis, e nel mattino grigio di una giornata qualunque, i Martins partirono.

Quando dalla finestra vide per la prima volta i Flaming armeggiare con i bagagli, mia moglie Helen impallidì. «Non ti sembrano un po’ strani, quei due?» disse. Poi mi fissò, come se avessi scritto in volto la risposta a una domanda definitiva, e in quel momento intuii che una stagione era trascorsa. E che quella che si annunciava avrebbe portato con sé vento di tempesta.

«Tipi strani», confermò. Tutto iniziò così.

Ricordo che quel giorno uscii sul vialetto e mi avvicinai al cancello d’entrata per le presentazioni.

«Siete i nuovi vicini, immagino? Mi chiamo Patrick. Bene, io e mia moglie Helen vi diamo i benvenuti a Brownsville!».

Joe Flaming mi rivolse un sorriso con la stessa spontaneità di un animatore turistico, e quel sorriso sarebbe rimasto il suo tratto distintivo nei nostri fugaci incontri di Gateway Street.

Dite che avrei dovuto essere più cordiale? Che so, tipo: Helen ha preparato una bella torta di mirtilli, per il vostro arrivo. Che ne dite di venire da noi, dopo cena? Oppure: amici, ci farebbe un gran piacere stappare quella bottiglia di Bourgogne che abbiamo tenuto in serbo per le occasioni speciali. E il vostro arrivo è, un’occasione speciale.

Sì, forse avrei dovuto. Avrei dovuto, come dire, fendere la nebbia della sua indifferenza abbagliandolo con la mia simpatia. No, non fraintendetemi, non sono un intellettuale o cose del genere. Come tanti, mi piace conservare quei bigliettini che si trovano nelle confezioni dei biscotti cinesi, ecco tutto. L’ho letta lì, quella frase; intendo la nebbia dell’indifferenza e tutto il resto. Comunque, a ripensarci, forse avrei dovuto. Ma vi assicuro che il muro di nebbia era fitto. Insomma, diciamo che Joe Flaming non è quel tipo di persona che smania per tagliarti la siepe se sei moribondo, o che viene a spalare la neve dal tuo vialetto se ti sei appena rotto una gamba.

No, Joe Flaming rientrava nella categoria “non voglio essere scocciato”.

E per quelli come lui, i vicini sono delle scocciature. Quanto a Dora, sua moglie, sembrava una di quelle bambole che un giorno porti a casa, e poi passano il resto della tua esistenza a fissarti con devozione. E lo fanno anche se cadono, non le spolveri e le trascuri.

Helen si era abbassata gli occhiali da lettura sul naso e mi guardava da sopra le lenti con aria preoccupata. Disse: «Pensi che starà ancora via, per la notte?» Le narici del naso le si erano allargate e aveva lo sguardo opaco come un bicchiere non lavato da mesi.

Disse: «Le ultime volte non è tornato. Lo hai sentito anche tu il tono, vero? E le urla? O pensi che l’Orco abbia intenzione di ripresentarsi a breve con un paio di biglietti per il teatro e un mazzo di fiori. Ehi, mi ascolti?»

Non risposi, continuando a sfogliare distrattamente “American Drive”.

L’Orco Joe… La prima a chiamarlo così era stata nostra figlia Katy, quattordici anni. Poi, suo fratello Patrick Junior, di tredici, era corso in camera e ne aveva disegnato la parodia usando certe matite avute in regalo dalla sua insegnante di disegno. Aveva talento, P.J. Si era inventato una specie di graphic novel e l’aveva intitolata “Chi ha paura dell’Orco Joe?”. Ne era saltata fuori la storia a puntate di una specie di supereroe. P.J. era l’artista di famiglia, quello con la sensibilità, l’intuito giusto e tutto il resto. Una deviazione rispetto alla linea retta dei Nightingale, da generazioni dediti al ramo assicurativo: polizze sulla vita, la specialità della casa.

Disse: «Patrick, non sono tranquilla. Metti che a quel pazzo gli prenda un raptus. Me lo vedo capace di qualche mostruosità, sai?»

