Racconto di Stefano Paolini

(Prima pubblicazione)

 

Sicuramente, risultavo un pesce fuor d’acqua presso i miei coetanei del 1973 quando, in una mattinata di novembre, stavo ascoltando dal juke box installato nel bar sotto la scuola che frequentavo, le soffici atmosfere evocate da Let me try again cantata da Frank Sinatra. Era l’epoca dei Queen e della voce impetuosa e trasparente di Freddie Mercury che faceva pensare a un cagnolino pechinese a cui avevano pestato la coda “Di Freddie Mercury ce n’è uno solo!” mi disse un compagno vestito e pettinato come lui: “Giusto – gli risposi – chi ne sopporterebbe un altro?” Era l’epoca dei Pink Floyd col suono delle loro chitarre fortemente distorto da un’amplificazione innaturale. “Ma che senti sta’ schifezza?” mi disse, mentre ascoltavo Let me try again, la sgallettata del primo banco, che, come al solito, ruminava chewingum e aveva i jeans d’ordinanza rigorosamente strappati: “I Pink Floyd non riescono proprio a piacermi” le risposi “Ma non ti accorgi di quanto profondo contenuto filosofico c’è nei brani dei Pink Floyd?” “Tu sai cosa significa la frase: And everything under the sun is in tune. But the sun is eclipsed by the moon?” le risposi accentuando l’accento californiano imparato da mia madre, nativa di Palo Alto. Come mi aspettavo, lei girò sui tacchi delle sue sneakers, perché non sapeva rispondermi. “Piace molto anche a me questa canzone” sentii, subito dopo, pronunziare alle mie spalle. Mi voltai, era la mia professoressa di matematica: l’arcigna prof. Moretti. Coi suoi lugubri tailleur, coi suoi improbabili chignon, con quegli occhialetti che somigliavano ai fanalini posteriori di una Lancia Fulvia, con la sua figura esile e allampanata che ricordava Olivia, la fidanzata di Popeye, la Moretti non costituiva certo un sogno erotico per nessuno: neanche per suo marito! Se poi si aggiunge che in matematica avevo sempre zoppicato non avendo mai compreso (per colpa mia, indubbiamente) cosa dovesse importarmi del limite del rapporto incrementale per l’incremento tendente a zero, si poteva ben comprendere che, con la signora Moretti non avevo proprio mai avuto la benché minima relazione. Ascoltavo le sue spiegazioni comprendendo meno della metà di quello che diceva (questo sì, per colpa sua). Rispondevo balbettando alle sue interrogazioni, scopiazzavo da compagni/e più dotati nella matematica i compiti in classe e con l’arcigna prof. Moretti non avevo più nulla a che fare. Per questo mi sorpresi nel prendere atto che avevamo gli stessi gusti in materia di canzonette, ma ancora più destabilizzante fu la successiva cosa che mi disse: “Domenica prossima andrai allo stadio, vero?” “Sì, c’è Lazio – Inter: non mi perdo mai nemmeno una partita della Lazio” “Posso venire con te?” “Beh – le risposi senza riuscire a celare un certo imbarazzo – sì, se lo desidera. Ma lei non è sposata? Può andarci con suo marito!” “Sarà fuori tutto il giorno per lavoro” “Quando è così… ma lei è laziale o interista?” “Interista” mi rispose senza quasi pensarci. “Vabbè, però l’avverto: non tradisco la mia fede laziale nemmeno in cambio di un dieci in matematica!” Andare alla partita in compagnia della professoressa di matematica è, indubbiamente, una cosa del tutto singolare. Credo che a pochi liceali, sia della mia generazione ma anche di quelle precedenti o successive, sia capitata. Ma la sorpresa più inaspettata la ebbi quando vidi l’arcigna prof. Moretti scendere dall’autobus: indossava i blue jeans e un maglione di lana rosso col collo alto sotto un giaccone di lana scuro; aveva raccolto i capelli a coda di cavallo e non portava gli occhiali, cosicché, l’Olivia dei cartoni animati si era trasformata nella copia solo un po’ più bruttina di Audrey Hepburn. Venendomi incontro, mi sorrise come mai era capitato nei cinque anni in cui l’avevo frequentata. Andava proprio forte la Lazio quell’anno! A fine stagione avrebbe vinto, per la prima volta nella sua storia, il titolo di Campione d’Italia. Però non fu una bella partita. Stavamo vincendo quasi immeritatamente perché l’Inter, fra le poche squadre in quella stagione, ci mise sotto per quasi tutto il primo tempo e avrebbe potuto segnare addirittura due volte prima che passassimo in vantaggio. Alla fine fu un pareggio. La mia compagna (a questo