Racconto di Maria Francesca Cantacessi
(Ottava pubblicazione)
La casa è circondata da campi ormai incolti, un tempo c’erano frutteti, uliveti e vigneti, piante tipiche mediterranee, ha una struttura di una fattoria, dietro ci sono le stalle, che un tempo hanno ospitato mucche e vitelli, maialini e pecore per la produzione del latte. La struttura è rimasta intatta è una costruzione non molto antica, forse è stata ristrutturata negli anni settanta.
La costruzione si trova a pochi chilometri da una località turistica in voga, con il tempo sono state costruite ville signorili, curate, in fondo alla strada è sorta perfino una grossa struttura alberghiera. Tutto però a debita distanza da questa casa rimasta indenne dalla modernità, rimasta in disparte come una contadina del sud orgogliosa e tenace. Questo posto l’ho visto per la prima volta, quando era una fattoria ed era in piena attività, una come tante che in passato adornavano le campagne pugliesi. Oggi come allora è isolata dal mondo e dalla civiltà. Ed io credevo che ci vivesse una famiglia felice.
Entro nella penombra, che strano ho l’impressione di entrare in un museo: la stanza più grande è un salone con mobili di legno scuro ormai caduti in disuso. Una casa un po’ demodé. Guardo i ritratti su un mobile stile barocco con specchiera, dei visi felici: una donna con un abito nero lungo sformato, ha in braccio una bimba e altre due poco più adolescenti la circondano e sorridono. Ho conosciuto i proprietari quando ancora ero una giovane ragazza, erano gli zii del fidanzato di mia sorella. Quanto tempo è passato? La zia mi aveva subito colpito, un viso mite, buono, aveva sempre la testa tra le nuvole. Le figlie, ne aveva tre, la consideravano, bonariamente, un po’ stravagante, infatti non capivano perché lei fosse sempre così distratta! L’estate la casa era sempre molto frequentata, perché la famiglia era numerosa, la casa era a pochi chilometri dal mare e zii, nipoti, cugini passavano da lì a pranzare, dopo aver passato una giornata al sole. Ricordo, che lei svampita com’era, nel bel mezzo del pranzo, spariva e nessuno sapeva mai dove andasse. Avevano preso così, l’abitudine di non cercarla e si iniziava a pranzare senza di lei. Verso la fine del pranzo, all’improvviso sbucava, da qualche parte come se nulla fosse successo e si sedeva tranquilla a mangiare. Il marito, mi sembrava un padre padrone, tutto si svolgeva come lui ordinava. Lavorava la terra e manteneva la fattoria e penso che di tempo da dedicare alla moglie ne avesse poco o niente.
Nella cucina c’è ancora il cammino, ancora oggi si può notare che è situato al centro della casa e se ci si sofferma un po’ sembra di vedere seduti intorno tutta la famiglia, quello forse era il loro punto di incontro nelle fredde e buie serate invernali.
Le tre figliole, erano ormai cresciute e quindi erano tutte fidanzate e presto si sarebbero maritate. Forse, anche loro sognavano una vita più interessante rispetto a quella vissuta in questa casa in campagna isolata dal mondo, senza attrattive. Forse, sognavano di andare lontano da quel padre padrone. Nelle calde serate estive, magari, avrebbero desiderato di poter andare a ballare o andare a guardare un bel film al cinema. Forse speravano di trovare un lavoro meno pesante di quello che svolgevano nei campi e nella fattoria. Chissà… Nulla faceva presagire quello che sarebbe successo, sembrava una famiglia felice. Una famiglia come quelle che vedevo in TV: “la casa nella prateria”, ecco mi ricordavano quella serie tv. Non sapevo, allora, che salvare le apparenze era molto importante.
