Racconto di Giuseppe Maria Iacovelli

(Seconda pubblicazione)

 

 

«Come, non s’è quasi difeso? Che intendi?». In realtà Arianna aveva udito a mala pena le parole di Teseo; la colpiva molto più il suo aspetto, coperto di sangue, com’era da aspettarsi dopo uno scontro, ma niente affatto esausto per lo sforzo. Aveva un’aria addirittura distesa, di chi fosse da poco uscito da un sonno ristoratore, piuttosto sembrava confuso e disfatto interiormente – che razza di vincitore era uscito dal Labirinto?

Teseo non rispose. Si lasciò cadere su un muretto, allontanò la pesante spada di bronzo, sazia per lo strazio di carne, bevve l’acqua che Arianna gli porgeva, poi si deterse il viso e le braccia. Non una ferita, nemmeno il più piccolo graffio parlavano di una lotta, tranne il sangue del caduto, un sangue nero, orribilmente denso e quasi minaccioso. Dopo qualche minuto, necessario a metter ordine fra i pensieri, Teseo riprese: «Non si è difeso, non ha quasi combattuto, capisci? L’ho visto venirmi incontro urlando ma non aveva intenzioni ostili: voleva fermarmi, comunicare con me per impedirmi di compiere un misfatto, ma in quel momento la furia e il terrore mi accecavano. Urlava perché non conosceva linguaggio umano, la sua bocca non era in grado di formare parole. Non era nemmeno capace di combattere, non conosceva la tecnica; me ne rendo conto soltanto adesso. Chiunque avrebbe potuto ucciderlo, ma sono stato io. A uccidere un innocente sono stato io».

Arianna non credeva alle sue orecchie, pensava che l’eroe non avesse ancora ritrovato la lucidità, e non volle interrogarlo oltre. Ma egli proseguì. «Coloro che mi hanno inviato qui mi hanno ingannato, consapevolmente o no. Ora ne sono certo. Hanno armato la mia mano per colpire una creatura che nulla di male aveva fatto se non vivere da reclusa in quella costruzione. Io devo scoprire il motivo di questa orribile trama; devo riuscire a sapere perché hanno voluto che uccidessi un essere inerme, che ha cercato di fermarmi senza ricorrere alla violenza. Troverò i responsabili e chiederò conto di ciò. Non avrò pace finché giustizia non sarà fatta».

Arianna a quel punto non poté fare a meno di replicare: «Che dici, mio amato? Il Minotauro era uno dei mostri più feroci, la sua fama aveva raggiunto i confini della terra e non c’era popolo che non temesse quel nome. Conosci anche tu le storie che si raccontano su di lui. Nato da un connubio nefando, erede dei difetti di due nature che gli dèi vollero separate, cresciuto nella violenza e nel disprezzo per la vita altrui, nutrito di carne umana, era il simbolo della matta bestialità e di tutto ciò che noi, le persone civili, rigettiamo e condanniamo con forza per mantenerci tali. Ucciderlo è stato un atto dovuto: finché simili creature rimangono in vita nessuna società potrà dirsi al sicuro dal male. E tu, idolo mio, sai quanto mi costa dire queste cose contro colui che non osavo chiamare fratello».

Teseo ascoltava appena, seguiva il filo di un ragionamento più contorto dello stesso Labirinto. Ciò che aveva visto lì dentro confutava gli altri argomenti, anche e soprattutto quelli più diffusi. Arianna ripeteva ingenuamente un repertorio consolidato, ma chi, fra coloro che prendevano la parola, era entrato nel Labirinto? Chi, fra quelli che amano cavalcare le chiacchiere in voga e farsi trasportare dal loro effimero chiasso, scambiandolo per ragione, aveva posato gli occhi su quel che uno solo conosceva?

Arianna si sedette accanto all’eroe e si rivolse a lui con studiata dolcezza: «Mio prode, mio futuro sposo, il cuore ha iniziato a battere per te nel momento in cui ti ho visto entrare nell’arena, per tanto ringrazio le illuminate leggi di Creta, che consentono alle donne di assistere ai ludi. Nessuno aveva un corpo snello e robusto come il tuo, nessuno l’abilità che ti ha permesso di vincere in gare a te ignote contro i campioni più esperti, ma soprattutto a nessuno gli dèi donarono la bellezza che incorona il tuo viso come la luce di un astro. Il cuore non errava quando, di fronte alle tue vittorie, mi disse che tu eri nato alle più alte imprese, e che il mondo avrebbe acclamato il tuo nome fino alle ultime generazioni.

