Racconto di Umberto Chiri
(Terza pubblicazione)
Ci frequentiamo da più di un anno, ormai, e ogni nostro tentativo di stare insieme, come possono stare insieme un uomo e una donna, è un fallimento. Gabriele mi scava con gli occhi, chiedendo, “Che ci succede, tesoro?” Ma io, dopo l’amore mancato, non ho da offrirgli parole.
Ci consoliamo con il mare. Abbiamo scoperto una caletta segreta, e a volte ci bagnamo mentre il tramonto arrossa gli scogli, con Gabriele che ride come un bambino perché gli ultimi raggi a pelo dell’acqua sembrano convergere su di lui ovunque nuoti.
“Su di me, su di me”, ripete esaltato. Poi mi parla. “Avevo dodici anni quando feci il primo bagno al chiaro di luna, uscendo di casa di nascosto mentre i miei dormivano. Che delusione. Cercavo di afferrare il riflesso sull’acqua, mi affannavo per immergermi in quel chiarore ma si spostava sempre un po’ più in là. Cercavo di afferrare i maledetti riverberi della luna fino a diventare cianotico per il freddo. Battei denti per tutta la notte. Ero stremato, ma sentivo di aver imparato qualcosa”.
Stormi di gabbiani volano dal promontorio a nord fino alla bassa litoranea a sud, riempiendo il cielo di ali. Io allungo le mani verso di loro.
“Anch’io l’ho capito” dico.
“Cioè?”.
“Che non si raggiunge mai davvero qualcosa”. I gabbiani ora invadono le rocce radunandosi in gruppi, alla ricerca di cibo, con urla minacciose. Abbasso le braccia. “Tantomeno quando fai l’amore”.
“Ci riusciremo” risponde lui con un velo di tristezza. Si distende nell’acqua a pancia all’insù per osservare il cielo. “Ma non è bello tutto questo?”, soggiunge. “Non è così meraviglioso e vero da fare quasi male?”.
“Non so se sia vero”, rispondo seria.
All’ultima luce i frangiflutti si rivestono del colore dei coralli.
Il giorno dopo torniamo alla cala. Lasciamo i vestiti in una piccola radura nascosta da un canneto, con un albero al centro, basso, come una specie di gnomo nordico solitario nel resto della vegetazione mediterranea circostante. Appendiamo gli abiti ai rami dell’albero, piegandoli in due perché non tocchino terra, negli affiori d’acqua che bagnano i nostri piedi nudi. Sono più lenta e meticolosa nello spogliarmi, e quando raggiungo la caletta Gabriele mi aspetta immerso nelle onde basse. Entro in mare anch’io, e quando l’acqua mi arriva alla vita un pesce guizza con la bocca rivolta in alto per mangiare a pelo d’onda, vira prima a destra e poi a sinistra del mio corpo che sembra incredibilmente vulnerabile, e quindi sparisce.
“Hai la pelle d’oca” dice Gabriele avvicinandosi e accarezzandomi le braccia.
“Mi ha fatto venire i brividi”.
“Ti ha spaventato?”.
“Mi ha ricordato una cosa”.
“Brutta?”.
“Quando ero bambina sono stata aggredita da una specie di serpente marino. Insomma, successe questo. C’era stato un temporale al largo, e sull’acqua cadevano ancora delle gocce, ma il mare ormai era liscio. L’avevo visto calmarsi dalle finestre di una casetta sulla spiaggia in cui stavo con i miei. Ricordo che mi sentivo sola, pensavo che il mare mi avrebbe consolata. Come un amico. Di nascosto sono uscita di casa e mi sono immersa come se volessi farmi abbracciare. Poi è apparsa quella cosa tremenda”.
Mi distendo nell’acqua, faccio qualche bracciata a dorso, continuo a parlare in modo sommesso.
“Il pomeriggio ho chiesto a mio padre che cosa potesse essere quel mostro marino, poi l’ho domandato a una vicina, a chiunque incontrassi. Nessuno mi diede una risposta. Ma io sapevo chi avrebbe potuto farlo”.
“Stiamo vicini”, dice Gabriele. “Voglio sentirti”.
“In una casetta non distante dalla nostra stava un uomo già piuttosto anziano. Lo chiamavano il pescatore. E sembrava proprio un pescatore, la pelle cotta dal sole, i tatuaggi e tutto il resto”.
“Così sei andata da lui”.
“Si. Il pescatore mi disse che una creatura del genere non esisteva. Però mi spaventò raccontandomi di come capitasse che le ventresche rimanessero intrappolate tra le secche e non riuscissero più a ritrovare la via del mare. Io in realtà non sapevo che cosa fossero le ventresche”.
“Non lo so neppure io. Credevo fossero pezzi di tonno messi sott’olio”.
“Sono piccoli squali. Le correnti le portano verso riva, e a volte si perdono tra una secca e l’altra. Il pescatore mi parlò delle ventresche. Mi disse che aveva delle foto nel suo capanno sulla spiaggia, con dei libri in cui forse avremmo trovato quel serpente che mi aveva aggredito”.
Chiudo gli occhi, come per liberarmi del ricordo.
“Quando siamo entrati nel capanno ha richiuso la porta, tirato una tendina e si è tolto i vestiti. La cosa strana è che non ricordo niente del suo membro. Devo aver fatto di tutto per non vederlo. Aveva due gambe secche e storte però, questo lo ricordo, come rami sbiancati, mangiati dal sale, e pelle di lucertola”.
Gabriele mi abbraccia, dice, “Vieni, andiamo a riva”.
“Che strano, non ci ho pensato per tanti anni. E ora, all’improvviso … non so”, ripeto tra me e me scuotendo la testa e sentendomi sempre più vulnerabile. “Chissà a quanta gente è capitato qualcosa del genere, comunque”.
Bravissimo Umberto
Grazie
per il tuo apprezzamento, Clara
Se pur breve è intenso….
Ho cercato di raccontare una storia di predazione con meno parole possibili, un ricordo che si manifesta repentino come un pesce che emerge dall’acqua e subito si lascia ricadere tra le onde. Eppure quell’esperienza quasi cancellata condiziona tutta la nostra vita.
Profondo e struggente. Complimenti
Quello tra chi scrive e chi legge è un incontro che può avvenire oppure no. Sono contento che in questo caso ci sia stato.
Bello e toccante
Se il racconto ha suscitato emozioni allora lo posso considerare riuscito. Grazie davvero