Racconto di Marcello Luberti

(Prima pubblicazione)

 

L’enigmatica Eva Kant, chignon biondo e viso imbronciato, stava pronunciando senza alcun pathos la rituale proclamazione accademica, nota a tutti tranne che a lui.

Gli bastò ascoltare l’incipit «In nome della Repubblica Italiana …» per smettere di sentire; poi gli si gonfiarono i condotti lacrimali e non vide più nulla. Il grande futuro si appressava, menomandolo però.

La preside di Facoltà avrebbe anche potuto dichiarare che la Commissione di Laurea bocciava la tesi di Eugenio Melchiorre e lui non se ne sarebbe accorto.

Suo padre lo spingeva fuori dalla sala con dei fastidiosi colpetti sulla spalla e ripeteva a macchinetta “bravopapà-bravopapà-bravopapà-bravopapà”. Solo Eugenio non rideva di quell’impresentabile genitore.

All’uscita gli amici, desiderosi di partecipare a una storia di successo, gli spiegarono che non solo gli avevano concesso la lode ma anche la “dignità di stampa” della tesi. Finalmente qualcuno, un’istituzione, un’entità terza e imparziale gli dichiarava uno sconfinato apprezzamento, lo definiva un vincente. Melchiorre proprio non si capacitava.

E dire che la temutissima nonché desiderata Eva Kant gli aveva fatto un cazziatone per il ritardo nella consegna della tesi, minacciando di escluderlo dalla seduta di laurea. Sempre così le donne, pensò Eugenio alla fine della cerimonia, dopo aver recuperato la vista e l’udito: prima tante storie e poi, quando non chiedi nulla, ti si concedono perché così sta bene a loro.

Uscito dall’aula magna del Rettorato, in cielo c’erano tante nuvole ma finalmente lui tornava a vedere la luce, poteva riprendere fiato. Perfino Stefania, la ragazza del bar di tutti i giorni, venne ad abbracciarlo lungo la scalinata del Palazzo degli Intronati con un sorriso tanto sorprendente quanto desiderato.

Mentre riceveva le congratulazioni, pensò al percorso che aveva alle spalle: erano passati quattro anni esatti dal suo arrivo a S., dove in pieno agosto aveva preso alloggio nel sottotetto di una pensioncina malfamata, situata in un’immota stradina medievale senza tempo e senza aria. Stava facendo gli esami di riparazione, perché portava lui stesso le carte del trasferimento dall’università di P.  Doveva farsi bastare le cinquantamila lire che la madre gli aveva lasciato confidando in un breve soggiorno, ma lui si era dovuto trattenere per due settimane. Negli ultimi giorni prima della partenza, in attesa delle carte ufficiali, campò solo con una fetta di croccante di mandorle all’ora di pranzo.

Come (non) sa di sal lo pane altrui, pensava Eugenio in quel mondo al rovescio di S. dove si mangiava solo pane sciapo. E come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale, per lui Figicciotto doc, dover studiare l’economia politica, la scienza del capitale.

Disse di no sia all’attività politica diretta nel più grande partito comunista dell’Occidente, sia a quella indiretta, rifiutando di continuare il corso di Scienze Politiche di P. dove regnava una dequalificazione vergognosa. Aveva perfino incontrato un professore di Diritto Costituzionale che a conclusione dell’esame gli disse “Lei, Melchiorre, diventerà un grande giurista”. Ma mi faccia il piacere, pensò lui, lusingato, ma aveva già deciso di cambiare aria.

Accettò quindi la grande scommessa di giocare fuori casa, in tutti i sensi, a 400 km da C., abbandonò ogni utopia politica, lontano dalle fumisterie e dai cascami dell’Italietta umanistica e retorica e abbracciò definitivamente l’economia.

Interpretò a suo modo la corsa per l’esistenza, con la giustificazione che la sua famiglia si stava sgretolando, che mancavano i soldi, che doveva rendersi indipendente al più presto. Si trasformò in una macchina per esami, non perdeva un colpo.