«Mi sono forse sbagliata? Chi, se non l’eroe prediletto dai numi, avrebbe osato varcare la soglia del Labirinto da solo, armato di spada e di un coraggio ancora più saldo, avanzare senza una guida in quell’orrido intrico di gallerie fino al recesso del mostro? Chi, se non il figlio di Egeo, avrebbe potuto guardare negli occhi l’abominio senza soccombere alla paura dell’antitesi, respingere l’assalto e sconfiggerlo del tutto? Grazie a te la mia isola è salva, il padre non ti negherà la mia mano, e il popolo esulterà nel vederti in trono. Sei nato uccisore di mostri, libererai la terra dai nemici dell’uomo perché è il tuo destino. Mai tanta gloria rifulse su un solo individuo, l’unico timore che resta alle genti è che nessun poeta sarà all’altezza delle tue gesta. Dovranno scendere gli dèi dall’Olimpo, Apollo in persona, accompagnato dalle Muse, comporrà un canto adeguato, qualcosa che gli uomini non dimenticheranno. E non ho bisogno di dirti quanto sia importante che dei fatti sia data una versione fissa e comprensibile a tutti. È di questo che si nutre la verità, di evidenza, universalità, conferma; solo così potrà impedire che l’ordine costituito sia messo in discussione».

Teseo non sembrava rinfrancato da quelle parole, forse perché suonavano così ovvie e tranquillizzanti, buone per le orecchie del popolo; era ancora sovrappensiero. All’improvviso si alzò, sciogliendosi dall’abbraccio della donna, e con gli occhi rivolti in lontananza cominciò un discorso che nessuna testimonianza nota riporta: «Mi avevano detto che il Minotauro era una creatura immonda, dall’aspetto disumano, una belva assetata di sangue nascosta in un antro sordido, fra le ossa spolpate delle sue vittime; dicevano che un popolo intero gemeva all’ombra della sua dimora, atterrito dalle urla mostruose che ne uscivano, e che la sua presenza era un pericolo per molte vite innocenti; hanno scritto fior di libri sul Minotauro e sul Labirinto, hanno persuaso il mondo di una verità che non corrisponde a ciò che io, l’unico uomo penetrato lì dentro, ho visto.

«Si sono serviti di parole simili alle tue, ma quello che ho potuto osservare io era tutt’altro – e a che giova l’esperienza se non a fugare le menzogne e a disperdere i pregiudizi? E l’esperienza più necessaria è proprio quella che ci porta sull’orlo dell’abisso; non la visione della morte cambia la vita, ma lo sguardo che l’abisso rivolge a chi osa fissarlo. Questo cambia la vita perché la spoglia dell’incanto, ossia dell’illusione dell’univocità, e insegna che tutto è ambiguo, che ogni uno non può non diventare due. Vuoi sapere cosa hanno visto i miei occhi, Arianna, o preferisci il florilegio che l’ingegno al servizio del potere appresta per pigri e ingenui?

«Sappi allora che la dimora del mostro non somiglia ai racconti che la vogliono trappola crudele per vittime inermi; essa, al contrario, ha molte porte, e nessuna è mai stata chiusa, così che chiunque, purché alieno da ignoranza e timore, avrebbe potuto entrare; l’interno poi mi ha scoperto geometrie sì complesse ma sempre ordinate, affascinanti, il frutto di un’arte dimenticata che voleva riflettervi l’immagine dell’orbe divino, forse una mappa dettagliata del mondo superiore su quello inferiore, a ribadire la misteriosa affinità del tutto – non mi meraviglierei di apprendere che non un uomo ma un dio abbia edificato un luogo così denso di significati, e in tal caso la mia sarebbe stata una profanazione, ancorché involontaria. Dunque oltre a sopportare i rimorsi per l’infamia commessa dovrei guardarmi dalla vendetta divina, contro me o i miei congiunti: anche di questo chiederò conto.

«Ma lo crederesti, mia fedele? Aggirarmi in quel rigoglio di segni inviolabili mi ha permesso di rivivere la storia del mondo, di intenderne la processualità ininterrotta e di vedere il presente come un risultato necessario del passato, anziché come una bolla temporale in balia di caos e arbitrio, che pure non mancano; per liberarsi di questi ultimi gli uomini vengono indotti a rivolgersi a coloro che li producono, e così accettano di sottomettersi alla violenza razionalizzata, emblema flagrante della rinuncia alla formazione e dell’imbarbarimento che permea i rapporti umani – anche questo compresi, forse a dispetto di qualcuno. Ero libero come mai in precedenza, libero proprio perché assediato dall’essenziale, libero dalla tirannia dell’evidenza e del suo scherano più subdolo, l’immediato, i responsabili della cecità collettiva; potevo muovermi a piacere, seguire l’ispirazione che sorrideva a ogni angolo, e ognuna delle poche che ho sperimentato ha mantenuto assai più di quanto il suo sorriso promettesse: mai mi era accaduto di abbandonarmi a quella libertà, neanche la natura più sconfinata offre tale possibilità, poiché le manca il pensiero.

