Racconto di Angela Diano

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È un martedì piovoso di primavera e il rumore della pioggia fa da sottofondo al respiro di Michele che dorme accanto a me. Invidio il suo sonno rilassato e privo di incubi.

Nelle mie notti insonni mi piace soffermarmi sulle pieghe morbide del suo corpo e tratteggiare con lo sguardo le linee definite del volto. Averlo accanto è un miracolo inaspettato e la paura di perderlo allunga ogni ombra che si proietta, dalla luce dei lampioni, sulle pareti e sul soffitto. Quanto tempo è passato? Un’ora, forse due. È meglio alzarsi.

Con un caffè in mano mi avvicino alla finestra e guardo i fiori del mandorlo appesantiti dall’acqua che bagna i petali. Se fossi all’università non mi accorgerei di questa tristezza travestita da pioggia che scivola sui sassi e sui davanzali smagriti dall’inverno. Potrei rilassarmi invece avverto un’inquietudine crescente.

L’umore non migliora quando realizzo che mi tocca una pausa forzata perché il contratto non è stato ancora rinnovato. Quando ne prendo coscienza vedo la mia giornata scorrere senza la frenesia della routine lavorativa – doccia, colazione, vestirsi, truccarsi, uscire in fretta per prendere il tram. Sorseggio il caffè con calma e un leggero tremito della mano rivela che ancora non ho smaltito la sensazione sgradevole dell’incubo notturno.

La pioggia picchia forte contro i vetri che mi restituiscono un’immagine sfocata di me stessa.Il giardino, che aveva iniziato a colorarsi di primavera, è diventato un desolato acquitrino. Abbiamo portato fuori il salotto di vimini e le sedie sdraio come se la bella stagione fosse arrivata prima del previsto e invece l’inverno ha una coda acquosa che si allunga fino a maggio inoltrato. Ogni tanto una folata di vento fa sbattere le imposte e fa cadere i vasi che Michele ha posizionato sulle mensole di pietra e negli angoli. Lui ama le erbe aromatiche che profumano l’aria e danno sapore ai cibi. E ha ragione, caspita se ha ragione. Il suo agnello al forno con timo e rosmarino ha un sapore ricercato e inimitabile. Ha il pollice verde che io non ho.

Non potrei mai coltivare un fiore o una pianta perché voglio vedere i risultati subito. Invece ci vuole molta pazienza nel piantare i semi, osservare i germogli, accompagnarli nella crescita assecondando la loro natura, concimarli e vedere la bellezza che si sprigiona in un fiore, in un frutto, perfino nelle foglie spinose delle cactacee. Lui dice che io sono come loro, non sono facilmente raggiungibile ma posso dare soddisfazioni a chi se ne prende cura.

Non ho un carattere facile, lo ammetto, ma soddisfo la sua naturale inclinazione ad occuparsi di chi è fuori di testa. Anche se non ha mai studiato medicina o psichiatria, possiede una naturale predisposizione a empatizzare con i malati psichiatrici.

Lui dice che la pazzia è una libertà in incognito. Forse per questo si è creata tra noi l’attrazione che include un saper guardare oltre il visibile.

La prima volta che ci siamo incontrati è stata simpatia a prima vista. Stavo scrivendo la tesi ed ero andata in sovrintendenza dove lui era stato da poco assunto. L’ho visto fissarmi mentre presentavo le mie richieste in segreteria e, subito dopo, mi è venuto incontro chiedendomi che cosa cercassi. Mi ha confessato in seguito che si era innamorato subito di me.

“Hai la bellezza eterna della semplicità e l’avvenenza di chi non se ne cura”.

Lui dice che, con gli anni, il mio aspetto è diventato ancora più gradevole ma io non ne sono convinta. Nell’adolescenza sono stata sopraffatta dalla sicurezza delle donne, belle e sensuali, la cui immagine mi arrivava come uno schiaffo dalle copertine dei settimanali. Mi sentivo molto lontana da quel prototipo di bellezza. Neanche le battaglie delle mie coetanee che lottavano per i diritti e la libertà erano nelle mie corde e, pur condividendo le ragioni delle proteste, rimanevo a guardare icortei e le manifestazioni senza prenderne parte. Mi resi conto, ben presto, che la costruzione della personalità mancava della parte fondamentale che era la mia volontà. Dopo aver cercato la mia dimensione, alternando il mio esistere tra libri e contestazioni, minigonne e rossetti, adesso so con sicurezza ciò che vorrei, ma soccombo spesso davanti a ciò che sono.

