Racconto di Gessica Pegoraro
(Seconda pubblicazione)
Le tende ricamate ondeggiavano lentamente, sospinte dalla brezza che entrava dalla finestra aperta e portava all’interno del salotto un leggero profumo di gelsomino. Quel delicato fruscio era l’unico rumore e il solo movimento in uno scenario perfettamente immobile e silenzioso, composto da una credenza intarsiata, un divano ricolmo di cuscini e un pesante tavolo in rovere ai cui piedi era ammucchiata la tovaglia in broccato che per lungo tempo aveva coperto e decorato quel mobile, ma che ora giaceva a terra, avvolgendo qualcosa di completamente diverso ma ugualmente inerme. Dai motivi floreali del tessuto spuntava una testa di capelli cotonati color acciaio, che incorniciavano un volto cianotico la cui bocca spalancata sembrava esprimere un ultimo e definitivo moto di disgusto. Il resto del corpo era nascosto dal broccato, che era divenuto un sudario improvvisato dopo che la mano ossuta che ancora lo stringeva in una morsa eterna vi si era aggrappata in uno dei suoi ultimi movimenti.
“Cosa ne dice commissario?” chiese il vice al suo superiore, interrompendo quel silenzio perfetto e ricevendo in risposta un’alzata di spalle.
“Non credo ci sia molto da fare qui” disse il commissario “Per i paramedici è stata una morte naturale e durante il sopralluogo non abbiamo trovato segni di effrazione, né di colluttazione e…”
“Ma cosa ne pensa della tovaglia a terra e del vaso rotto?” lo interruppe il vice, indicando i resti del vaso in cristallo, i cui frantumi circondavano di schegge lucenti il cadavere e il broccato.
“La vittima evidentemente ha afferrato la tovaglia prima di accasciarsi a terra colta da un malore e nel farlo ha trascinato giù anche il vaso che si trovava sul tavolo, facendolo cadere sul pavimento, frantumandolo” replicò il commissario in tono asciutto.
“Però come si spiega che quella cornice sia rimasta intatta?” rincarò il vice, indicando l’oggetto che giaceva accanto al corpo e racchiudeva la sbiadita fotografia in bianco e nero di due bambine.
Il suo superiore inarcò un sopracciglio e scandì lentamente, come se parlasse a un alunno ottuso: “Perché la cornice è in legno e quindi ha resistito all’urto contro il pavimento, mentre incredibilmente il vaso di cristallo non è riuscito a fare altrettanto”
L’ironia delle sue parole fece arrossire il vice che, nel tentativo di cambiare argomento, indicò il corridoio e balbettò “Se vuole avere qualche elemento in più può parlare con il medico curante della vittima, che è venuto a somministrare un calmante alla Signora Drasti”
“A chi?”
“La Drasti è la domestica che stamattina ha scoperto il cadavere e dato l’allarme. Visto che era piuttosto turbata e non riusciva a calmarsi…”
“Definirla un po’ turbata mi sembra un eufemismo” scosse la testa il commissario, ricordando il pianto irrefrenabile della donna alla quale un’ora prima aveva cercato di fare qualche domanda.
“Beh, per evitare che ci fosse un altro cadavere ho avvertito il medico curante della Drasti, che è lo stesso della vittima” disse il vice con un mezzo sorriso che venne subito stroncato dal superiore.
“Questo è un paesino di duemila anime, è abbastanza ovvio che abbiano tutti lo stesso medico di base” disse volgendo lo sguardo verso il corridoio. “Ma visto che questo dottorino è qui, andiamo a sentire cosa ci può raccontare” aggiunse, incamminandosi verso i singhiozzi soffocati che provenivano dalla cucina.
Una volta entrati nella stanza i poliziotti videro l’anziana domestica intenta ad asciugarsi le lacrime mentre un uomo brizzolato le parlava dolcemente.
“Il Dottor Fonelli?” chiese il commissario.
“Sono io” rispose l’uomo, voltandosi e rivolgendo un cenno del capo al suo interlocutore.
“Può seguirci in salotto? Avremmo alcune domande da farle” disse il vice.
Il dottore si congedò dalla domestica e seguì velocemente i due uomini nella stanza accanto.
“Ho dato un blando sedativo alla signora e ora mi sembra più calma, anche se ha subito un forte shock” esordì il dottore.