La fregola di concludere l’università fu l’alibi, la clausola di sospensione dell’intera sua esistenza. Tutto per lui era diventato “ne parliamo dopo la laurea”. Lontano dalla sua famiglia, aveva assecondato una ben congegnata forma di nevrosi. Finalmente poté fare a meno non solo del padre, fuggito via con una poetessa di provincia, ma anche della madre, la fonte di tutte le sue paure, rimasta sola a casa a nove ore di treno da S.

Sul cammino della laurea incontrò anche diverse distrazioni e contrarietà, ma Melchiorre resistette, fino a diventare agli occhi dei suoi amici un benchmark cui tendere, una persona determinata.

Dell’amore, poi, non ne parliamo. Il periodo trascorso a S. lo visse come la traversata nel deserto. Si sentiva un appestato. Nessuna donna nutriva per lui un vero interesse, come sua madre d’altronde, che aveva occhi solo per Alberto il primo figlio, il Re Sole, un caso da Telefono Azzurro secondo Eugenio. A dir il vero, si mostrava come un solitario, un cane bastonato, ma lui stesso aveva detto addio a Daniela, una ragazza che lo amava veramente, di cui si era liberato non potendone più della vita monotona e piagnucolosa da fidanzati in casa.

Il padre lo rivide proprio il giorno della tesi dopo due anni che non si erano più incontrati. Il prof. Melchiorre non si tirava mai indietro quando si trattava di festeggiare, sempre in quel modo sguaiato.

Insomma, Eugenio vide l’agognata laurea come Costantino la croce apparsagli prima della battaglia di Ponte Milvio. Ma lui non sapeva che Eusebio e Lattanzio, i due storici dell’epoca, non confermarono quell’apparizione data per certa dalla tradizione.

***

Era un giorno come tanti della sua traversata che Eugenio si risvegliò tutto sudato, soffocato dalle troppe coperte che si era tirato addosso per combattere il freddo. In quella casa, di accendere la stufa non se ne parlava.

Pioveva dalla notte, un tic-e-tic deprimente e alle sette e mezzo non si vedeva uno spiraglio di luce. Cercopitex Maior e Cercopitex Minor, i due studenti pugliesi uno più brutto dell’altro, ancora dormivano, come facessero con quel freddo, non si sa.

Fece colazione da solo nel triste cucinino, dove non arrivava la mesta luce del giorno.

Intirizzito alla scrivania, cercava di studiare in attesa di andare a lezione.

Per ingannare il tempo si mise a trafficare con la radio, che accendeva solo la sera per ascoltare le radio libere.

Edizione straordinaria: In un agguato questa mattina a Roma è stato sequestrato il Presidente della Democrazia Cristiana Onorevole Aldo Moro. Ammazzati i cinque uomini della scorta.

«E vai!» disse d’istinto, come allo stadio per un gol segnato dai neroverdi.

Si mise a girare per casa saltellando, eccitato. Andò subito a dirlo ai cercopitechi, ma non condivisero la sua esaltazione: Aldo Moro, in fondo, era uno delle loro parti, dove erano nati e dove, laureati in dieci anni o più, sarebbero tornati.

Uscì in fretta, doveva parlare con qualcuno. Finalmente aveva smesso di piovere. Per le vie del centro storico non c’era molta gente, nessuno ancora sapeva.

Arrivato nel vecchio convento di San Francesco, andò di corsa nello studio del giovane professore di diritto dell’economia, di cui era diventato amico.

«Marco, hanno rapito Moro!» disse tutto sorridente.

«O’ bischero, o’ che tu dici, ma non dire cazzate» replicò Marco Bardini col suo modo di fare tanto apprezzato dagli studenti.

«Giuro, ho ascoltato il giornale radio. Andiamo da Ugo, o in Presidenza, e vedrai che dicono».

Marco Bardini ebbe addirittura l’onore di parlare con Eva Kant in persona.

Sì, era tutto vero, confermò la giovane e avvenente preside di Facoltà.

Nei corridoi dell’università stava crescendo il via vai di gente. Il personale era in apprensione, alla ricerca di direttive sul che fare.

Bardini si rabbuiò, accese una sigaretta.

«Eugenio, è un bel casino, te fai presto a ridere. Sono state le Brigate Rosse, hanno fatto un comunicato con la rivendicazione, ora sono cazzi»

«Le Brigate Rosse … che organizzazione. Sono dei pazzi, ma penso che abbiano la simpatia di tanti» disse Eugenio, sapendo di parlare a un amico fidato.

