Racconto di Domenico Mancusi
(Prima pubblicazione)
IN UN ZONA BASSA DELLA CITTÀ DI POTENZA, che tuttavia sovrasta il mare di oltre seicentocinquanta metri, confluiscono tre tumultuosi corsi d’acqua: uno di questi è il torrente Gallitello.
Narro una piccola storia di circa sessant’anni fa. In più sento l’obbligo di anticipare il racconto con una frase di Jim Morrison, divenuto, non molti anni dopo, uno dei miei idoli musicali:
«Fai attenzione alle piccole cose perché un giorno ti volterai indietro e capirai che erano grandi».
Mi sono voltato indietro per rievocare un personaggio e un luogo della mia città: Peppe e un tratto del torrente Gallitello.
Peppe non passava inosservato, chi gli dava un’occhiata restava colpito dalla sua figura. A guardarlo si capiva subito come l’uomo fosse oberato dalla necessità di mandare avanti la baracca giorno per giorno, per questo non aveva familiarità con le parole. Lo sguardo accigliato, il modo di camminare svelto di chi deve fare le cose sempre di corsa, facevano da necessario completamento al suo tratto distintivo di persona assuefatta a fatiche e silenzi prolungati.
Eravamo un gruppo di ragazzi dello stesso quartiere periferico di Potenza. I più di noi avevano una decina d’anni, qualcuno anche meno. Quando Peppe appariva nel nostro rione, sebbene la sua figura imponente ci incuriosisse molto, ne avevamo forte soggezione: quasi ci faceva paura.
Peppe era altissimo. Perlomeno, verso la fine degli anni Cinquanta, stimavamo la sua taglia in circa centottanta centimetri: una stazza fisica -al tempo- molto più in là della media. Peppe era pure robustissimo, però non della consistenza che allora era più spesso associata alla corpulenza.
Peppe in realtà era asciutto, e per quanto indossasse dei vestiti di velluto scuro e pesante, tipici dei braccianti di allora, in estate, nelle ore più calde della giornata, quando levava la giacca e arrotolava la camicia fino ai gomiti, in parte se ne poteva riconoscere attraverso i soli avambracci e in parte se ne immaginava l’ipertrofica struttura muscolare.
La prestanza però non l’aveva fabbricata in palestra. Niente affatto. Le sale da ginnastica non si sapeva nemmeno cosa fossero. Non si concepivano fatti del genere: il dover sudare e boccheggiare dentro uno stanzone per motivi estranei al lavoro. Chi svolgeva lavori molto pesanti si vergognava a mostrare il campionario di braccia piene di nervi, muscoli e vene a fior di pelle: ti ponevano lo status troppo in basso. Nemmeno in un cantiere edile, allora il luogo più somigliante ad una sala da ginnastica, si potevano fare muscoli di quella fatta.
Peppe aveva una sua “palestra” personale: era collocata nella parte mediana del corso del torrente Gallitello. Lì erano gli “attrezzi” per il suo allenamento. Ed erano allenamenti di almeno quattordici ore al giorno. Ed erano anche esercitazioni filosofiche. Peppe avrebbe potuto affermare, a ragion veduta, che ciò che non ti uccide ti rafforza: il termine stoico gli rendeva giustizia. Se mai avesse saputo qualcosa della disciplina di Aristotele, si sarebbe intruppato tra i pragmatici, perché alla sola concretezza si ispirava Peppe, quando pianificava ed effettuava la raccolta di pietre all’interno del greto del torrente.
Dopo una serie di piegamenti e sollevamenti eseguiti nel letto del fiumiciattolo per approvvigionarsi di pietre, Peppe doveva trasportare il materiale raccolto dalle parti dov’era qualche “calcara”: era in tali rudimentali fornaci che si provvedeva alla cottura delle pietre per produrre la calce viva. Peppe poi le pietre cotte le portava ai cantieri di Potenza, perché una volta immerse nelle vasche d’acqua producessero la calce spenta. Ma l’introduzione del cemento in sacchi di anni di esplosione edilizia facilitava la produzione delle malte: quel sistema arcaico e pieno di pericoli andava estinguendosi. Ma le pietre del Gallitello ancora si utilizzavano per realizzare muri e fondazioni a nuovi edifici e per riparare e sopraelevare edifici esistenti.
Peppe era scuro in volto, ma non tanto per il colorito naturale, quanto per la prolungata permanenza sotto il sole nel letto del torrente. E quello stato di cose accentuava di più il suo aspetto terribile.
Per svolgere il suo pesante lavoro si avvaleva di un mulo altrettanto impressionante. Era gigantesco. Doveva avere un’altezza al garrese di quasi centottanta centimetri, perché la testa del padrone, quando viaggiavano affiancati, superava di poco quel limite.
I due, Peppe e il suo mulo, formavano una coppia formidabile. Una sola domanda, noi piccoli, ci ponevamo quando all’improvviso li vedevamo sorgere: «È più forte Peppe o il suo mulo?». E non poteva essere diversamente, l’animale doveva per forza essere all’altezza del padrone, perché le bisacce tronco-coniche di legno, che Peppe utilizzava per caricare le pietre, cotte o crude che fossero, erano smisurate.