«Be’, è o non è un orco, dopotutto», risposi, depositando “American Drive” sul comodino e rannicchiandomi sotto le lenzuola alla ricerca della posizione giusta.

«Sì, d’accordo, hai sempre voglia di scherzare, tu, poi, quando succederà una tragedia non dire che non ti avevo avvertito. Me lo vedo, quel Joe, sì, l’orco; temo che nasconda qualche arma, anzi, ne sono convinta. Lo capisco da come traffica, in garage».

Avvertii le ultime parole di Helen come un flebile suono di sottofondo, poi il volume del mondo si azzerò e sprofondai nel sonno.

«Patrick, Patrick, ti vuoi svegliare? È tornato!».

Una donna con i bigodini mi osservava con gli occhi sgranati. Il trucco le si stava sciogliendo e colava dal volto come la glassa sulla torta. Lì per lì pensai di trovarmi nel bel mezzo di un incubo. Poi una voce stridula mi riportò alla realtà.

«È tornato. Mi vuoi ascoltare? Ho sentito che parcheggiava la macchina, ti dico».

“Mmm…»

«Cosa vuol dire mmm?»

«Dai, Helen, che ore sono?» chiesi con voce impastata, avvertendo in bocca il sapore amarognolo di verze lesse. Osservai il tenue cono di luce che entrava dalla finestra e mi convinsi di non aver sentito la sveglia. Controllai. Le 06,10. Ancora venti minuti.

Poi lei disse: «Non sento le urla, e nemmeno altri rumori… non è che l’avrà ammazzata, questa volta?»

Scrollai il capo. Non essere paranoica. Leggi troppi gialli. Mi accorsi di aver parlato con la mente. «Staranno dormendo, come tutti», riuscii a biascicare, sforzandomi di accentuare l’enfasi sulle ultime due parole. Poi mi voltai dandole le spalle e passai in rassegna un paio di ipotetici quintetti dei Sixers per la prossima stagione.

Disse: «Io non so proprio come fai, Patrick. Te lo dico francamente: non so come fai, a startene in pace. Io non sono tranquilla. Se tutti facessero coma fai tu, tanti pazzi girerebbero indisturbati per le strade delle nostre città, come se nulla fosse».

Eliminai Farrell dal quintetto e optai per MacNamara.

Il giorno dopo, al lavoro, la voce stentorea di Billy Jenkins mi sorprese nel bel mezzo di un’insulsa richiesta di rimborso. «Nightingale, c’è tua moglie al telefono».

Helen mi informò che tutto era tranquillo, che l’orco era andato al lavoro e che aveva visto Dora avviarsi alla fermata del pullman senza danni apparenti. Mi rallegrai, le dissi che avrei fatto tardi e di lasciare qualcosa nel forno da scaldare al mio rientro. Poi mi rimisi al lavoro con un certo senso di svogliatezza.

Per alcuni giorni tutto filò liscio al fronte di Gateway Street. Nessuna imboscata, niente carneficine.

Una sera in cui la pioggia continuava a cadere incessantemente formando una cupa foschia al di sopra delle case, sentimmo dei gemiti, seguiti da uno sferragliare indistinto. Poi udimmo delle urla, e vidi Helen alzarsi dal letto e ciabattare verso la parete. La osservai appoggiarvi l’orecchio con la concentrazione di un indiano intento a percepire l’arrivo dei bufali. Come attratto da non so quale fluido magnetico, mi sentii in dovere di imitarla. Quando fui al suo fianco, notai che lo strato di pittura si stava scrostando, facendo intravedere l’intonaco del muro. Cercai di ricordare l’ultima volta in cui mi ero dato da fare con vernici e pennelli e lo individuai nell’anno in cui i Sixers erano arrivati alle finali di Conference.

Disse: «Non riesco a distinguere quello che dicono. Mi piacerebbe proprio sapere cosa si dicono».

Rimasi per un po’ con l’orecchio alla parete, poi, come in un soprassalto di pudore, lo ritrassi e tornai sotto le coperte. Mi immaginai delle falene attratte da un fuoco fatuo e avvertii un senso di sconforto avvolgermi le viscere. «Helen, dài, levati da lì!».

