Racconto di Maria Letizia Pecoraro
Racconti a tema – RaccontiConInput
Salto annoiato dal letto al divano. Mi domando cosa fare di me, di una giornata lunga precisa quanto quella di ieri, sarà esattamente quanto domani.
Se chiudo gli occhi vedo le mie ore come fossero un mucchio di mattoncini Lego: tutti uguali, insignificanti in sé, forse con qualche speranza d’essere, se uniti, uno sopra l’altro.
Provo a costruire la mia torre, tanto non ho nient’altro da fare. Blocco numero uno sopra blocco numero due, blocco numero tre, numero quattro, cinque, sei, set… uff! Che noia è mai questa?
Magari provo con le carte da gioco. Mi ricordo qualcuno che costruiva magnifici castelli, una carta sopra l’altra, appoggiate a sostegno di sé e di tutte.
Gran cosa, eh! Gran progetto!
Ci provo, dai. Una e due, tre e quattro, cinque e sei, sette e otto, nove e dieci. Bellissime fondamenta, ora tocca elevarsi. Rinforzo la base e via! Undici e dodici, tredici e quattordici, quindici e sedici, diciassette e diciotto. Ottimo, ottimo!
Mi fermo un istante, sento salire dal petto uno sbuffo d’aria compressa, mi si compatta in gola poi su nel naso e…etciù! Uno starnuto fragoroso rompe l’aria d’intorno e mi frantuma miseramente il castello di carte.
“Povero Giosuè – mi dico – povero, poverissimo – di cose e di idee, di lena e voglia di vivere”. Ma non mi arrendo. Apro gli occhi, li richiudo e medito, pondero e soppeso.
Cosa potrei mai fare di questo vuoto largo che s’ingrigisce via via? Forse accendo candele… ecco, trovato! Strappo il grigio piatto con fiaccole e candele, provo a creare un palazzo fatto solo di luci e fiammelle tremule, di onde piccole e grandi che si fanno ombre sui muri nudi di casa, dell’anima.
Mi affanno, m’ingegno e studio tutto un percorso: candele alte di là, altre giù in basso di qua, qualche fiaccola vigorosa proprio in fondo al cammino – che mi dia direzione, che mi tenga viva la sottilissima gioia di guardare oltre me.
Fiamme, fiammelle, faville che danzano lievi e…sbam!
Mi guardo intorno stupito: cos’è questo schianto? E questo freddo improvviso? E il buio che mi rapisce? La porta lasciata aperta su un vento dispettoso mi scippa l’ultima mano di questa partita giocata a carte scoperte tra me e il mio destino gramo, anzi no, vuoto!
Fallisce l’ultimo mio piano. Mi arrendo!
Chiudo porte e finestre, vago attonito sopra le macerie dei miei progetti effimeri, provo a piangere sommessamente… ma che noia mortale! Non c’è più gusto neppure nell’onda di un bel dolore.
Uff… cosa potrò mai fare? Rimugino in lungo e largo e finalmente trovo la soluzione ideale, quella che mi soddisfa e mi accende: aprirò larghe le braccia alla pazzia sopita, tenuta a bada dal signor Benedetto Buonsenso.
Comincio subito con il suonare musica, senza capo né coda, senza palco e strumento. Tutto nella mia testa solamente, in questo lago senza acqua né sponde.
Un trillo di follia rompe il silenzio monotono della landa deserta. Stride, fischia furiosa, si acquieta un poco, poi riprende sonora.
Ora pare un’orchestra senza direttore: sento i piatti battere l’uno su l’altro, un violino stufo di musica struggente si mette a stridere lunghe note sconnesse, come acuti di voci fuori dell’umano possibile; un pianoforte pare aver perso le mani che lo accarezzano caute e pesta pesta, non si sa come, da solo e senza pietà, i suoi tasti stregati. Di tanto in tanto un rullo di tamburi lontani annuncia il niente assoluto che si affaccia alla scena.
Che meraviglia, che superbo spettacolo senza teatro e pubblico, nessuno ad applaudire. Ci sono solo io. Ma questo già mi tedia quanto e peggio del prima.
Possibile che non esista nulla che duri un attimo in più del brivido?
Forse potrei finire, mettere una parola a chiudere il sipario sopra questa commedia sconnessa che è la vita dell’uomo.
Ma come ho fatto a non pensarci prima? È proprio quella la soluzione a questo dannato problema di cosa farne delle giornate mie: scrivere a chiare lettere un “The end” definitivo degno dell’istrione che mi respira dentro.
C’è quella roccia altissima, nel profondissimo sud, proprio a picco sul mare. La fine è appollaiata lì, splendida mi seduce. Avrò da bere e da mangiare, vorrò baci lunghi feroci di passione, farò l’amore come fossi un dio. Poi spiccherò il tuffo a volo d’angelo – la mia figura elegante stagliata nel cielo. Una Polaroid fisserà l’attimo del brivido ineguagliabile della follia.
Mi tiro su, mi assesto bene la giacca e i pantaloni che nel tormentato monologo si sono ciancicati. Una mano a rassettarmi i capelli e l’altra sopra al cuore mentre mi piego impercettibile nel mio saluto solito.
– Arrivederci dottore”
“A mercoledì prossimo alle 18, come ogni settimana”.
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