«Detto da te, un berlingueriano di stretta osservanza, ma sei matto? Un arido economista stock-e-flussi come te, che odia gli estremisti, stai sempre a criticarmi per il mio passato in Avanguardia Operaia e ora solidarizzi con le BR? Proprio non ti capisco»

«Hai ragione, ma c’è una grande frustrazione in giro. Dopo il mancato sorpasso del PCI alle elezioni, dopo i casini dell’anno scorso a Bologna e nel Paese, abbiamo perso lo smalto, il tempo giusto, ma soprattutto siamo isolati. Berlinguer non sa più che inventarsi per realizzare il compromesso storico. Oggi il Partito voterà a favore di un monocolore Andreotti, dove saremo trattati come questuanti in sala d’aspetto, una bella fine per il partito di Gramsci-Togliatti-Longo-Berlinguer, non trovi?»

Aveva appena terminato le sue suggestive interpretazioni, che entrò Ugo il capo dei bidelli, sbraitando che la Facoltà stava chiudendo.

«Sciopero generale! La democrazia è in pericolo! Usciamo, usciamo!»

Eugenio seguì il flusso di persone che abbandonavano San Francesco, vedeva la paura negli occhi della gente per strada.

Sentì l’euforia scemare poco alla volta.

Passando sotto l’arco di Via dei Rossi, raggiunse i Banchi di Sopra, c’era gran confusione in Corso Angiolieri. Un blindato dei carabinieri era parcheggiato di traverso con diversi militari in tenuta antisommossa. Si sentivano echi di altoparlanti da Piazza Dante.

Avvertì una fitta all’altezza dello sterno, e poi un giramento di testa. Si dovette appoggiare a un muro per riprendere fiato. Decise di andare alle Tre Donzelle da Giustino, lo studente quarantenne di C., la sua guida spirituale nell’esilio universitario.

Lo trovò nell’atrio del buio e fetido alberghetto alle spalle della piazza del Comune, sprofondato in una poltroncina dal rivestimento porpora a brandelli, che fumava e leggeva l’Unità, gli occhiali spessi, con indosso l’immancabile loden verde scuro.

Lo studente anziano si alzò con fare preoccupato, l’inconfondibile voce roca: «Hai visto che hanno combinato? Daje e daje la cipolla diventa aglio».

La campagna di odio contro il regime democristiano, il capitalismo, i padroni, aveva alla fine partorito i suoi frutti, intendeva Giustino con un adagio della loro terra.

«Hanno inquadrato l’obiettivo grosso, hanno preso l’interlocutore di Berlinguer per il compromesso storico».

«E ora che succede?» gli domandò Melchiorre angosciato.

«Vogliono mettere in ginocchio lo Stato, ridicolizzarlo. Ci sarà prima una reazione dei fascisti. I servizi deviati, vedrai, saranno legittimati a porre fine a tutto questo casino. Uno stato di polizia che verrà accettato da gran parte della popolazione. E noi saremo i primi a inabissarci, siamo tutti schedati noi comunisti, lo sai?».

A sentire quelle parole, Eugenio cominciò a sudare. Giustino si accorse di qualcosa che non andava.

«Intendi dire che dovremmo fuggire, andare sulle montagne? Che bisogna fare, dimmi», sentiva il cuore accelerare.

«Che hai, non ti agitare, per ora non succede niente. Mettiti seduto. Vedrai, prima o poi li prenderanno. Speriamo che non ammazzino Moro, questo non lo si può augurare nemmeno al peggior nemico, non credi?».

Gli girava la testa. Aveva le palpitazioni.

«Giustì, sento che mi manca il respiro …».

Melchiorre riaprì gli occhi disteso su una barella nel pronto soccorso del vecchio ospedale medievale di S.

Il fido Giustino era fuori dell’astanteria ad attenderlo.

«Meno male che c’eri tu, grazie» gli disse mentre un bel sole illuminava il portale del Duomo, quegli scacchi bianchi e neri risaltavano più che mai.

«Sei andato giù come un sacco di patate, mi sono preoccupato, non rinvenivi e ho chiamato i soccorsi», disse mentre accendeva l’ennesima Marlboro.