“Non è sulla Drasti che le vogliamo chiedere qualcosa, ma sulla vittima” ribatté il commissario indicando il cadavere.
“La Signora Mazzoleni?” chiese il medico, “cosa volete sapere su di lei?”
“Soffriva di qualche patologia particolare?”
Il dottore socchiuse gli occhi, riflettendo. “A parte qualche acciacco e un po’ di reumatismi, perfettamente normali considerando che la signora aveva da poco superato gli ottant’anni, l’unica problematica seria per lei era l’asma”
“Quanto era grave quest’asma?” chiese subito il poliziotto.
“La gravità delle sue crisi dipendeva da due fattori: il primo ambientale e il secondo psicologico”
“Cosa intende?”
“La signora era allergica a polline e polvere, quindi faceva sempre pulire a fondo la casa e in primavera usciva molto raramente, per evitare che i pollini presenti nell’aria le provocassero una crisi”
“E invece del fattore psicologico cosa mi dice?”, chiese interessato il commissario.
“Dopo un attacco d’asma particolarmente violento, un paio d’anni fa, la signora Mazzoleni era diventata sempre più, come posso dire…ipocondriaca” sospirò il medico, “tanto che negli ultimi mesi le sue visite di controllo le dovevo fare tutte qui, a domicilio. Usciva sempre meno per paura di pollini, polveri, virus e chissà cos’altro. Una fobia che spesso vedo anche in altre persone anziane e che purtroppo tende a peggiorare con l’avanzare degli anni”
“Era il suo medico curante da parecchio tempo?”
“Da poco più di un anno e mezzo, quando sono arrivato qui e ho ereditato i pazienti del mio predecessore che era appena andato in pensione”
Il commissario annuì e poi fece un cenno del capo verso il cadavere che giaceva sul pavimento “Secondo lei cosa è successo alla signora?” chiese a bruciapelo.
Il dottore si aggiustò gli occhiali sul naso, fece qualche passo verso il corpo e poi rispose “Considerando il quadro clinico, il colorito del volto e la bocca spalancata, io credo che abbia avuto un attacco d’asma. La crisi respiratoria è stata aggravata dal panico causato dal fatto di trovarsi a casa da sola, senza nessuno che potesse aiutarla. A quel punto deve aver perso i sensi, si è accasciata a terra e…il finale lo sapete già”
Il commissario annuì lisciandosi i baffi e sentendo già il tonfo del fascicolo che veniva archiviato in qualche cassetto, ma la sua fantasia venne interrotta dalla voce del vice “Ma allora come si spiega la finestra?”
“Quale finestra?” chiese seccato il superiore.
“Quella finestra” rispose lui, indicando il rettangolo di cielo racchiuso dalle tende svolazzanti, “perché è aperta?”
Si voltarono tutti a guardare le imposte, spalancate sulla giornata primaverile e su nuove incognite.
“Quando siamo arrivati la finestra era già aperta. La domestica ci ha detto che stamattina l’ha trovata così” continuò il vice.
“Allora possiamo ipotizzare che l’abbia aperta la Mazzoleni” disse il commissario senza troppa convinzione.
“Mi sembra logico” lo rinfrancò il medico con voce convinta, “la signora avrà provato a prendere una boccata d’aria”
“Una cosa?” chiese il vice, subito fulminato da un’occhiataccia del superiore.
“Quando è iniziata la crisi respiratoria la signora avrà cercato un modo per placarla e per chiamare aiuto, così ha aperto la finestra” precisò il medico.
“Ma allora perché non l’ha sentita nessuno?” fu la seconda domanda del vice, subito inchiodato da un sorriso sardonico del commissario, che sfoderò nuovamente il suo tono ironico.
“La Mazzoleni avrebbe avuto bisogno di un megafono per farsi sentire: ieri sera c’era la processione del Santo Patrono e tutto il paese era a far festa in piazza, a circa seicento metri da qui”
Il vice esitò e poi azzardò un’ultima domanda “Perché allora la signora non ha usato il telefono per chiedere aiuto?”
Il suo superiore, implacabile, indicò l’apparecchio telefonico poggiato sul tavolino accanto al divano. “L’unica cosa che è riuscita a dirmi stamattina la domestica è che il telefono era guasto e che oggi sarebbe dovuto venire un tecnico per ripararlo”
Il vice incassò il colpo e smise di fare domande, mentre il suo superiore si rivolse al medico “La ringrazio, Dottor Fonelli, per il momento non abbiamo altre domande”
A quel punto il medico si congedò avviandosi verso le scale che portavano all’uscita, non prima di aver gettato un ultimo sguardo verso il cadavere.