«Non immaginavo che l’uomo potesse avere pensieri così vasti e profondi, più dell’oceano che avvolge la terra abitata, più del cielo che accoglie il creato e i celesti architetti; non ero in grado di immaginare certe cose poiché nessuno mi aveva insegnato, gran parte degli uomini viene ammaestrata a replicare modelli, non educata al pensiero. Eppure la semplice visione di quel luogo ha avuto la forza di aprire la mia mente; chi dicesse che Teseo è ora una persona diversa da prima, più ricca e potente, ma in un senso interiore, che a parole non saprei spiegare neanche io, uomo d’arme qual sono, non sarebbe lontano dal vero. Ancor più grande tuttavia fu lo stupore quando mi affacciai sul cuore di quel mirabile microcosmo.

«Era il precipitato e l’emblema più chiaro dell’alterità, come dopotutto c’era da aspettarsi. Nulla che si lasciasse ricondurre al noto, nulla che offrisse appigli sicuri al pensiero, specie a quello addestrato a riconoscere, a ripetere, a confondere l’effetto legittimante con il fondato. A partire dal suo signore, che sedeva maestoso su una sorta di trono, circondato non certo da ossame e cadaveri putrescenti, come i perfidi affermano e gli sciocchi ripetono, ma da libri, opere d’arte, strumenti di indagine.

«Nessuno possiede una biblioteca come quella che aureolava il Minotauro, nemmeno i grandi sovrani d’Oriente con tutte le loro ricchezze: tavole e papiri a milioni, ordinati in base a materia, provenienza, lingua, antichità, gocce preziose dell’unico mare che deve aumentare sempre il suo livello, il compendio del sapere umano raccolto in altissime, multiformi scansie, che da sole facevano un labirinto; le opere d’arte della grande sala – anch’esse innumerevoli, ammassate quasi senza ordine, un tripudio di forme e materiali strabilianti –, la loro compiutezza le sottrae a una descrizione che non sia meramente tipologica, le avresti credute per assurdo opera diretta della natura, non di artefice umano; mescolate a esse strumenti di misurazione e calcolo di una complessità sbalorditiva, ognuno cuspide e vanto di un sapere primevo, grazie ai quali era possibile seguire con precisione i movimenti dei corpi celesti e distinguere le caratteristiche di ciascuno, studiare la materia minuta degli oggetti, quella che sfugge all’occhio più attento, render conto dei legami fra gli elementi costituenti il naturale e le sue infinite metamorfosi.

«Non persi tempo a chiedermi come quella caterva di meraviglie fosse giunta nel Labirinto, quante flotte fossero state impiegate per il trasporto e chi avesse diretto uno sforzo a dir poco titanico, ché forse proprio i titani soccorsero il Minotauro nel nobile sogno di creare il più grande luogo di studi e conoscenza che il mondo avesse, pur ignorandone l’esistenza. Quel che davvero mi sconvolse fu la visione dell’Altro: non per la diversità in sé, che pure suscita rigetto istintivo, ma perché non poteva nascondere la rivelazione ultima del Labirinto.

«Nella sua figura si incontravano le conoscenze che io vedevo sparpagliate ai suoi piedi, si incontravano e perdevano i confini formando una sintesi, come le acque dolci quando si versano in quelle salate, in un miscuglio anomalo in cui pochi pesci nuotano, o come la sostanza senza nome che, a detta dei sapienti, rimane immutata al di sotto della mutevolezza superficiale delle cose, quella che gli dèi usarono per plasmare il cosmo. Lui, il Minotauro, era la sintesi, viva e indescrivibile. Il mostro, l’obbrobrio dell’umanità era la somma delle conoscenze umane e anche di più, era una conoscenza diversa, superiore e irriducibile al puerile balbettio che i dotti si trasmettono con alterigia e gli ingenui ammirano: questo osservai e compresi senza realmente comprendere, e non è un paradosso, perché la vera comprensione avverte i propri limiti.