punto, è doveroso chiamarla così), stranamente non espresse grandi emozioni. Mi sembrò contenta della mia felicità invasata quando segnò la Lazio, (Chinaglia) non espresse particolare contentezza al pareggio dei nerazzurri (Bedin) e, alla fine della partita, ci avviammo, quasi silenziosi in quel brulicare di gente caciarona, verso il capolinea degli autobus. “Troppo affollato questo – mi disse mentre cercavamo di salire – aspettiamo il prossimo”. Ne passarono altri tre, tutti pieni: “Senti, ho un’idea – disse lei a un certo punto – perché non ci incamminiamo verso Piazzale della Marina e prendiamo il tram da lì?” “Come preferisce professoressa. Se lei non ha fretta di rincasare, è anche meglio andare a piedi. Il Lungotevere, nelle serate autunnali, è uno degli spettacoli più romantici che si possa ammirare”. Ci incamminammo l’uno a fianco all’altra passeggiando, mentre il pallido sole novembrino stava calando, quasi a vista d’occhio, sulle acque del fiume. Il pomeriggio trascorse piacevolmente; la Moretti era una donna di gradevole conversazione, molto diversa di quella che mi tediava sui banchi di scuola con l’analisi della funzione. Rise a un paio di mie barzellette, una delle quali, decisamente osé, e a questa mia battutaccia: “Cosa le piace fare ne tempo libero?” “Mi piace leggere” “Bene, a me piace scrivere: possiamo fare i carabinieri!” Ci fermammo a un bar per bere una tazza di cioccolata calda e, passeggiando in deliziosa chiacchierata, arrivammo presso il portone di una palazzina in una via piuttosto discreta e appartata: “Ecco, io abito qui” mi disse: “Nemmeno mi ero accorto che avessimo fatto tanta strada”. Passò un tempo abbastanza lungo nel quale ci guardammo in faccia senza sapere cosa dirci. Ed era perfino strano, considerando che avevamo passato tutto il pomeriggio a parlare senza sosta. Lei seguitava a scrutarmi imbarazzata; si capiva che voleva dirmi qualcosa ma non sapeva da che parte cominciare: “Sai – si risolse finalmente a dirmi arrossendo di emozione – a me del calcio non me ne importa niente. Fino a stamattina non sapevo neanche cosa fossero l’Inter e la Lazio.” “No? E dire che io sono stato quasi contento per lei che l’Inter abbia pareggiato. Ma scusi: non capisco.” “Il fatto è che io non sono una donna felice. Mio marito mi trascura; ci siamo sposati credendo cose diverse l’uno dell’altra. Forse io non sono stata una moglie all’altezza della situazione, ma è stato soprattutto lui che mi ha profondamente delusa. Sono sempre sola, malinconica e depressa. Fino a qualche giorno fa neanche sapevo cosa avrei fatto questa domenica; probabilmente l’avrei trascorsa, come al solito, leggendo qualche romanzetto cretino nel salotto di casa mentre mio marito, con la scusa del lavoro, magari mi stava tradendo con qualcun’altra. Ma quando l’altra mattina ci siamo incontrati, ascoltando quella canzone di Frank Sinatra, ho deciso di buttare il cuore oltre lo steccato e passare la domenica in tua compagnia. Sei un ragazzo molto dolce e il mio grande rimpianto è di non averti conosciuto prima”. Detto questo, si avvicinò a me soave come il miele, mi cinse il collo con le sue braccine magre e mi dette un lungo, appassionato, bacio sulla bocca. La presi fra le mie braccia con forza ma senza violenza, quasi sorprendendomi di aver trovato subito il modo di cavarmela così bene nella soddisfacente proporzione fra forza mascolina e tenera sensibilità. Strinsi accanto a me quel suo corpicino magro, strofinai sul mio petto le sue tettine da prima misura per di più nascoste dietro la coltre di quel maglione rosso col collo alto e ricambiai il suo bacio corredandolo con la più ovvia reazione virile di cui le feci saggiare anche la consistenza avvicinandola ancora di più a me: “Se hai detto che abiti qui, fammi salire!” Lei mi guardò col volto impaurito, sembrava quasi una gazzella che avesse visto un leone, non mi rispose subito ma dalla sua espressione era possibile comprendere tutto il conflitto interiore che stava patendo: “No, ti prego, è meglio lasciare perdere” mi disse infine al culmine della tentazione e al minimo della voglia di resistere. “Ma perché? – risposi – È ancora presto, hai detto che tuo marito starà fuori tutto il giorno, non si accorgerà di niente.” “Sì, ma io ho almeno dieci anni più di te.” “Ma che