«Ssshhh, ti dico che è importante sapere cosa si dicono».

“Stai esagerando, ora”.

Disse: «Sei sempre il solito, Patrick. Tu pensi che io sia paranoica, vero? Ma certo, continua a vivere nel tuo mondo fatto di automobili, moto e basket. Ti ci vedo, io, concentrato a vederti la tua partita mentre a pochi metri dal tuo perimetro di sicurezza chissà cosa succede».

Evitai di rispondere.

Disse: «Tu vivi nel tuo mondo. Sono convinta che non hai nemmeno idea di che classe frequentino i tuoi figli. Avanti, dimmelo, su! Lo vedi? Non lo sai, questa è la verità!».

Helen si voltò accigliata e mi guardò in tralice. Poi si allontanò dalla parete e mi raggiunse nel letto. Per un po’ non parlammo, e in quella pausa di silenzio si infilarono il vento e gli scrosci di pioggia che battevano sui vetri.

Di colpo disse: «Tu non capisci, quando imparerai, mi domando e dico, che prevenire è meglio che curare? Lo sai, oppure no che tante tragedie si potrebbero evitare? Sei una causa persa, Patrick».

Arroccato sul lato opposto del letto, avvertii una stanchezza antica gravare sul mio corpo. Sentivo le membra pesanti, e immaginai che Patrick Nightingale si fosse trasformato in un orso in letargo.

Andò avanti così per un bel po’.

Certi giorni sembrava che dai Flaming regnasse una specie di tregua, poi le ostilità riprendevano, improvvise, ed Helen tornava all’attacco, costringendomi ad arrocchi strategici sempre meno convincenti. In quei momenti mi sembrava che in casa non ci fossero più zone d’ombra nelle quali eclissarmi, e tutto mi ricordava un enorme buco nero che prima o poi avrebbe finito per inghiottirmi.

Poi, quella sera, a cena, dopo una domenica trascorsa a oziare, osservavo compunto il piatto con la massima espressione della dittatura culinaria di mia moglie: il minestrone. Lei ripeteva sempre che il tempo di cottura era il segreto di un buon minestrone: cinquanta minuti esatti, non uno di più né uno di meno. Quando la vedevo intenta a tagliuzzare cipolle e pomodori, mi sembrava un’alchimista indaffarata fra pozioni e alambicchi. L’elisir che ne saltava fuori era la personale purga che la padrona di casa somministrava a tutti noi.

Helen disse: «Sai che sono un paio di giorni che non vedo Dora?» A quelle parole la mia mente sviluppò l’istantanea di una bambola impolverata gettata in un cartone in soffitta. Poi cestinai il fotogramma e riposizionai la bambola dove me l’ero sempre immaginata: sullo scaffale, in soggiorno.

Disse: «Di’, mi piacerebbe sapere una cosa? Dico, da te».

Katy e Junior ci osservavano. La loro madre aveva lo stesso sguardo di un’impiegata delle poste maldisposta a cui avevano bucato le gomme della macchina e che, per soprammercato, si era sorbita una lavata di capo per un ritardo di dieci minuti sul posto di lavoro.

Chiese: «Cosa pensi, di Joe? Intendo, un tuo giudizio, come uomo».

Risposi che non potevo dare un giudizio affrettato, né potevo farlo per procura a nome di tutto il genere maschile. Helen disse che si sarebbe aspettata una risposta del genere, e in tono ironico mi disse di continuare a non preoccuparmi.

Disse: «Ora che ci penso, se oggi è domenica, sono tre, i giorni. Quelli che sono passati dall’ultima volta che ho sentito distintamente la voce di Dora».

«Magari è a letto, malata», risposi.

Lo sguardo di Helen si rabbuiò. «Eh certo, è a letto. O magari, sotto il letto. Anzi, in cantina».

«O nel congelatore. Come fai a non aver pensato al congelatore?» sibilai.

