Racconto di Ilaria Salvatori

(Prima pubblicazione – 12 aprile 2021)

 

 

Un primo morso per la solitudine.

Un altro per le botte prese da mio padre.

Il terzo per i ragazzi che non mi hanno mai guardata e un altro per essermi limitata a esistere, non a vivere.

 

Mangio seduta al tavolo di un fast food, all’ultimo piano di un centro commerciale.

Sono tutti adolescenti, a parte me. Non so come mi sia venuto in mente. Qua dentro l’età media è quella in cui nei pomeriggi di studio, prendono il sopravvento i balletti su Tik Tok.

A dire il vero non capisco una parola di quello che dicono. Né di cosa parlino.

Ho detto i balletti? Intendevo le challenge, credo.

Quando andavo a scuola, ho provato tante volte da sola allo specchio a muovermi come facevano le mie amiche, con le cosce strette nei jeans a vita bassa e i primi accenni di seno nelle magliette Onyx. Non ci sono mai riuscita. Quelle venivano da un altro pianeta, l’ho sempre detto io. Forse erano aliene.

O forse sono io che sottovaluto le enormi potenzialità degli sport che non ho mai praticato.

Ma cazzo, cosa potevo saperne a otto anni che avrei compensato la mancanza d’amore con la pizza cotto e fontina del bar in piazzetta?

Le prime volte capivo di dover essere sazia quando mia madre diceva che in un solo pomeriggio, avevo mangiato il quantitativo delle merende di una settimana.

Ora sarà tutto diverso.

Il dottor Carovigni ha detto che questo piccolo esserino nello stomaco, digerirà al mio posto tutto quello che deciderò di mangiare. A quanto pare le extraterrestri adesso dovranno vedersela anche con noi, piccolino. Non è vero?

Così adesso sarò io a prendermi cura di qualcuno e non gli farò mai mancare l’amore che è mancato a me. Perché tutti vogliamo essere amati. Soprattutto i ragazzini decorticati che vengono a mangiare in ‘sto cesso. Cazzo, quanto li odio.

Coglioni fosforescenti in pantaloni della tuta facilmente convertibili in palloni aerostatici, spietate ninfette che ostentano i leggings come dichiarazione di guerra alle taglie comode, pascolano con lo sguardo vacuo per gli sconfinati corridoi del centro commerciale, finché non adocchiano l’insegna al neon del fast food.

L’invertebrato abitante che vive tra le pareti del mio stomaco inizia a brontolare.

Ho appena il tempo di fare un lungo respiro, poi mi alzo e raggiungo la fila.

Interminabili code di stecchi ormonosi provvisti di auricolari wireless, mi precedono.

Ogni prezzo un menù di cui non ricordiamo mai il nome per intero.

Ci sono scritti i nomi affianco alle foto, ma nessuno ci bada e dicono tutti un menù con il *nomedelpanino*.

Mangio senza sosta.

Non faccio quasi a tempo a finire i miei panini che sono di nuovo in fila al bancone.

Una masticata di circostanza, e già sono merda nello stomaco del verme.

Che poi, se ci pensi, non ha senso dare un nome a qualcosa che, tempo di un rutto, fa già parte di una pila di escrementi.

Finisco un panino dopo l’altro a testa bassa.

C’è un motivo se lo chiamano verme solitario.

Ma poi a un certo punto arriva la mia occasione. Uno dei miei panini non ha il cetriolo al centro del ripieno, così, prima che un’altra ondata di stecchi ormonosi attacchi la base, faccio rotta verso il bancone. Sì, questa è una guerra, il bancone è la base, il fortino con i panini.

I tavoli sono le nostre trincee e appena i soldati stecco escono, bisogna impedirgli di raggiungere la base per scofanarsi senza ritegno, per ricordargli che sì, lo sappiamo, a quell’età il metabolismo è più veloce di una Grotti Vigilante a GTA.

Il percorso per arrivare al fortino è così vasto rispetto alla trincea, da cui non esco prima di aver spazzolato tutto quello che c’è sul mio vassoio, che mi viene un attacco di agorafobia.

Non ho più tempo, i primi esemplari di soldato stecco si stanno già dirigendo verso il bancone.

E tra di loro vedo la mia occasione. A un tavolo del merdoso fast food dove sto mangiando da un’ora, c’è lui. Per un momento non ci credo, quasi lo scambio per uno stecco qualsiasi.

In effetti ha la stazza dei nostri habitués in pantaloni della tuta e magliette sformate.

Ma lui è uno Stecco Supremo, un dio, il mio dio, il figlio del mio vicino di ombrellone a Spinicci. Per un attimo mi chiedo come sia arrivato fin qui da Tarquinia, ma no, non credo che mi importi sul serio.

È da solo.

Quasi.

C’è una Turbofregna in miniatura seduta al suo tavolo. Una discendente delle spietate ninfette solo più bassa e senza leggins, la sua ragazza, che lo ha trascinato a mangiare in ‘sto cesso. L’ho già vista lei, viene spesso qui. Cazzo, avessi saputo che era la sua tipa… ma cosa dico? Posso andare da loro adesso, parlarci, spiegargli che dalla prossima estate dovrà bersagliare qualcun altro con le sue battutine del cazzo e… e…

“Ao, ma su Youporn te ce trovo nella categoria chubby?” Uno dei soldati stecco mi urla contro nel suo ignoto idioma, riportandomi alla realtà. Credo sia un capo, ma non ne sono certa, li distinguo solo in base all’uniforme, e loro se le scambiano, sospetto col proposito di farmi impazzire.

Il fast food si è riempito. Sento gli occhi di tutti i soldati stecco su di me. Il chiacchiericcio indistinguibile che fuoriesce dalle loro cavità orali è un terremoto a bassa intensità.

