Racconto di Simona Visciglia
(Prima pubblicazione)
Fluttuo in un mare calmo. Mi sento protetta. L’acqua è un abbraccio rassicurante. Respiro piano. Non sento nulla, se non i battiti del mio cuore, che scandiscono il tempo e lo spazio. A volte mi sembra di sentire il mio nome, da lontano. Qualcuno mi chiama, ma è più un’invocazione, quasi una preghiera. Non ne sono sicura. Sto bene così, qui. Lasciatemi nuotare ancora un po’. Gambe, braccia, mani, piedi si sciolgono e si ricompongono. Non mi occorre altro.
Sento il sole sulla pelle e i fili d’erba che mi fanno il solletico sulle caviglie nude. Le calze troppo corte sono scomparse nelle scarpe di vernice rossa. Da qui vedo le finestre della sala da pranzo, casa di nonna, la domenica pomeriggio. I grandi ancora a tavola e io a inseguire i soffioni nel giardino incolto a ridosso del condominio giallo ocra.
I miei fratelli giocano a fare la guerra, tirandosi addosso piccole zolle di terra che esplodono sulle loro felpe colorate. Non mi vogliono in trincea con loro, né sui campi di battaglia. Io apro le mani e rapisco denti di leone, uno due tre mille. Mi muoiono tra le dita. Le mie vittime sono soffici e fragili.
Odore di cocomero e di crema solare. Suonano canzoni allegre al baretto sulla spiaggia. La sabbia sotto i piedi scotta, sulle spalle mi cadono gocce di mare, capelli bagnati di sale e innocenza. Mamma mi insegue con il telo di spugna, la guardo mentre sgranocchio un cracker mezzo sbriciolato. Sorrido con gli spazi vuoti tra i denti, qualcuno l’ho lasciato sotto il cuscino in cambio di una manciata di monete. Ho la pelle d’oca ma mi piace. Osservo i ragazzi con le limonate in mano che scelgono la loro musica al juke-box. E le ragazze con gli occhiali da sole e i costumi rosa e arancioni, alte, con le gambe lunghe, voglio essere come loro.
L’inverno è un albero di Natale bianco, i rami non troppo folti che un po’ si piegano sotto il peso delle palline rosse e delle luci colorate, che si accendono e si spengono, senza fermarsi mai. Cerco di indovinare i regali, accarezzandone le forme. Il freddo fuori è secco, sa di caminetti accesi e di dolci alle mandorle e al miele. Mi rosicchio le unghie, finisco i compiti e guardo un episodio di Friends in tv. Mamma stira le lenzuola, papà è uscito a fare la spesa. Nuvola dorme appallottolata sul suo cuscino tutto mordicchiato.
Passeggiamo mano nella mano, ci sono le stelle, ci sono i pini odorosi, ci sono le risate, le farfalle nello stomaco. C’è lui che mi canta una canzone, che non ha più parole, volate via con il vento caldo di agosto. Prima di salutarci, sulla strada sterrata vicino casa, un bacio, il mio primo bacio. La sua bocca sa di Brooklyn alla menta, la mia di ingenua curiosità. Resto con gli occhi aperti a guardare i suoi, chiusi. Mi sento grande. Le sue braccia mi stringono a sé, poi una mano tra i capelli, le dita a sfiorarmi il collo. E chiudo gli occhi anche io. Vorrei respirare solo lui, amore che finisce con l’estate.
È autunno quando piango veramente. Le lacrime che ho conosciuto prima di quel giorno erano insipide e quasi inconsistenti. Il dolore della prima vera perdita, come sale sulla pelle che brucia e corrode. Lui che prima di ammalarsi mi raccontava di essere stato un partigiano, che amava dipingere paesaggi di montagna, che guardava la nonna come fosse ancora un ragazzino innamorato. Lui che oramai non ricordava neanche più il suo nome e che diceva che mio padre gli rubava i soldi dal conto, andandosene dimentica di salutarmi.
Stiamo imbiancando casa nostra, comprata con mille sacrifici. E nel caos del piccolo soggiorno inondato di luce, in attesa che la prima mano si asciughi, ce ne stiamo su un pezzo di divano scoperto dal telo di plastica. Non abbiamo neanche il posto per allungare le gambe, le teniamo raggomitolate, rubandoci a vicenda qualche centimetro. Chiacchieriamo senza peso, come fossimo pulviscolo in trasparenza, controluce nel sole di un pomeriggio di settembre.
Quella vacanza improvvisata, una luna di miele in ritardo. Dopo ore di cammino, ci lasciamo cadere sulle tavole di legno azzurro di una panchina sgangherata. Guardiamo con tenerezza una giovane coppia davanti a noi: due ragazzetti aggrovigliati, come solo chi ignora il resto del mondo riesce a fare. E poi mangiamo biscotti al cioccolato, fumiamo una sigaretta, forse due. Restiamo come in attesa, non so per quanto tempo. Aspettiamo di risentire di nuovo le gambe. Respiriamo l’aria ferma della piccola piazza un po’ anonima. L’ombra si fa fresca nel tramonto e andiamo via. Per tornare indietro o non so dove, prima che faccia buio o che non ne abbiamo più voglia.
Resta dentro di me, voglio essere madre. Siamo abbastanza grandi da prenderci cura di qualcuno. Voglio che abbia i tuoi occhi, che abbia il sorriso di mia madre. Facciamolo adesso, senza pensarci più. Voglio che sia una donna forte o un uomo pieno di passione. Non ho più paura, sarai un padre meraviglioso. Facciamo ancora l’amore, non smettiamo mai. Ho già in mente il suo nome e ricamerò una coperta come mi ha insegnato una mia vecchia zia. Voglio che nasca in aprile, che sia primavera. Voglio che sia felice, come lo siamo noi.
Dicono che quando stai per morire tutta la vita ti passi davanti.
Ospedale di M., 27 aprile, 2022
«Per lei non c’è stato niente da fare, ci dispiace. Ma il bambino è salvo e sta bene».
Stupendo
Grazie!
Complimenti
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