Racconto di Gioia Gabelli
(Prima pubblicazione)
A quattordici anni, quando frequentavo le scuole superiori, ho smesso di vedere le cose con la luce negli occhi.
Non giocavo più con gli altri bambini e non volevo vedere nessuno. Ero tristemente obbligato a farlo, visto che dovevo svegliarmi per andare a scuola e questo presupponeva varie interazioni nel corso della giornata.
Le ore passavano tra i banchi e le uniche cose che mi davano piacere erano le spiegazioni della professoressa Aruki, dalla voce melodiosa, e la mia compagna di classe Yumie, della quale vedevo quasi esclusivamente la schiena, visto che sedeva davanti a me. Amavo il suo modo di tirarsi indietro i capelli, la forma del suo busto, la sua vita stretta e le spalle magre, e il suo stare del tutto scomposta sul banco. Non avevo il coraggio di parlarle, per cui non sapevo praticamente niente di lei. Si rompeva di ascoltare le lezioni? Quanto tempo passava sui libri?
Ogni tanto la vedevo, prima delle lezioni, mentre correva con la sua cartellina verso l’entrata della scuola e, quando succedeva, era perchéé in quelle rare volte ero in ritardo anche io.
Io mi svegliavo molto prima di lei, perchéé abitavo lontano ed ero obbligato a prendere un autobus per arrivare in città.
Questo era una fortuna per me, perché significava che potevo uscire di casa all’alba.
La mattina è sempre stato il mio momento preferito della giornata, quello in cui mi tornavano ancora a brillare gli occhi e di cui assaporavo ogni istante. Tutti dormivano ancora, in casa: io mi svegliavo che era ancora notte, neanche una luce filtrava dalla finestra della mia camera.
Nel più totale silenzio e nella più totale oscurità, mi preparavo e mi vestivo.
Quando uscivo, camminavo guardando oltre i tetti e oltre i monti il cielo che si tingeva di rosa. Era freddo e l’aria profumava, e pensavo che questo miracolo di una luce color pastello che lentamente inonda tutte le vie fosse lì solo per me, che ero l’unica anima che vagava per le strade del mio paese. Un giorno una folata mi scosse lievemente i capelli. Continuai a guardarmi attorno, per vedere chi altri sarebbe arrivato, chi sarebbe uscito di casa a quell’ora, ma come al solito non c’era nessuno.
Guardai in basso e qualcosa di particolarmente brillante, come ricoperto di gemme, attirò la mia attenzione. Mi inginocchiai. Gli steli d’erba bagnati che crescevano ai lati della strada asfaltata reggevano una ragnatela tempestata di gocce di rugiada. Era un’opera d’arte, un ricamo perfetto. Sembrava che ogni singola goccia fosse fatta passare attraverso i fili come fanno gli artigiani con le collane di perle. Davvero una meravigliosa tessitura. Nessun essere umano avrebbe fatto di meglio. Mi venne in mente Yumie e mi ricordai che, quando si tirava indietro i capelli, potevo vedere degli orecchini perlacei a forma di goccia attaccati ai suoi lobi, sicuramente costosi, ma non erano perfetti come quelle gocce di rugiada infilate nella ragnatela immobile. E poi pensai a lei che correva verso l’entrata con la cartellina.
“Accidenti” pensai, “sono stato qui troppo tempo, avrò perso l’autobus.” Mi venne da sorridere.
“Entrerò a scuola con Yumie.”
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