te ne importa, non dobbiamo mica sposarci”. Lei mi baciò con ancora più passione; ormai ero talmente infoiato che non rispondevo più di me. Avrei potuto violentarla senza troppi complimenti anche lì, sotto il portone di casa sua: “Dai, fammi salire!” “Va bene, ma saliamo uno alla volta per non dare nell’occhio!” Non ci fu neppure bisogno di fare molto come, ad esempio, scaldare l’ambiente con un super alcolico o mettere sul piatto dell’HI-FI una qualche musica, magari una canzone di Frank Sinatra del quale eravamo entrambi ammiratori, casomai proprio la lusingatrice Let me try again. Appena lei chiuse la porta di casa, mi dette subito la dimostrazione pratica di quanto quel marito, indaffarato o fedifrago che fosse, si stava perdendo: ci sapeva veramente fare la Moretti! Sapeva ovviare alla sua approssimativa avvenenza con una maestria nell’arte erotica che non mi sarei aspettato, tanto meno al mio primo test a riguardo! Mi regalò emozioni molto intense, ma anche io ci detti dentro col vigore dei miei diciotto anni. Era becera oscenità e nobiltà di immagini, desideri turpi e spumeggianti suggestioni, volgarità plebee e intensità d’impulsi, scostumata pornografia e capacità di avvincere, amore e passionalità. Era visione allucinata di mitici bordelli, di donne tiranne e fatali che costringono l’orgoglioso sesso maschile a prostrarsi in succube riverenza di fronte alla femmina padrona e a mendicare, con la sottomissione di uno schiavo i suoi favori. “Rivediamoci presto!” le dissi alla fine dell’amplesso, mentre stringevo a me con voluttà e, perché no? Con amore, quel corpicino nudo da scrocchiazeppi ma, per me, scrigno prezioso della mia gioia. “Sì, te lo prometto” mi rispose. Invece non mantenne la promessa. Entrava in classe sempre con la sua algida albagia, costante atteggiamento di molti insegnanti che non hanno interesse a che tu sia instradato alla vita, hanno solo interesse a farti pesare il fatto che, senza di loro, tu non avresti mai saputo che la tangente di un angolo alfa è la funzione trigonometrica definita come rapporto (in un triangolo rettangolo di cui l’angolo alfa sia uno degli angoli acuti) tra il cateto opposto ad alfa e il cateto adiacente. Nelle corrive vicende della mia vita, ormai arrivata a consumare, quasi del tutto, il settimo decennio, credo di aver fatto bene a dimenticare quella corbelleria in men che non si fosse detto. Più cercavo di incrociare il mio sguardo col suo, più lei mi sfuggiva, quasi timorosa che io avessi in mente di spiattellare davanti a tutti che, dopo un pomeriggio passato a fare il tifo per la Lazio allo stadio dove lei era venuta di nascosto di suo marito, dopo una passeggiata romantica per il Lungotevere, mi fossi aggiudicato le grazie nascoste dell’arcigna prof. Moretti. Possibile che dopo tutto quello che c’era stato fra noi, lei non mi degnasse nemmeno dell’accenno di un sorriso? Possibile che fosse rimasta per me solo la mia insegnante? Mi davo la colpa: forse non ci avevo saputo fare abbastanza. Mi avevano raccontato che la maggior parte delle donne simulano un godimento carnale che non provano. Mi giustificavo: in fin dei conti ero all’esordio nella pratica erotica; eventualmente era col cornuto, nelle poche volte che lui si degnava di assolvere al suo dovere coniugale, che lei fingeva. Anzi: casomai, raggiungeva l’orgasmo proprio pensando a me. Mi assolvevo: c’era poco da simulare; con quei lunghi sospiri, con i suoi movimenti lascivi, coi muggiti da cerbiatta in calore, lei mi era sembrata sincera nel suo godimento. Presi atto, infine, che mi ero innamorato dell’arcigna prof. Moretti. E si sa: l’omo innamorato è un merlo ar vischio, la donna è un cacciator de schiopperete, che va a caccià cojoni senza fischio. E lei, ne ero sicuro, era innamorata di me. E si sa: quanno quell’omo all’ occhi me va a sbatte, me va tutto er sangue a latte. Casomai, aspettava solo il momento più favorevole per dirlo al becco. E poi, davanti al resto della scolaresca, non poteva certo palesarsi in modo troppo clamoroso. Questo non l’avevo considerato; spettava a me dover fare il primo passo, perciò mi risolsi a cercarla fuori contesto, profittando del fatto che sapevo e ricordavo perfettamente dove abitava. Una buona tazza di cioccolato caldo come nel pomeriggio di Lazio – Inter e