«Che è successo? Ci sono segnali di un colpo di stato? Li hanno presi?».

Giustino tirò fuori dal cappotto una radiolina minuscola: «Hanno condotto un’operazione militare in grande stile, dicono con venti brigatisti coinvolti, hanno massacrato i cinque uomini della scorta, questi bastardi. Vogliono il rilascio di alcuni terroristi, altrimenti ammazzeranno Moro».

Scesero per la ripida scalinata che dal Duomo porta dritto in Piazza. Girarono per Via di Città, c’era molta gente, una grande agitazione. I negozi avevano le saracinesche abbassate. Arrivati alla Croce del Travaglio, Eugenio ebbe paura di un altro attacco di panico.

«Non ce la faccio, torno indietro, vado a casa, raccatto la mia roba e prendo il primo treno che trovo».

«Fermati, dove vai, non fare sciocchezze, per ora non c’è pericolo, vediamo cosa succede. Parlavano di uno sciopero generale» disse Giustino per tranquillizzarlo.

Si sedettero sui gradini della Loggia della Mercanzia. Le voci, gli slogan dagli altoparlanti si fecero più forti, un corteo veniva dai Banchi di Sopra.

Un centinaio di operai in tuta, molti cittadini, rulli di tamburi, sfilavano con le bandiere rosse.

Quando intonarono “Bella Ciao” le lacrime scesero sulle guance di Eugenio, tremava.

«Giustì, sono i nostri, siamo noi» disse appoggiandosi all’amico, stringendogli forte il braccio.

Si infilarono nel corteo con una certa timidezza, ma pian piano presero coraggio e andarono fino in piazza. Le notizie confuse e allarmanti continuavano a seminare paura e angoscia tra la gente. Ascoltando il primo oratore, un sindacalista comunista, Eugenio pensò che quel giorno era lo spartiacque, la fine dei sogni.

***

Il diciotto di luglio, quattro giorni dopo la tesi, all’incirca alle sei del pomeriggio, i cappuccetti liquefatti delle candele facevano marciare la sua 500 color sabbia un cilindro sì un cilindro no e al quarto tornante dell’arrampicata finale la macchina si rifiutò di proseguire. «Arieccoci, il solito futuro» si disse sconsolato. E giù un moccolo nell’idioma materno di Melchiorre.

A casa a C. lo attendeva un singolare comitato di accoglienza: genitori assenti, separati da due anni, la madre in montagna con un vecchio bacucco di cui era solo “conoscente”, il padre fuggito alle Isole Tremiti con la sua musa, Carlo dalla fidanzata nel Salento e Alberto che non mangiava da giorni, in preda a una forte depressione. La madre lo pregò: «Rimani sempre nei dintorni, mi raccomando, non vorrei facesse una sciocchezza».

Regali zero, zero soldi per fare un viaggetto dopo la laurea, la casa al mare venduta l’anno precedente, il neodottore in Scienze Economiche della prestigiosa Università di S., non l’economia e il commercio, ma l’Economia Politica, si ritrovò guardiano del fratello maggiore, da lui per nulla amato, che voleva buttarsi dal balcone. Si ridusse a sperare in qualche bagno al mare, a pochi chilometri da casa, ma senza assentarsi per l’intera giornata.

Per la disperazione si immerse ne “Il nome della rosa” di Umberto Eco, che era stato pubblicato in primavera. Per qualche giorno riuscì a distrarsi e a far credere ad Alberto che non fosse a casa solo per impedire il suo suicidio. Qualche volta, però, doveva scambiarci due chiacchiere, confortarlo, gli preparava da mangiare. Fortunatamente, era un luglio di caldo sopportabile.

Ogni tanto tirava fuori dal cassetto il certificato di laurea, lo rimirava, per complimentarsi dell’impresa, per convincersi che era tutto vero, anche quel ventisei a Economia Internazionale, l’unico esame sostenuto due volte e per il quale aveva studiato a memoria, cosa che non aveva mai fatto in vita sua. Ma ormai tutto era stato assorbito nella grandiosità dell’esito finale.