I due poliziotti invece tornarono in cucina, dove la domestica stava bevendo un bicchiere d’acqua.
“Si sente meglio?” le chiese il commissario.
La donna chiuse gli occhi e, prima che potesse ricominciare a piangere, il vice le chiese se il giorno prima avesse notato qualcosa di strano in casa o nel comportamento della vittima.
La donna scosse la testa “Era tutto tranquillo, a parte quel problema del telefono rotto: la signora si era un po’ agitata perché non sapeva come contattare un tecnico. Io allora ero andata a parlare con il nipote di mio cugino, che fa l’elettricista ed è tanto bravo con tutte le cose elettroniche. Pensi che una volta è riuscito ad aggiustare perfino…”
“Certo, molto bravo” tagliò corto il commissario. “E sarebbe dovuto venire qui oggi per sistemare il telefono?”
“Sì” rispose la domestica, “lo avevo detto subito ieri mattina alla signora, per rassicurarla, perché quando si agitava le veniva l’asma e stava male. Mi era sembrato che si fosse tranquillizzata e invece…” la voce della donna si incrinò e i suoi occhi tornarono lucidi.
Prima che ricominciasse il fiume di lacrime, il commissario infilò un’altra domanda. “Oltre a lei, chi veniva solitamente qui in casa?”
La domestica sospirò “La signora Mazzoleni era molto riservata, quindi qui dentro entravano pochissime persone: me, il dottore e il fornaio che veniva la mattina a portare il pane. Non frequentava la gente del paese, diceva che la trovava provinciale”
Dopo quest’ultima affermazione fu il commissario a sospirare, “Quindi la signora non era originaria di queste parti?”
La Drasti sgranò gli occhi. “Ma no, si figuri, la signora era nata e cresciuta a Torino, il padre addirittura faceva l’ingegnere per la Fiat. Pensi che aveva fatto perfino l’università, anche se poi non aveva mai lavorato”
“Si era dedicata alla famiglia?” chiese il vice, tenendo d’occhio più la reazione del superiore che quella della Drasti.
“Non aveva figli e il marito, che è morto tanti anni fa, faceva l’avvocato. Lei si era occupata di gestire le pubbliche relazioni, mi diceva sempre così. Organizzava le cene, le feste, faceva parte di un circolo…” lo sguardo della domestica ora si era fatto sognante.
“Quindi vedova e senza figli, giusto?” la interruppe nuovamente il commissario, stanco di quella parentesi sugli agi e i privilegi altrui. “Sa dirmi se aveva altri parenti in vita?”
“C’è una sorella” rispose la donna. “Ma non ne so quasi nulla e non l’ho mai vista qui”
“È una delle bambine della foto che abbiamo visto in salotto!” esclamò il vice, con un entusiasmo che venne prontamente smorzato da un’occhiata del superiore.
“Potrebbe essere” disse il commissario, calcando la voce sul verbo al condizionale “una di quelle due bambine” e fece una breve pausa prima di tornare a rivolgersi alla domestica. “Mi ha detto che però questa sorella qui non è mai venuta”
La Drasti rifletté qualche istante. “No, io non l’ho mai vista e la signora non ne parlava mai. Solo una volta mi ha detto che abitava vicino a Pavia e che tanto tempo fa avevano litigato”
“Non si preoccupi” affermò il commissario, “penseremo noi a rintracciarla e a comunicarle la notizia”
“Quale notizia?” chiese la donna, “oh, sì, le dovete dire che la signora è…” la sua voce divenne un pigolio tanto che ricominciò a piangere.
I due poliziotti uscirono dalla cucina e il commissario prese il cellulare, “Mi sembra che qui non ci sia altro da cercare, ora chiamo il magistrato così poi possiamo finalmente rientrare alla base”
Le sue parole erano giunte fino al portoncino del piano terra, da cui era appena uscito il Dottor Fonelli. Fino a quel momento era rimasto nell’androne delle scale per ascoltare, senza essere visto, la conversazione tra i poliziotti e la Drasti. Pochi minuti, quanto bastava per fargli capire che i modi spicci del commissario erano l’anticamera di un’archiviazione sicura, senza ulteriori dubbi o accertamenti oltre alle comunicazioni di rito all’unica parente in vita.