le cose si chiariranno, pensavo. Dovetti appostarmi presso il portone della sua discreta palazzina per diversi giorni, prima di poterla pizzicare da sola e lontana da occhi indiscreti. Nel vedermi restò sorpresa ma, tutto sommato, mi sembrò contenta, accettò di buon grado di sedersi al bar facendo onore alla tazza di cioccolato che mi compiacqui di offrirle. “C’è qualcosa che mi impedisce di amarti?” esordii con un modo di fare buffamente solenne. “Sai – replicò lei con la voce che le tremava – il giorno stesso in cui tu sei venuto a casa mia, ho scoperto che mio marito, al suo rientro, era cambiato come dal giorno alla notte. Sembrava l’avesse compreso che, poco prima, l’avevo tradito e ha cominciato ad avere paura di perdermi. Lo so che ti avevo detto – ha affermato – che me ne stavo andando. Ma non potevo proprio dirti addio. Era solo un auto inganno. Per allontanarsi da qualcuno che significa tutto sulla terra per te, bisogna imparare a rimanere solo. L’ho imparato e ora vorrei rimanere. Pensa a tutto ciò che avevamo prima, possiamo avere tutto, io e te, di nuovo. Non ha senso vivere senza di te, ora tutto ciò che faccio è semplicemente esistere. Mendicare non è un compito facile ma l’orgoglio è una maschera sciocca”. “E tu cosa gli hai risposto?” “Sono sposata con lui da cinque anni. Cinque anni non si possono buttare così semplicemente. Ho deciso di riprovarci” “E di me non ti importa niente?” “Tu sei un caro ragazzo: forte e generoso. Le donne con te si sentono protette. Incontrerai chi ti farà innamorare e a lei dedicherai tutta la tua forza e la tua generosità. Vivrò sempre col ricordo di quell’incantevole pomeriggio che abbiamo trascorso insieme. Ma ora tutto quello che voglio è salvare il mio matrimonio. Sai, per le vacanze di Pasqua abbiamo prenotato un week end a Parigi!” Si alzò dal tavolo e, non senza aver versato un po’ di lacrime che le appannarono quegli occhiali somiglianti ai fanali di una berlina, si allontanò da me senza neppure salutarmi. Per la prima volta compresi che l’amore non dà mai gratificazioni complete: l’amore è disciplina; talvolta è rinunzia; è dovere, non è diritto; è scelta che si fa una volta per tutte. In ogni modo, in seguito, l’amore l’ho conosciuto di nuovo e in varie forme: mi sono sposato, ho avuto dei figli, sono diventato nonno. Ho sperimentato che il mondo è bello e produttivo; ho vissuto una vita segnata dai riti e dai ritmi della condizione piccolo borghese; adesso sono un pensionato soddisfatto e benestante. Ma non ho mai del tutto archiviato fra le pratiche evase della mia esistenza la vicenda dell’arcigna prof. Moretti: l’Olivia dei cartoni animati a scuola; la copia, solo un po’ più bruttina, di Audrey Hepburn nel tempo libero del quale, un minuzzolo, in una domenica pomeriggio, dopo una brutta partita di pallone finita con un pareggio, lei ha dedicato a me. Sto in fila sul Raccordo Anulare; il traffico è più lento e più caotico del solito. Dall’autoradio della mia macchina ascolto una canzone, ma non una canzone qualunque, una canzone a me fin troppo nota. I know I said I was leaving, but I just couldn’t say good bye. It was only self-deceiving, to walk anyway from someone who means everything on earth to you. You learn whit every lonely day, I’ve learned and now I’m back to stay. There’s no sense to life without you, now all I do is just exist. To beg is not easy task, but pride is such a foolish mask…. Mi prenda un colpo! Esclamo mentalmente: non ci avevo mai fatto caso ma sono le parole che la Moretti mise in bocca al pio bove quando lei mi venne a dare l’ultimo addio! Ogni giovinetta innamorata, prima o poi nella vita, anche se nel frattempo è divenuta moglie, madre e addirittura nonna, ricorda al suo ganzo: marito, fidanzato o amante che sia, la nostra canzone. L’ha fatto spesso anche mia moglie. La mia occasionale amante di quel lontano pomeriggio ha adoperato la nostra canzone per darmi il benservito! E lo ha fatto valendosi di una presunta e fastidiosa superiorità intellettuale. Cosa credeva quella seccaccia brutta? Che io non avrei capito il testo inglese di Let me try again? Mia madre era americana: io parlo inglese da quando avevo tre anni. Se non ho capito quelle parole è solo perché non le ho mai ascoltate attentamente, distratto dalla suadente