Racconto di Kenji Albani

(Ottava pubblicazione)

 

16/04/23

 

Lascialo stare! Battiti con me. Sono della tua stessa statura.

 

«Che dicono?».

«Fanno il tifo per al-Burhan». L’uomo dell’ambasciata lo disse a mezza bocca.

Alex gli fece l’occhiolino. Strinse l’ARX160 come se fosse suo figlio, fece un cenno al resto del team. «In avanti».

Il team si mosse come se fosse una colonna di formiche legionarie.

Le strade di Karthum erano nel caos, in cielo passavano i MiG dell’aviazione fedele al presidente, il cielo era screziato di esplosioni neanche fosse il dipinto di un pittore folle, per le strade la gente si riuniva in piccoli gruppi e pregava per al-Burhan, ma al primo udire delle raffiche di fucile automatico scappavano.

«Sempre all’inferno, come al solito». Alex avrebbe preferito rimanere a Nairobi a rilassarsi guardando sul cellulare le foto dell’ultima influencer, al contrario doveva marciare in Sudan e soprattutto stare attento a che qualche tiratore scelto non lo fulminasse con un colpo.

Con la guida in testa, a fianco degli scout, la colonna raggiunse un angolo, tutti si misero in ginocchio, gli ARX160 in puntamento, Alex attendeva notizie via radio dai ragazzi dell’avanguardia.

«Pulito» gli arrivò all’orecchio.

«Muoversi» borbottò.

Così fecero.

Il vialone che dovevano attraversare, se non perforare come se fossero un razzo e la strada un’acacia, era largo – più un baobab.

Ad Alex non piacque.

Dalla direzione nord arrivò un blindato più simile a uno scarabeo. Lo si sarebbe potuto vedere nei vecchi poster del Patto di Varsavia, in cima c’erano degli uomini le cui mimetiche suggerivano che erano fedeli al generale Daglo.

Gli eredi dei Janjaweed.

Da che si muovevano a cavallo, avevano cambiato destriero.

I paramilitari esitarono, Alex precedette qualsiasi loro reazione: aprì il fuoco su di loro. La colonna che comandava lo imitò, fu più una falange che scatenò un fuoco di saturazione. Gli uomini di Daglo saltarono a terra, ma alcune raffiche ebbero il tempo di tranciare arti e far scoppiare casse toraciche e crani. I superstiti reagirono al fuoco, ma la colonna era già arrivata sul marciapiede opposto e si era raggrumata come ferro fuso.

«Ricordatemi la missione, me ne sto dimenticando» si lamentò Alex.

«I funzionari dell’ONU. Sono poco lontani» lo avvertì il comandante in seconda.

«Grazie, Mattia». Contò gli operatori per assicurarsi che non ci fossero morti né feriti. «Corriamo».

Corsero nella direzione dell’hotel al-Salam. «Che razza di nome» commentò Alex.

Lo raggiunsero, alcune guardie di sicurezza armati di vecchi Sten Mk II li fermarono, Alex li informò: «Siamo contractor italiani, state calmi».

La guida pensò a loro.

Come se Alex fosse un ospite, andò alla reception. «Dove sono i funzionari dell’ONU?».

Il receptionist sembrava terrorizzato, pronunciò frasi incomprensibili.

«Ci penso io» intervenne Mattia. Scambiò alcune battute con il sudanese, strinse i denti, si rivolse a lui. «Alex, i funzionari delle Nazioni Unite se ne sono andati».

«Cosa? È impossibile».

«È quel che dice lui».

«Folle! Noi siamo venuti fin qua, abbiamo sudato…». Si permise un sorriso visto il gioco di parole con il nome del paese. Ma non era disposto a sudare sangue, come Lucifero nella Divina Commedia. Ricordò questo particolare degli studi alle superiori, prima di arruolarsi.

«Che si fa?». Mattia lo fissò.

«Torniamo in ambasciata».

Nessuno protestò.

Il team stava per uscire dall’albergo quando la guida li bloccò. «Guardate».

Davanti agli Sten delle guardie private i potenti AK74M dei paramilitari furono inutili, i sudanesi scapparono. Il team di Alex si spalancò come un fiore carnivoro, tutto di spine, e le raffiche sembrarono diventare i raggi di armi futuristiche che si intersecavano come in un duello magico.

I fedeli di Daglo si accatastarono morti, rimase una tecnica con il freno in folle e la mitragliatrice che pendeva dal cassone come un ramo che attendeva un nodo scorsoio.

«Via di qua» sbraitò Alex.

Era guerra aperta, lì in Sudan.

«Tutto questo nell’ottica della nuova guerra fredda». Mattia parlava in maniera spensierata con la guida.

«Sì, è vero. Al-Burhan sta più simpatico a Biden, Daglo piace ai russi».

Continuarono la marcia, un po’ camminavano, un po’ correvano con le gambe piegate. Alex assisté a svariate atrocità, ma non ne fu disgustato: Sono un pezzo di metallo, pensò.

Erano in prossimità dell’ambasciata, in quel momento arrivò una serie di fuoristrada bianchi e impolverati.

Alex non gli badò, la guida sì: iniziò a discutere con uno degli autisti, dopo puntò lo sguardo su di lui. «Ehi, boss».

«Cosa c’è?».

«Sono loro i funzionari dell’ONU».

Alex rimase sbigottito, ma prima che potesse commentare una donna simile a una maestrina gli venne incontro: «Vi stavamo aspettando, ma voi avete tardato».

Non le rispose male.

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