Le prime due figlie andarono via presto: appena in età da marito, forse a loro era sembrato quello l’unico modo di scappare da quella vita dura. Erano in atto i preparativi per il matrimonio dell’ultima figlia che avevano distratto momentaneamente la madre dal solito tram-tram quotidiano; c’era stata la festa che aveva portato una ventata di belle emozioni. Dopo, quello fu il confine oltre il quale nulla tornò più come prima. Cosa avrà provato la madre? Avrà visto il vuoto aprirsi davanti? Un vuoto incolmabile? Le giornate lunghe e sempre uguali, nella casa ormai vuota e silenziosa? Gli inverni freddi e bui, solitari senza le sue bambine a farle compagnia? La immagino, nelle notti insonni ad ascoltare il vento che muoveva i rami della grande quercia che si stagliava imponente nel patio, le campagne spoglie e il gelo dentro. Non avrà visto un futuro in quei giorni. Una vita da condividere con un estraneo, a cui non poteva confidare le sue angosce i suoi dolori, le sue gioie. Un uomo che si svegliava all’alba e tornava al tramonto stanco, rude, burbero, che mangiava in fretta e in silenzio il pasto frugale senza neppure alzare lo sguardo. A letto senza più passione adempiva ai doveri coniugali e il marito senza una parola, dopo, si addormentava mentre lei ascoltava il suo respiro diventare sempre più regolare. Nel buio piangeva in silenzio tutta la sua disperazione. Quella disperazione e quell’angoscia le toglievano il fiato e le annebbiavano la mente e forse lei avrà tentato senza riuscirci di svegliarlo e magari si sarà ripetuta fino allo sfinimento il discorso che avrebbe voluto fargli e raccontargli dei suoi giorni vuoti senza amore, della “sua” solitudine e del “suo” dolore, delle sue giornate interminabili in quella casa ormai vuota, dove risuonavano ancora le risate e le voci dalle sue adorate ragazze! Nessuno le aveva mai detto che se avesse voluto, avrebbe potuto ribellarsi al quel destino crudele! Non le avevano mai permesso di gestire la sua vita! Forse nessuno le aveva mai chiesto se era quella la vita che desiderasse, e magari lei sognava qualcosa di più di una casa in mezzo al nulla, di una vita fra le galline e le pecore, le uniche che avranno ascoltato il suo grido di dolore, forse… ma non lo sapremo mai più.
Una mattina, una delle tante uguali, dopo l’ennesima notte insonne passata ad ascoltare il vento che ululava tra gli alberi d’ulivo, lei prese una decisone… per la prima volta nella sua vita, prese una decisione. Magari non le sarà sembrato vero che finalmente le sarebbe stato concesso di scegliere. Prima di compiere il gesto estremo avrà pensato di andare via da quel posto? – In che posto posso scappare? – Si sarà chiesta. Lei che era stata sempre trattata come una donna senza desideri a cui le avevano annullato tutti i sogni, una donna a cui avevano imposto una vita programmata fin dalla nascita: moglie e madre, condannata a non scegliere, ma a subire il proprio destino. Quella mattina, invece, prese in mano la sua “vita” e portò a fine la sua folle decisione.
Nessuno trovò strano che quella mattina uscisse così presto, di solito si recava al pollaio per raccogliere le uova, era una mattina molto fredda e buia con il cielo livido e il sole sepolto dietro uno strato impenetrabile di nuvole. Nulla e nessuno, ormai, l’avrebbe potuta fermare. Avrà preso lo scialle, quello nero di lana, come quelli che si vedono nelle foto turistiche delle donne del sud, con la frange lunga, quello che aveva confezionato con le sue stesse mani con i ferri, nelle interminabili e solitarie serate invernali passate vicino al camino.
Mi sembra di vederla uscire con lo scialle nel vento gelido, la immagino, soddisfatta, perché finalmente libera e ribelle, padrona della sua vita. L’ultimo atto è stato di ribellione e di rifiuto a vivere una vita vuota e senza senso. Avrà preso la sedia e l’avrà sistemata lì, esattamente dove giorni prima avrà provato e riprovato la resistenza della trave, chissà quante volte, poi avrà preso la fune l’avrà girata intorno al collo e avrà, così, messo fine alla sua angoscia e al suo insopportabile dolore.
Ricordo che allora nessuno ne voleva parlare, stesero un velo pietoso sulla vicenda! Nessuno ha mai voluto sapere la verità. Riuscirono ancora una volta ad annullare il suo coraggio, la sua libertà di scegliere tra una vita insensata e la determinazione a non soffrire più.
Quella donna con il viso così mite e buono fu spesso protagonista dei miei incubi adolescenziali, molte volte mi sono chiesta che cosa fosse successo! Nessuno doveva sapere, allora, come adesso, dalle mie parti era inimmaginabile e scandaloso che una donna, una madre, una moglie potesse non essere felice nella sua casa con la sua famiglia. Fu messo tutto a tacere e nessuno ne ha parlato mai più.
Tra le mura ad archi, nel patio, si scorge ancora la vegetazione mediterranea e il frutteto. Il cestino di paglia intrecciata che serviva per raccogliere i frutti è ancora appeso al muro accanto al pozzo, la quercia secolare continua a fare ombra agli ospiti che trovano riparo dal caldo afoso delle estati del sud. Si siedono sulla panchina di mattoni rossi e gli offrono una bibita fresca: qui siamo tutti molto ospitali. Oggi mi trovo qua, sento un brivido che mi sfiora la schiena nonostante il sole e il caldo asfissiante e penso, che questo sia “davvero” un posto speciale.
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