Passavano i giorni e l’effetto placebo della “dignità di stampa” della tesi pian piano svaniva. Ristagnava per casa in canottiera e ciabatte, quando transitò nel suo cielo una cometa inattesa: Eliana De Medio, amica di lunga data di Alberto, quasi trentenne, una donna fino a quel momento inarrivabile per Eugenio.

Era una bella ragazza bruna, sempre in tiro, garbata, con il fascino dell’elevata estrazione sociale e il naso affilato che le conferiva uno sguardo vagamente intrigante.

Di fronte a quel pianto di Alberto, Eliana si appassionò alle vicende di Eugenio, di punto in bianco diventato una star ai suoi occhi: l’Economista Eugenio, paragonabile a un progettista spaziale di Cape Canaveral.

«Perché non vieni da noi in piscina uno di questi pomeriggi?» lo invitò Eliana dopo aver salutato il catatonico Alberto.

Eugenio, del tutto impreparato, disse di sì per educazione, a una donna più grande di lui, il tipo di persona, poi, che non aveva mai frequentato. Non poté fare a meno di pensare al Laureato, che aveva visto al cinema per ben tre volte, a Dustin Hoffman e Anne Bancroft, a quel suo tono di voce conflittuale, irriguardoso.

Non pensava alla travagliata storia d’amore di Hoffman con Elaine, la figlia di Mrs. Robinson, ma solamente al galleggiamento del materassino nella piscina assolata sotto lo sguardo perverso di Anne Bancroft, anelava a quel limbo di esistenza potenziale del laureato in attesa. Ricordava i raggi del sole che si rifrangevano nell’acqua e le note di Simon e Garfunkel. “Hello darkness, my old friend I’ve come to talk with you again”. Sognava il Duetto rosso decappottato sfrecciare lungo le lussureggianti strade costiere della California.

Sognava, posponeva la vita, e già vedeva la fine della traversata nel deserto. Una donna bella come Eliana non l’aveva mai immaginata.

Si fece forza e si decise ad andare con la sua 500 da pezzente nella villona anni Settanta dei De Medio, il padre ingegnere, titolare di un brevetto per gli insufflatori cosmetici e sanitari che gli rendeva una fortuna.

Eliana si fece trovare da sola in casa. Il suo bikini striminzito e lasco, di un azzurrino spento, non passò inosservato.

Quando Eugenio vide la piscina immersa in quel sole scintillante rimase a bocca aperta, era come Bigger Splash di Hockney, con gli spruzzi d’acqua intorno al trampolino. Ma a lei non disse nulla, gli mancavano le parole, troppo difficile da spiegare. E non c’era bisogno di menzionare il Laureato, c’erano dentro fino al collo.

Lui scelse un lettino blu prossimo alla vasca, Eliana una chaise longue color indaco.

Dopo un paio di tuffi, la conversazione ruotava unicamente intorno al futuro di Eugenio. Eliana era una persona più frivola di lui, non aveva portato a termine Medicina e latitava nella vita, in attesa di qualcosa.

Melchiorre non credeva ai suoi occhi, pensava di essere veramente di fronte a una svolta. Fantasticava su una specializzazione in qualche università americana, accompagnato da una donna affascinante e ricca. Navigava dentro quell’immagine californiana della piscina.

L’avvicinamento tra i due fu romantico e appassionato, ma l’eccitazione giocò ad Eugenio un brutto scherzo. Eliana, che aveva ben poco di Mrs. Robinson, non ne fece un dramma, gli diceva in continuazione «Eugenio, vedo per te un grande futuro, che darei per essere al tuo posto, goditi il momento».

Si, avrebbe voluto dirle, un grande futuro menomante.

***

Ebbe ragione lui, non l’esagerata aspettativa di Eliana, a cominciare dal timore della fine di ogni speranza collettiva.

Eva Kant, la preside della Facoltà, vive ancora, ormai invecchiata, sfiora gli ottanta, ha mantenuto fede alla sua singolare bellezza. Qualche anno fa indirizzò una mail a Melchiorre per complimentarsi di un suo articolo sull’utilizzo dei modelli di simulazione nel campo della finanza. Lui rispose con immutata devozione.

I genitori di Eugenio sono morti da un pezzo. Una volta divorziati nessuno dei due riuscì a raddrizzare la propria vita e il figlio li accompagnò al camposanto sine ira et studio, con l’affetto che lui riteneva di non aver ricevuto da bambino.