Non so cosa intendesse il capo stecco con le sue parole, ma capisco che se non lascio perdere subito, perderò di vista quello che da qualche istante è diventato il focus principale della mia giornata.

Qualche ora/minuto/secondo dopo, riesco a emergere di nuovo dai miei deliri, ma lui se n’è andato. Bestemmiando torno al mio tavolo, prendo il vassoio con l’ultimo boccone di *nomedelpanino* e lo butto nell’apposito contenitore. Anche se ora sono braccata da uno schieramento compatto di soldati stecco, non provo più alcun astio.

Immagino che adesso, nel mondo di fuori stia calando la notte, ma le luci al neon costantemente accese del centro commerciale non mi danno alcun indizio. Non che m’importi.

Ho perso la mia occasione, forse l’unica.

E invece no.

Almeno la Turbofregna è ancora qui, cammina verso l’ascensore tenendo per mano una giraffa in felpa rossa, guardo meglio, è una ragazza della sua età. Chiamiamola Nasca.

Nella mano libera tiene un *nomedelpanino*, Nasca un bicchierone di coca da mezzo litro.

Non c’è lo Stecco Supremo ma posso convincere il contenitore dove presumo svuoti abitualmente  il suo sperma, a farmi lasciare in pace.

Mi immagino già la prossima estate di fianco al suo ombrellone.

Dieci giorni di puro relax.

Ad aiutarlo nei cruciverba Bartezzaghi e, perché no, proprio a suggerirgli le risposte.

Il mio sogno a occhi aperti è così vivido che mi faccio scappare anche la mia seconda occasione.

Nasca e Turbofregna sono scomparse.

– Cazzo!

Le porte dell’ascensore si chiudono.

Non posso farmi scappare anche questa occasione.

Corro verso le scale mobili.

Merda.

Le ninfette sciamano verso l’uscita, le loro chiappette sgusciano via come anguille tra le porte scorrevoli.

Mi è rimasta solo una possibilità.

Vado all’uscita di emergenza più vicina.

Spingo la maniglia antipanico.

Corro giù per la scala antincendio.

Arrivate al parcheggio interrato le due bamboline escono dall’ascensore.

– Ehi!

L’eco trasforma il mio urlo nel verso di un mostro.

Le due mi vedono.

Sbiancano.

Nasca lascia cadere il bicchierone a terra, si volta verso l’ascensore.

Turbofregna è troppo terrorizzata per muoversi. Ma non per smettere di ficcarsi in gola bocconi di *nomedelpanino*.

– Ehi!

Cammino verso di loro.

Nasca si mette a correre.

Turbofregna a urlare.

Devo avere un aspetto orribile.

Sono indecisa se lasciar perdere e tornare al fast food.

Col cazzo.

Corro verso di loro.

Turbofregna smette di gridare.

Si porta le mani al collo.

Tossisce.

La faccia le diventa del colore della felpa di Nasca.

Stramazza sul pavimento del parcheggio, soffocata; un pezzo di *nomedelpanino* le spunta dalla gola.

– Cristo sant…

Non faccio a tempo a finire la mia imprecazione.

– Ah!

Nasca si porta una mano al cuore e cade anche lei a terra, metà dentro e metà fuori dall’ascensore. Tranciata in due dalle porte alla veneranda età di… quanto? Quindici? Diciotto anni? Non lo sapremo mai.

Resto qualche secondo tra i due cadaveri cercando di capire cos’è successo.

Poi mi vedo riflessa nello specchio dell’ascensore e per poco non prende un colpo anche a me.

Occhi fuori dalle orbite.

Mascara colato mischiato al colore delle occhiaie.

Camicia sporca di ketchup.

Dulcis in fundo, sangue che mi cola dalle gengive logorate dalle caloriche coccole di benvenuto che ho infuso al nuovo inquilino nel mio stomaco.

E adesso che faccio?

La porta dell’ascensore si chiude e si riapre ripetutamente sul cadavere di Nasca.

Scappo.

 

Da quella volta, è passato un po’ di tempo.

Adesso sono più rilassata, ho perfino raggiunto il mio peso forma ideale.

Nel fast food all’ultimo piano del centro commerciale, c’è sempre un sacco di gente, ma i soldati stecco ora mi trattano con riguardo e i cassieri a volte si fermano a parlare per congratularsi con me. Non se lo sarebbero mai aspettato che nel corpo di cicciabomba ci fossi io.

Con il mio nuovo fidanzato ordiniamo un numero 21 e poi un numero 48. I metodi di ordinazione sono un po’ cambiati. Adesso ci sono i numeri come nei ristoranti cinesi.

Niente più menù con *nomedelpanino*, menù con *nomedelpaninosenzacetriolo*, menù col *nomedelpaninocolcetriolomasenzasalsa*.

Oggi è passato anche lo Stecco Supremo, ho stentato a riconoscerlo. Ha mangiato da solo, la cucina ad un certo punto è andata in tilt per far uscire tutti i panini che aveva chiesto.

Non gliene faccio una colpa, non è un bel periodo quello che sta passando, è triste e ingrassato.

A me invece le cose stanno iniziando ad andare per il verso giusto: in settimana devo vedere il dottor Carovigni per farmi impiantare il terzo verme solitario, in più ho ricevuto una proposta di lavoro da un’agenzia pubblicitaria, chissà come mi hanno trovata, non sono neppure sui social.

La fortuna gira per tutti.

Lo guardo andare via. A testa bassa, verso l’ascensore.

Ha preso un bel po’ di peso.

Ma uno Stecco Supremo resta sempre uno Stecco Supremo.

Saluto il mio fidanzato e corro via.

Devo sbrigarmi se voglio arrivare in tempo al parcheggio interrato.

 

 

 

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