Veramente, aveva pensato Fonelli chiudendosi la porta alle spalle, non proprio l’unica, ma sicuramente la sola che andranno a rintracciare. Anche perché la seconda bambina della foto, la sorella mai vista né sentita, non riuscirà nemmeno a comprendere la funesta notizia visto che l’Alzheimer le ha cancellato una gran parte dei ricordi e una grandissima parte del suo interesse per il mondo circostante. Così, dopo aver provato a navigare nell’imperturbabile mare delle sue iridi azzurre, i poliziotti di quel remoto paesino pavese si rivolgeranno al personale della casa di riposo che si prende cura di lei da due anni, e loro li indirizzeranno alla figlia della signora, che vive lì vicino e la va a trovare tutti i fine settimana.
A lei, di nome Marta e di professione cuoca, comunicheranno che la sorella della madre è morta, lei risponderà che non aveva mai avuto rapporti né con lei né con altri parenti materni e liquiderà tutta la faccenda con un’alzata di spalle e la tacita speranza di venire presto contattata da un notaio con la notizia di un piccolo lascito ereditario.
Il Dottor Fonelli camminava sull’acciottolato, e sorrise pensando allo stupore che si sarebbe dipinto sul volto di Marta quando non solo sarebbe stata contattata da un notaio, ma soprattutto avrebbe scoperto che quell’eredità non era affatto piccola e che la madre che lei aveva sempre visto spezzarsi la schiena in campagna e nelle risaie veniva in realtà da una famiglia molto agiata.
Fonelli immaginò Marta che sgranava gli occhi e si faceva ripetere l’ammontare dei depositi bancari, la lista degli immobili di proprietà e poi il fatto che l’unico erede di quella fortuna era sua madre e, subito dopo, lei e suo fratello. Lui potrebbe scommettere che solo a quel punto, aggrappata ai braccioli della poltroncina dello studio notarile, Marta si sarebbe voltata verso di lui e gli avrebbe fatto furtivamente l’occhiolino, come faceva da bambina quando combinava qualche marachella e poi correva a rifugiarsi sotto il tavolo dove il fratello maggiore studiava per l’esame di ammissione alla facoltà di medicina.
La sorellina amava acconciarsi i capelli e andare in bicicletta con le amiche, quindi non riusciva proprio a capire cosa spingesse il fratello a consumarsi gli occhi sui libri per ottenere un pezzo di carta da incorniciare. Ma lei era nata all’interno di un matrimonio regolare, da due genitori che c’erano ogni giorno e che le garantivano un affetto sincero e un tetto sicuro. Marta non aveva dovuto passare lunghi mesi in un collegio, né subire lo scherno dei bambini e la riprovazione degli adulti per essere il frutto di un legame illecito.
Lui invece sì. E ricordava tutto, ogni maledetto dettaglio.
Ricordava il volto pallido della madre quando gli aveva spiegato che suo padre era partito per un paese molto lontano e che anche nonni e zii erano andati nello stesso luogo inaccessibile. Rammentava quella sensazione di vuoto che, crescendo, avrebbe imparato a chiamare solitudine.
Ricordava bene anche il giorno in cui la madre era andata a prenderlo in collegio, con un vestito nuovo e un uomo più anziano al braccio, dicendogli che quello era il suo nuovo papà. Da allora c’erano stati per lui una nuova casa, un nuovo cognome e, dopo qualche anno, anche una sorellina. Si erano trasferiti in un paesino della campagna pavese, tra vigne e zanzare, dove nessuno li conosceva e dove si erano costruiti una nuova vita. Ma se il suo mondo esterno era completamente cambiato, quello interno era rimasto lo stesso: quel vuoto si allargava e chiedeva spiegazioni.
Così aveva iniziato a fare delle domande alla madre, insistendo finché un giorno lei gli aveva raccontato della sua famiglia e della infanzia agiata, dei domestici e del ballo delle debuttanti, in cui aveva incontrato un ragazzo la cui presenza era durata quanto un giro di valzer ma che le aveva lasciato un grembo che cresceva e che non poteva essere accettato nella buona società. I battenti della casa famigliare l’avevano chiusa definitivamente fuori, senza soldi né risorse, e da allora non c’era più stato alcun contatto. Anni dopo aveva appreso della morte del padre da un necrologio su un quotidiano e aveva più volte provato a scrivere alla sorella, senza mai avere risposta. Sempre sulla stampa locale aveva letto del matrimonio sfarzoso della sorella e della sua intensa vita mondana, garantita anche dal ricco patrimonio di cui era diventata l’unica erede.