Alberto-il Re Sole non si buttò dalla finestra ma ha avuto una vita travagliata di amori e lavori insoddisfacenti nel campo dell’editoria e del giornalismo. Vive solo come un cane, nessuna progenie, le mani bucate per l’acquisto compulsivo di qualsiasi bene di consumo. I loro rapporti sono interrotti da molti anni a causa, dice Eugenio, della sua ostinata cattiveria da primo figlio spodestato dal trono.

Giustino, lo studente anziano laureatosi in Medicina a cinquant’anni, è morto. Tornato a C. con la moglie nativa di S., faceva il cultore della materia nei disastrati ospedali della zona. Separatosi dopo poco tempo, è morto ad appena settant’anni di un infarto fulminante in piazza, riverso sul cofano della sua vecchia 127 azzurrino metallizzato mentre discorreva con i perdigiorno di C. di politica e pallone e con la solita Marlboro tra le labbra.

Eliana ha rispettato le premesse: a trentadue anni ha sposato un ricco medico della Capitale, dove vive tuttora con tre figli, due nipotini, un benessere invidiabile e tante giornate vuote da riempire. È una nonna decisamente attraente.

Il maldestro incontro di quell’estate rimase per molto tempo un ingombrante ricordo tra loro due. Eugenio se l’era legata al dito e cercò Eliana quando seppe della morte del marito. Lei, come tanti anni prima, non disse di no. Questa volta Eugenio non pensò ad Anne Bancroft, e non fece cilecca.

Non andò poi a specializzarsi in America, né diventò un vero e proprio economista, ma è stato ugualmente un uomo fortunato sotto ogni punto di vista, tranne il suo.

La 500 color sabbia da pezzente fu presto rimpiazzata non dalla Duetto di Dustin Hoffman, ma da una bellissima Fiat 127 bianca ultimo modello.

Melchiorre ha sempre goduto di buona salute, a parte una brusca depressione intorno ai trent’anni. Dovette assumere ansiolitici per poter assecondare dignitosamente il suo accettabile destino di discese e risalite. A seguire, fece dieci anni di psicoanalisi reichiana con un selvaggio di grandi capacità che provò ad insegnargli che le identificazioni proiettive erano i peggiori tiranni della sua vita.

Si è sposato dopo i quarant’anni, facendo due figli e una bella famiglia, quella che lui non aveva avuto. Ha raggiunto nella Capitale una posizione di prestigio e molto ben remunerata, non ha avuto soverchi problemi di fronte alle incognite della vita. Insomma, è un adattato di successo, per giunta non presuntuoso, un esemplare nativo di C., a cui è rimasto molto legato. Non ha mai desiderato il lusso né è attaccato ai beni di consumo o di status. Per lungo tempo ha viaggiato in Doblò e Cubo Fiat.

Lui è rimasto quello della piscina, ha alimentato la sua vita con sogni e illusioni che forse non si potevano realizzare. Nel corso degli anni Mrs. Robinson e Bigger Splash sono stati rimpiazzati da altri abissi contraddittori e inarrivabili che non dichiarava nemmeno a sé stesso e che non stiamo qui a narrare.

Le sue gioie, la felicità e le conquiste sono state spesso accompagnate dall’inspiegabile retrogusto della sconfitta, da un senso di mancata soddisfazione. C’è da dire, a suo merito, che non ha mai accampato scuse per le circostanze o le persone incontrate al suo passaggio. Non serba rimpianti, né parla di occasioni mancate.

Sette anni fa, è stato nominato Cavaliere della Repubblica. Ne è stato molto contento. Dopo all’incirca un mese, la gioia era già tutta evaporata in quella svalutazione pervicace che ha quasi sempre funestato le realizzazioni della sua vita: “è un’onorificenza che danno a tutti, altri miei colleghi sono già Grande Ufficiale o Commendatore”.

Solo in un’altra circostanza gli capitò di perdere l’udito e la vista come di fronte a Eva Kant. Fu durante la consegna della pagella di prima media di Letizia, la sua primogenita.

Ancor oggi non può fare a meno, a sessantasette anni, di inseguire un futuro menomante, per il tempo che gli rimane.