«Appena lo vidi la pazzia mi invase; attraversare il Labirinto gradualmente, secondo il suo ordine e in un tempo lungo, mi avrebbe forse preparato all’incontro, giacché il sapere, propedeusi naturale, matura i meccanismi intellettivi e innalza l’animo umano, ma io ero avanzato a caso, pensando unicamente allo scontro. L’entusiasmo dello spirito nasconde la vertigine, guai ad abusare di quel che ci trasforma. Così la visione improvvisa mi tolse il senno, giusto il tempo di scatenare le mie energie distruttive contro un essere unico, forse il più prezioso da che il pianeta conobbe vita intelligente; e ora comincio a credere che proprio sull’impatto emotivo abbiano confidato i miei mandanti. Sì, Arianna, essi dovevano sapere che l’obbrobrio non era in grado di farsi comprendere, sia che non parlasse alcuna lingua conosciuta, sia che quei muggiti informi fossero invece le reliquie di un linguaggio arcaico, che riassumeva tutte le lingue parlate sulla terra e che forse gli animali erano in grado di intendere.

«Ci pensi? Forse una bestia selvaggia avrebbe compreso e si sarebbe placata, dimostrando di essere degna della benevolenza di tale creatura, e dunque migliore di me. Non lo saprò mai, nessuno saprà, ed è anche a causa mia. Ma egli a sua volta sapeva di non aver modo di comunicare, sapeva certamente che il suo aspetto avrebbe suscitato il terrore proprio nell’unica specie dotata di ragione, e la forma più sconvolgente di paura: che la diversità esiste ed è altrettanto legittima della normalità. Questa decade dallo status assoluto cui tende nel momento in cui quella si palesa e le nega il fondamento formato da violenza, disuguaglianza, menzogna, i pilastri della prassi che si proclama giusta e unica.

«Ma quando sorge l’alternativa e dimostra con la sua stessa presenza che la normalità è solo un’eventualità fra tante, che non è auto fondata ma solo espressione di interessi di parte, e che dunque la sua pretesa di assolutezza è ipocrita, allora nasce quel che i detentori del potere temono sopra ogni altra cosa: il dubbio, la sfiducia nel consueto, l’impulso a cercare oltre, la scintilla del pensiero. Così l’individuo cessa di essere massa, smette di credere e di obbedire, rifiuta il cibo approntato da altri e va alla ricerca del proprio, decide di affrontare uno sforzo e aprirsi all’ignoto: ciò mette in moto processi dal risultato imprevedibile, trasformazioni che nessuno può controllare.

«Capisci ora, Arianna? Il tuo consanguineo doveva morire perché rappresentava la negazione dell’ordine arbitrario, smascherava la finzione di rapporti che stringono gli esseri umani in catene differenziate e li rendono vittime dell’incapacità di pensare, l’arma più forte del dominio, la sua essenza occulta. E ora? Che sarà di questo incredibile edificio e dei tesori che contiene? Verranno distrutti come opera di empietà o spartiti fra i vincitori che ne faranno ricchezza mobile o li convertiranno a uso improprio? Ma questa in realtà non è la domanda esatta, giacché non cosa succede in effetti è decisivo, bensì cosa viene raccontato e fatto credere al mondo, cosa si costruisce sulle credenze, come si dissimulano i meccanismi oggettivi.

«Qualunque sia il destino che attende libri e manufatti, la fama non oserà disdire se stessa e sconvolgere i pregiudizi pietrificati delle sue vittime: gli uomini sapranno che l’infamia di Creta ha cessato di vivere per mano di un prode, esulteranno e offriranno libagioni agli dèi per quel che ritengono un dono e un segno del loro favore. La morte del diverso rafforzerà la norma, ciò che accade lontano dagli occhi non ha importanza. E, ti prego, non chiamarmi più eroe: se devi darmi un nome allora sia quello che merito per le opere, cioè carnefice. Questo, d’ora in avanti, sia il mio nome».

Qui Teseo finì di parlare, si chinò per raccogliere la spada e ripulirla. Arianna si era smarrita dietro i lunghi ragionamenti, le sembrava che l’amato avesse rovesciato il mondo su sé stesso e, se non l’avesse visto così cupo e assorto, avrebbe pensato a uno scherzo – sì, una specie di gioco filosofico di cui i Greci notoriamente sono maestri. Non sapeva che dire, si sentiva divisa fra noia e dispetto, ma fu Teseo a scuoterla: mentre maneggiava l’arma infatti, le chiese se anche lei, la sua diletta Arianna, non fosse della schiera dei mandanti…

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