Racconto di Umberto Signorelli

(Prima pubblicazione – 30 gennaio 2019)

 

Sin da piccolo, ho sempre amato gli spazi aperti, girare per i campi e per la campagna, correre nei prati con gli amici, sentire il contatto con la terra. Uno come me poteva solamente fare l’agricoltore.

E cosi ho fatto proseguendo l’attività dei miei familiari. All’opposto, i luoghi chiusi mi opprimevano, soprattutto gli uffici. Ogni qualvolta mi dovevo recare da un notaio, magari per una vendita o un acquisto di un terreno, era una tragedia. Lasciare il mio lavoro nei campi, vestirmi in modo adeguato, con giacca, camicia, a volta la cravatta, non faceva proprio per me, anche se,

purtroppo, spesso era inevitabile.

Quel fatidico pomeriggio di dicembre mi dovevo recare in banca per concludere un’operazione finanziaria. Mi misi in macchina e guidai alla volta di Milano, parcheggiai in periferia e presi i mezzi per raggiungere il centro. In quella banca, ogni venerdì pomeriggio si incontravano gli agricoltori allo scopo di discutere e concludere transazioni commerciali e gli uffici rimanevano

aperti fino a tardo pomeriggio. La banca, che era in piazza Fontana, era appunto denominata Banca Nazionale dell’agricoltura. Avevo un appuntamento con un funzionario attorno alle ore 16,30 e in cuor mio speravo di sbrigare il tutto in non più di dieci minuti. Entrai pertanto nell’istituto di credito, mi guardai attorno, il funzionario mi vide e mi salutò facendomi capire di aspettare qualche minuto e che a breve sarebbe stato da me. Fu l’ultima scena che vidi, un istante prima che il mio corpo venne disintegrato dall’esplosione. Una bomba quando esplode non si guarda attorno e non prova pietà per i malcapitati situati nelle sue vicinanze. Esplode e basta, portandosi dietro morte e distruzione. La deflagrazione fu potentissima e il boato venne udito anche a centinaia di metri

di distanza. Gli effetti furono devastanti e ciò che videro i primi soccorritori fu sconcertante.

Persone ferite che vagavano nel salone urlando e piangendo, a terra cadaveri e pezzi di persone

smembrate, carne bruciata, sangue dappertutto. Il grosso tavolo al centro del salone non c’era più, e non c’erano nemmeno i resti. Si era semplicemente disintegrato; vaporizzato. L’orologio segnava le ore 16,37 e continuò a segnare la stessa ora per molti anni, come se il tempo si fosse fermato. Il tempo si era fermato, soprattutto per la giustizia, la quale non si è mossa da quella data. E’ ancora li, nonostante siano passati decenni, è sempre lì, ferma, alla stessa ora.

Mi sono sempre chiesto, come può una persona normale decidere di piazzare un ordigno esplosivo

in mezzo a tanta gente; decidere di ammazzare decine di persone che nemmeno conosce. Non ho mai trovato la risposta. Cose dell’altro mondo.

Le ‘cose dell’altro mondo continuarono anche nei giorni successivi. Vennero arrestate e accusate inizialmente persone che non c’entravano per niente. In un ufficio della questura, una sera, forse a causa del gran caldo e dell’afa venne spalancata una finestra. D’altra parte è normale che a Milano in dicembre ci sia tutto questo caldo. E’ normale che quando si apre una finestra qualcuno cade sfracellandosi al suolo. E’ normale che la moglie e i figli non vengano tempestivamente avvertiti, dopotutto si tratta solo di un tale che cade, o viene spinto a cadere, dal quarto piano. E’ normale, tutto tremendamente normale.

Ma non finì qui. In un paese democratico quando avvengono queste cose ‘normali’  la macchina della giustizia si mette immediatamente in moto. Venne pertanto istruito un processo che però,

dopo qualche anno, probabilmente per agevolare i familiari delle vittime, fu spostato a 1000

chilometri di distanza, più precisamente a Catanzaro.

Non voglio raccontare tutte le fasi di questo processo, rischierei di annoiare. E’ una lunga storia

che parla di depistaggi, insabbiamenti, imputati che vengono prima condannati all’ergastolo

e poi assolti, politici che non ricordano, esponenti dei servizi segreti che non sanno. E intanto

gli assetati di giustizia morivano di sete. Cose dell’altro mondo.

Ma il peggio doveva ancora venire. E quando venne, morii una seconda volta, di una morte anche peggiore della prima. Nel 2005 vennero definitivamente chiusi gli atti processuali. Nonostante i tempi rapidi di esecuzione strombazzati dai politicanti di allora, il processo durò ben 36 anni. (ma cosa sono 36 anni di fronte all’eternità?) e si concluse con una sentenza clamorosa, assurda, talmente assurda che non puoi nemmeno pensarla:

Nessun colpevole. Nessun colpevole. Nessun colpevole.

Avete capito bene: nessun colpevole.

Queste due parole fanno ancora più male della bomba. Mentre la bomba ha distrutto il mio corpo, queste due parole stanno dilaniando la mia anima, continuamente, senza sosta.

La sentenza prevede anche che le spese processuali sono tutte a carico dei familiari delle vittime.

Cose dell’altro mondo!

Ma se nessuno è colpevole, viene spontaneo chiedersi: ma allora questa bomba chi l’ha messa?

Forse è venuta da sola, in taxi. O forse è piovuta dal cielo. D’altra parte pioveva, piovigginava.

Oppure, dato che i nostri familiari sono stati condannati a pagare tutto, è lecito pensare che i colpevoli siamo noi. L’abbiamo portata noi, passandocela di mano in mano come si fa col testimone di una staffetta. 36 anni per arrivare a questo. La giustizia alla fine trionfa sempre.

Ma non dovete preoccuparvi per me; io qui non sono solo, ma ci sono altre persone come me, persone che mentre svolgevano le loro consuete attività, sono incappate in una bomba. Si perché

dopo il fatto che ho descritto, sono accaduti altri episodi analoghi. Altre esplosioni, altri corpi

dilaniati, altri processi, altri non ricordo, altre assoluzioni. Altre cose dell’altro mondo.

Ma perché ho raccontato questa storia? L’ho fatto per un solo motivo, allo scopo che nessuno

di noi venga dimenticato. Vorremmo che finalmente trionfi la verità, che finalmente vengano a galla le responsabilità di chi ha ordito tali trame. Non ci stancheremo mai di chiedere giustizia; facciamolo tutti assieme, noi e voi, insistentemente, per far si che questi avvenimenti,

queste cose dell’altro mondo, non debbano più ripetersi. Mai più.