Mentre la madre gli raccontava queste cose con gli occhi lucidi lui si era guardato attorno, posando lo sguardo sui vestiti consunti e sui mobili tarlati, e aveva giurato a sé stesso che un giorno avrebbe pareggiato i conti.
Con grandi sacrifici si era laureato e aveva indossato il camice bianco, sempre seguendo da lontano gesti e spostamenti di ciò che restava della sua famiglia materna e, soprattutto, del suo patrimonio. La madre aveva intuito le sue intenzioni e aveva più volte provato a dissuaderlo ma, quando l’Alzheimer le aveva cancellato ricordi e promesse, lui aveva deciso di passare all’azione.
Si era fatto trasferire nel paesino in cui viveva sua zia, diventandone il nuovo medico curante e conquistandosi la sua fiducia. Aveva studiato meticolosamente la sua cartella clinica e le sue analisi, abituandola a delle visite regolari ed esclusivamente a domicilio. Con discrezione e costanza, aveva alimentato la fobia della paziente verso tutto ciò che poteva costituire un fattore scatenante per le sue crisi asmatiche: polline, polvere e, soprattutto, gatti. La donna era ormai talmente terrorizzata dai felini da non uscire quasi di casa per la paura di incontrarne uno.
Quando, durante l’ultima visita domiciliare, lei gli aveva raccontato del telefono guasto e delle difficoltà nel reperire un tecnico che lo aggiustasse, lui aveva deciso di cogliere quell’opportunità. A bassa voce, per non farsi sentire da quell’impicciona della domestica, aveva proposto alla donna di tornare da lei la sera successiva, per un veloce controllo di quella pressione sempre più ballerina. Aveva già fatto delle visite serali, ma quell’ultima volta si era presentato a casa sua con un ospite inatteso nascosto dentro al cappotto.
Lei lo aveva fatto entrare in salotto e aveva iniziato come al solito a lamentarsi di tutto, poi si era voltata verso di lui ed era ammutolita. Lui si era sfilato il cappotto. Teneva in braccio il gatto randagio che aveva trovato per strada un mese prima e che aveva discretamente tenuto in casa.
“Perché non mi saluti, zia?” le aveva chiesto.
A quel punto lei era crollata su una sedia, boccheggiando e scuotendo la testa. Su quella sedia lui l’aveva bloccata e le aveva premuto il felino sul viso, finché le mani di lei non avevano smesso di agitarsi e la povera bestiola si era divincolata. Il volto della zia, solitamente pallido e increspato in una smorfia di disprezzo, era diventato stravolto e cianotico, mentre lei muoveva dei passi incerti alla ricerca di un soccorso che non sarebbe mai arrivato.
Il resto era stato semplice, si era trattato solo di attendere un po’: l’aveva vista aggirarsi per il salotto e poi appoggiarsi al tavolo, ansimando e aggrappandosi alla tovaglia. Il suo ultimo gesto era stato quello di voltarsi verso di lui, seduto sul divano con le gambe accavallate, e indicarlo con un indice accusatorio: era stato allora che il dottore era scoppiato a ridere.
Quando il vaso di cristallo si era frantumato a terra il gatto si era spaventato, così lui aveva aperto la finestra per farlo uscire e lo aveva guardato allontanarsi nel buio della notte, illuminato solo dai fuochi d’artificio sparati in onore del patrono del paese.
Poi si era voltato verso quel fagotto ormai immobile, con calma aveva controllato che il cuore avesse smesso di battere e solo allora aveva preso la cornice con la foto delle due bambine, appoggiandola davanti al volto della donna. Non erano state vicine in vita, ora potevano esserlo da morte. L’assassino aveva sceso le scale, richiuso il portoncino d’ingresso e si era incamminato lungo la stessa stradina che percorreva adesso, senza incontrare nessuno.
Il dottor Fonelli fece un profondo respiro per soffiar via quei ricordi, lanciò un’occhiata all’orologio e vide che erano soltanto le undici, quindi decise di uscire dal centro del paese e fare una passeggiata in campagna. Una bella boccata d’aria, si disse, fa sempre bene.
Scrivi un commento