Dal Gallitello, Peppe e il suo mulo, trasportavano le pietre in via Mazzini, quando il lato destro, a salire, della strada che correva parallela alla centrale e prestigiosa via Pretoria, pullulava di cantieri edili in fermento. Dalla fiumara, infatti, salivano per l’attuale via Anzio, allora una sterrata, e arrivati all’altezza dell’attuale Istituto Alberghiero, ridiscendevano verso il nostro Rione.
Dal piazzale vicino al passaggio a livello della ferrovia Calabro-Lucana, i fratelli Coviello, i fans più scatenati di Peppe, appena li intravedevano giù, verso il fosso Verderuolo, davano la voce: «Uagliò arriva Peppe con il mulo!».
Abbandonavamo il gioco. Mettevamo da parte il prezioso pallone. Ci appostavamo in fila, in religioso silenzio, sul ciglio di un improvvisato campo di calcio antistante il forno di Calvi e a bocca aperta aspettavamo l’arrivo di due fenomeni.
Nemmeno John Wayne a cavallo avrebbe potuto rubare la scena a Peppe. Nessuno si azzardava a dire una parola. Al massimo uno di noi provava a dire: «Buongiorno Peppe!». Il mulattiere non rispondeva mai, girava appena la testa a sinistra per degnarci di uno sguardo. Ma non era una persona maleducata: il fiato e il tempo gli servivano tutti, non poteva sprecarli in cerimonie.
Peppe, dopo aver raggiunto i binari della ferrovia e aver superato con speditezza la prima arrampicata, aveva appena il tempo di rifiatare, nei pochi metri in piano adiacenti il campetto. Subito dopo era atteso da una salita più appesa, che fiancheggiava il piazzale della concessionaria Fiat. Gli necessitavano forza e concentrazione. La massicciata della strada era liscia per l’usura e c’era rischio che il mulo potesse scivolare. Grosso guaio: non sarebbe stato uno scherzo far rialzare il mulo gravato da grosse e pesanti bisacce. Per limitare il pericolo Peppe aiutava la bestia, la tirava con le briglie e la incitava con dei versi tutti suoi: gli unici suoni che udimmo fuoriuscire dalla bocca di Peppe.
Finalmente, l’infaticabile mulattiere, dopo aver percorso cinque chilometri di strada, raggiungeva via Mazzini. Entrava in uno dei cantieri dove le costruzioni si facevano ancora con muri a pietre, perché la gente, allora, non si fidava troppo dell’innovativo cemento armato e voleva vedere le case con dei bei muri spessi. I mastri Aviglianesi, dall’alto degli impalcati, quando compariva in cantiere non erano contenti. Le pietre, levigate dalle acque del Gallitello, erano tutte lisce, tondeggianti e… pulite. Troppo pulite! La malta non teneva, sfuggiva da tutti i lati come una marmellata troppo liquida su una fetta di pane: necessitavano quattro mani e altrettante cazzuole per contenerla. Alzare i muri in tali condizioni era un’impresa nell’impresa.
«Adesso come facciamo a mettere in fila queste pietre?» lamentavano a bassa voce, tra loro, i poveri mastri. Le pietre delle cave di Giuliano erano imbrattate di polvere e trattenevano la malta con maggiore efficacia: i muri salivano su, alla grande. Le pietre di fiume necessitavano di malta più asciutta: un supplizio prelevarla con la cazzuola dai secchi, il polso dei muratori dopo un poco era dolorante.
Peppe incassava il dovuto ed era contento, benché non emettesse neanche un sorriso di soddisfazione, ma doveva essere una persona anche sensibile, perché intuiva da cosa provenivano i mugugni delle maestranze e un po’ ci rimaneva male. C’erano muri da alzare, e dunque c’erano pure fondazioni da riempire. Le trincee delle fondazioni si scavavano ancora a mano ed erano molto larghe, poi bisognava versarci dentro la malta liquida, tanta malta, infine si immergevano le pietre.
Peppe allora si prendeva la rivincita: le pietre del Gallitello quando entravano nel fiume di malta squillavano. Il suono fonosimbolico me lo ricordo perfettamente: cicooooff! Ed erano schizzi da tutti i lati. Per Peppe era una roba liberatoria, una soddisfazione che però non avrebbe esibito in nessun modo. Le pietre del Gallitello, come per simbiosi, quasi avessero capito che nessuna parola di rivalsa sarebbe stata mai pronunciata da Peppe, attraverso una perentoria fonomimia, parlarono per lui. Gli schizzi, invece, agirono per lui: furono come una torta in faccia ai diffamatòri delle sue pietre.
Il capo mastro gongolava: quello era il suono giusto per delle fondazioni solide, niente a che vedere con il rumore melmoso e appannato delle pietre impolverate di cava.
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