Racconto di Silvano Conti

(Terza pubblicazione)

 

Ricordo come fosse “ieri” di quando arrivò con la sua famiglia a stabilirsi vicino a casa mia. Era una bambina minutina con quei suoi capelli lunghi biondi e con quel nastro azzurro che subito si faceva notare. Io ero in giardino a giocare a palla con i miei amici e fu come un fulmine a ciel sereno. Ricordo che non riuscivo a staccare “gli occhi” da quella bambina che sarebbe diventata il mio angelo per tutta la mia vita, ma lei non lo sapeva e non lo avrebbe mai saputo. Un giorno d’estate ricordo che per farmi notare lanciai il mio pallone nel suo giardino sperando che arrivasse lei a prenderlo e a ridarmelo. Mannaggia, arrivò sua madre, bella donna decisamente, ma non era lei. I giorni passavano e ancora non sapevo neanche il suo nome, allora chiesi a mia madre: “Mamma, ma come si chiamano quei signori che sono arrivati?” E mia mamma: “Il papà si chiama Albert e la mamma si chiama Luisa”.

Io: “OK! E…”.

M.: “E, cosa?”.

Io: “E la bambina?”.

M.: “Credo si chiami Viola”.

Pensai: “Viola, sei quell’angelo che ho sempre aspettato! Viola, luce dei miei occhi!”. “Hai dieci anni, stupido, ma, cosa stai dicendo? Quale angelo, non sai neanche cosa stai dicendo. Non usare la frase che hai sentito ieri sera nel film in televisione!”. Film o no lei diventò subito “La mia Viola”. Delle volte stavo le ore alla finestra ad aspettare di vederla, una volta almeno. Niente da fare! Vedevo sua mamma, suo papà, i parenti ma lei mai.

Era il pomeriggio del 15 novembre del 1982. Me lo ricordo benissimo! Stavo cercando di concludere un puzzle da 10000 pezzi, mannaggia a chi me lo regalò e suonarono alla porta di casa.

M: “Eriberto, vai ad aprire”.

Io: “Mamma sto lavorando al puzzle”.

M: “Vai tu che io sto stendendo il bucato”.

Io: “OK!”.

Andai ad aprire un po’ a disagio perché non trovavo il pezzo da incastro nel puzzle.

Non crederete mai ma ebbi una visione! Era lei, lei in persona e mi disse: “Ciao, mi chiamo Viola e la mia mamma mi ha detto di portarvi questa marmellata di ciliegie che…”.

Lei continuava a parlare mai io non sentivo e guardavo il suo viso, i suoi occhi, il movimento delle sue labbra in poche parole non ero più di questo mondo. Ero io e la figlia di Afrodite. Il mondo ormai era un contorno. Il mondo non mi interessava più e che andasse a quel paese anche il puzzle e i suoi diecimila pezzi. Un certo momento sentii in lontananza come se fosse alla fine di un tunnel: “E tu come ti chiami?”.

Io: “Tu come ti chiami?”.

V: “Sei tu che mi devi dire come ti chiami!”.

Io: “A sì, scusa! Mi chiamo Eriberto. Mi hanno chiamato così per via del fatto che mio nonno si chiamava Eriberto e a sua volta il nonno…”.

V: “Mi basta sapere come ti chiami tu!”.

Io: “Eriberto”.

V:” Grazie! Adesso devo andare a finire i compiti”.

Io: “Aspetta un attimo, solo un attimo. Ti voglio dare una cosa”.

Lei mi guardò in modo interrogativo e con un po’ di curiosità.

Io “volai” in camera mia e presi una collanina che avevo creato giorni primacon un filo di rame e delle pietruzze colorate. Non era un capolavoro di artigianato locale ma era stata creata con il cuore. A tempo quasi “zero” ero tornato davanti al mio angelo e le dissi: “Questa collanina è per te perché siamo diventati amici”.

Lei la fissò per un attimo, mi guardò negli occhi, con quei suoi occhi verdi e mi disse: “Grazie! È per me?”.

Pensai: “Se te l’ho data in mano è ovvio che è per te” ma le dissi: “Certo! È per te in segno della nostra amicizia”. Con quel suo completino bianco e i suoi capelli d’oro tornò verso casa e io rimasi con in mano un vasetto di marmellata alla ciliegia che, vi giuro, ancora oggi, non ricordo per quale motivo me l’avesse portato. Ogni tanto arrivava in casa sua un ragazzino altezzoso, almeno mi sembrava da lontano, mi sembrava anche un po’ stronzo o forse era solo gelosia. “Viola è mia e solo mia!” pensavo. Passarono i mesi e passarono gli anni. Io e Viola non diventammo mai amici intimi ma nel mio cuore era “La mia Viola”. Io non volevo dimostrare l’attrazione che avevo nei suoi riguardi e per via della mia timidezza non riuscii mai a dirle quanto l’amavo (erano arrivati i diciotto anni e ancora ero lì a pensare all’amore platonico anche se avevo finalmente finito il puzzle da diecimila pezzi (che cavolo c’entra?). Il destino, si sa, è imprevedibile e così lei e la sua famiglia, per questioni di opportunità, si trasferirono in Svizzera. Ricordo che venne con i suoi genitori a salutarci e io per diversi giorni vissi con un “macigno” nel cuore. Ogni tanto ci si sentiva per telefono ma pian piano ci si sentiva sempre meno. Dicono che il tempo chiude le ferite ma le ferite d’Amore non si cicatrizzano mai e la mia rimase aperta.

Delle volte si parla di coincidenze, di strane coincidenze e io ne ebbi una conferma il 15 novembre del 2002 quando in televisione diedero la notizia di una comitiva di sciatori che rimase sepolta sotto una slavina in Svizzera. Non ero certo che Viola fosse una sciatrice ma ebbi un brutto presentimento. Il giorno dopo sui quotidiani venne messa in risalto la notizia della disgrazia in Svizzera e tra i nomi delle vittime lessi anche il suo nome. Diventai “vecchio” in un attimo! I ricordi mi si buttarono addosso come un secchio di acqua gelida ed entrai in un periodo di profonda tristezza e apatia. Dopo diverso tempo decisi di partire e di andare a trovare “La mia Viola”. Presi il treno da Milano ed arrivai a destinazione dopo qualche ora. Il piccolo cimitero aveva come sfondo le Alpi ancora imbiancate e sui rami degli alberi cominciavano a vedersi le prime gemme. Il cielo era azzurro senza una nuvola e l’aria sapeva di “buono”. Entrai nel cimitero con un mazzolino di fiori di campo e cercai la sua lapide. Foto di anziani, giovani, uomini, donne e bambini e eccola lì, “La mia Viola”. Eravamo io, Lei e la Natura. Tentai di recitare una preghiera senza senso che sostituii con pensieri di sincero affetto e Amore. Mi si riempirono gli occhi di lacrime, lacrime piene di ricordi e cose non dette. Mi chinai sulla lapide per baciarla sulla bocca anche se era solo una foto a colori. Mi si gelò il sangue quando vidi che al collo portava una collanina di rame con delle pietruzze colorate.