Il silenzio definitivo che calò fu interrotto solo dai biascichii di Katy e Junior, intenti a ingerire al più presto il minestrone.

Osservai il piatto, e mi parve di vedere le sabbie mobili di cui leggevo da ragazzo nelle strisce di fumetti, la domenica. Mi ricordo che tutti quei cowboy inghiottiti con il cavallo avevano il potere di impressionarmi molto. Salvai un crostino che lottava per non affogare e lo riposi nel tovagliolo. Poi Katy disse qualcosa a proposito di una festa con delle amiche per il successivo weekend, mentre Junior accennò all’ultima avventura della sua storia. E chissà perché sentir parlare suo figlio dell’Orco Joe ebbe su Helen un effetto omeopatico. All’improvviso il suo volto sembrò meno increspato, il suo umore parve rasserenasi e sulle sue labbra aleggiò anche un pallido sorriso.

Erano delle belle tavole. I disegni di mio figlio, intendo. Mi stupirono. Ricordo che per scherzare gli chiesi dove avesse preso tutto quel talento. Junior mi guardò e scosse la testa.

E non cominciò a disegnare per la IDW Publishing un po’ di tempo dopo? So che ha pubblicato alcune graphic novel, e da qualche parte ho letto che è molto bravo.

A volte, quando ci sentiamo per gli auguri di Natale, ci ricordiamo dell’Orco Joe, che poi fu il primo personaggio che gli diede un certo successo, ai tempi del giornalino del liceo. Quella storia mi piaceva. Chi avrebbe immaginato che dopo le loro litigate Joe si trasformasse in un eroe malvagio? Junior lo disegnò, anche se fu sua sorella Katy, a suggerirlo. E che poi Joe andasse a dormire dall’anziana mamma che viveva sola? E che urlasse anche lì, svegliando i vicini? Questo non lo pensavate, vero?

Ma non importa. Quello che conta, è che in quel momento, quella sera, Helen si era improvvisamente tranquillizzata. Sembrava quasi trasfigurata, e forse tutto era come doveva essere.

Poi se ne andarono, Joe e Dora. Una mattina caricarono i bagagli sul loro pick-up e partirono. Me lo disse Helen. Fu prima di uno dei nostri incontri per il divorzio, nello studio del suo avvocato. Disse anche che non la degnarono nemmeno di un saluto. Mi informò che i nuovi vicini erano Albert e Lisa, una simpatica coppia di anziani che veniva dal Tennessee. Troppo vecchi per litigare.

A volte, quando sono a casa, da solo, sono attento a percepire qualsiasi rumore che provenga dall’appartamento attiguo. È rimasto sfitto a lungo, ma da qualche settimana ci sono dei vicini. Si chiamano Maxwell, una giovane coppia senza figli e con un cane lupo di nome Alec. Alec gioca spesso con Jennifer, la mia nuova compagna. A parte quando si sente Alec abbaiare, c’è un gran silenzio dai Maxwell. Troppo silenzio. Capita allora che mi metta a origliare con l’orecchio accostato alla parete, e un po’ mi vergogno. È una specie di riflesso condizionato. Il ricordo di Gateway Street. Sì, lo so, è stupido, ma che ci volete fare?

Ieri, mentre Jennifer era al lavoro, per la prima volta i Maxwell hanno litigato. Alec sbraitava, e le sue grida, acute e prolungate, assomigliavano a quelle dell’Orco Joe.

Pioveva, e gli scrosci d’acqua che battevano sui vetri si alternavano alle urla.

Me lo sono tenuto per me. Non ne ho parlato, con Jennifer.

Lei ha molta stima dei vicini, sapete?

Ora siamo a letto. Jennifer si è addormentata, e io sto pregando.

Non sono un tipo molto religioso, ma non so cosa farei per non sentire più quelle urla.

Mai più. Per favore.

 

 

Qualcosa in più sull’autore.

https://www.ibs.it/mimesi-libro-maurizio-fierro/e/9788832812381

https://www.ibs.it/vita-oltre-ring-quindici-racconti-libro-maurizio-fierro/e/9788832810059