introduzione orchestrale a base di archi, distratto dalla inconfondibile voce del grande Frank con quella magica capacità che lui aveva di darti l’impressione che stesse cantando solo per te anche dentro un teatro gremito da migliaia di persone; scettico sul fatto che, L’uomo dal braccio d’oro, l’eroe di Da qui all’eternità, alla soglia dei sessant’anni, si fosse messo a cantare quella speciosa sequela di baggianate. Una cosa è certa: il cervo non ha mai pronunziato quelle parole a sua moglie! A buon conto, nemmeno si è accorto dell’oltraggio che fu consumato nella sua camera da letto, fra le sue lenzuola coniugali. Niente di più facile che lei abbia adoperato quell’accadimento al culmine di qualche litigata per ingelosire il cornuto e trattenerlo presso di sé; rimangiandosi poi tutto alla prima riappacificazione, da quelle impareggiabili rivoltatrici di frittate che sono le donne! Un’altra cosa è certa: la Moretti non è mai stata innamorata di me. Forse non se l’è sentita di essere partecipe delle mie performance universitarie (tutt’altro che memorabili) o di aiutarmi a cercare un lavoro. Forse avrà avuto paura che io assistessi al suo decadimento fisico e andassi a svernare con qualche puttanella mia coetanea. O, molto più semplicemente, io per lei sono stato solo un trastullo, un inutile bambagino col quale baloccarsi in un pomeriggio che, altrimenti, avrebbe trascorso leggendo qualche romanzetto stupido. Adesso sento perfino disagio di aver scambiato per un sentimento imperituro quella che era solo una baruffa chiozzotta. Le pratiche dell’esistenza, prima o poi, vanno evase e archiviate. Professoressa Moretti, dovunque tu sia, vai a farti friggere! Accidentaccio! Distratto dai miei pensieri e dai miei ricordi non mi sono accorto che quello della macchina davanti ha frenato e io sono andato a tamponarlo. “Perché non mette più attenzione?” dice l’automobilista scendendo dalla sua macchina. Mi sembra risentito ma tutto sommato, col giusto self control e bene educato. “Mi scusi, stavo sopra pensiero e non mi sono accorto che lei si era fermato”. “Beh, pensiamo alla salute – dice lui in parte rasserenato – in mezzo al traffico sono cose che succedono.” “Comunque mi prendo la responsabilità di tutto. Facciamo la constatazione amichevole e lasciamo che siano le nostre assicurazioni a vedersela”. Estraggo da un cassetto della mia macchina l’apposito modulo e comincio a scrivere: “Lei è nato nell’agosto del 1974 – gli dico dopo aver esaminato la sua patente – è l’anno in cui la Lazio ha vinto il suo primo scudetto”. “Non seguo molto il calcio – mi risponde lui – però mia madre, spesso, mi ha raccontato di essere stata una sola volta allo stadio, in compagnia di un suo studente. Lei era insegnante di liceo. E fu proprio quando la Lazio vinse lo scudetto”. “Chissà, forse ci saremo pure incontrati – gli rispondo con un tremore della voce e un rossore in viso assolutamente fuori luogo per un uomo della mia età e della mia esperienza – a quei tempi non mi perdevo neppure una partita della Lazio. E cosa fa sua madre adesso?” Lui mi guarda stupito per questa domanda così singolare, esita per un tanto prima di rispondermi: “Mia madre? Mia madre è morta l’anno scorso”. Non ho uno specchio su cui guardarmi ma se l’avessi, sicuramente vedrei le mie sopracciglia inarcate, la mia fronte aggrottata, le mie palpebre sbarrate e le mie mascelle abbassate, tanto è lo stupore di trovarmi in questo frangente. Il mio interlocutore si deve essere accorto del mio turbamento, ma non può nemmeno lontanamente immaginare quello che sto pensando. “Allora, questo modulo lo firma o no?” “Sì, certo, mi scusi”. Gli rispondo stringendogli la mano. Esiste forse una forza misteriosa, una mano invisibile che predispone le cose in modo che il destino o chissà quale altro misterioso accadimento universale, faccia incontrare due persone per puro caso; due persone che non si erano mai viste prima, che non si vedranno mai più dopo, che non si ricorderanno nemmeno di essersi incontrati. Probabilmente è intervenuta quella forza misteriosa a far sì che un padre e un figlio per la prima volta si siano incontrati, si siano parlati, si siano stretti la mano. Ma che sono padre e figlio, nessuno dei due lo saprà mai.

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