Per fortuna ho incontrato Michele che con il suo sorriso riesce a sorprendermi, così come l’alchimia che si crea quando stiamo insieme. Tutto il resto si annulla e il suo modo di parlare tranquillo è come una panacea per i mali psicologici che mi attanagliano.

Questo tempo malinconico acuisce l’inattività forzata e si prende tutto il tempo e lo spazio costringendomi in un angolo. Il mio angolo è mentale. L’ho creato di piccole dimensioni per sovrapporre senza sforzo i miei pensieri in maniera ordinata secondo un metodo che mi aiuta a incastrarli e a tirarli fuori all’ occorrenza. Seguendo le gradazioni, sovrappongo i rossi, gli arancioni, i gialli e così via fino ad arrivare alle sfumature del viola e del blu.

È ovvio che, oggi, il tempo condiziona i miei pensieri che ripongo nell’angolo dei grigi. Non mi rimane che recuperare l’armonia attraverso la musica, anche con le note ardite del mio compositore preferito.

Quando ascolto Skrjabin mi commuovo. È una musica che toglie il fiato, mi trasporta dove non vorrei, facendomi piangere di felicità. Adesso ne ho bisogno, metto le cuffie e chiudo gli occhi. Etudes Opera 8 Numero 12.

Michele dice che non dovrei ascoltare quel musicista fuori di testa. Lui dice che non mi fa bene. A lui piace il soul, ma io preferisco darmi una scossa, perché la musica di Skrjabin sconvolge e, nello stesso tempo, ha un effetto rilassante.

Skrjabin è stato un pianista tanto dotato quanto folle, nella sua spericolata ricerca dell’armonia attraverso la musica. Soffriva di una vera e propria malattia, che gli faceva vedere i colori delle note.

Ascolto Skrjabin e attendo l’azzurro.

Ha smesso di piovere e un sole arrugginito si è fatto strada tra le nuvole. Posso prendere la bici e avviarmi verso il paese. La protezione civile ha diramato un’allerta ma non sembra, al momento, esserci alcun pericolo. Dovrò percorrere due chilometri ma a quest’ora non c’è traffico e posso guardare il mare, oltre le siepi di oleandro, alla mia sinistra.

Sulla destra, invece, ci sono gli edifici che corrono lungo la strada, il bar, il tabacchino e le scuole elementari.

Per arrivare al supermercato devo attraversare il ponte e percorrere via Nazionale. Il paese è accucciato sotto la collina e ruota attorno alla piazza con le case basse e la Chiesa antica. So che troverò quattro pensionati che parlano di politica e Adolfo, l’amico di Michele, che dorme sdraiato sulla panchina di pietra.

Pedalando recupero il buon umore e ripenso a Oslo, lo psicologo di riferimento, così lo chiama Michele. Lui aveva insistito perché consultassi uno specialista.

«Non ne ho bisogno».

«Ti farebbe bene. Ti porti dentro troppe cose e io non posso aiutarti».

«Lo sai che non mi apro facilmente con nessuno. Sarebbe un buco nell’acqua, un fallimento».

Poi lo accontentai.

La prima cosa che Oslo mi chiese fu:

«Raccontami i tuoi sogni».

Ecco, il primo problema è arrivato. È proprio quello che non voglio fare, parlarti dei miei sogni. Adesso mi alzo da questo lettino-poltrona e me ne vado.

«Sto meglio dal dentista – pensai ad alta voce – almeno quando ho la bocca aperta non posso parlare».

Non trattenni la risata e anche Oslo scoppiò a ridere. O forse finse di trovare la battuta di divertente.

Come avevo previsto fu un fallimento.

«Signorina se non vuol farsi aiutare è inutile continuare».

Non potevo dirgli che partire dai sogni non era una buona idea. È come scavare in un mondo parallelo che mi cammina a fianco. Ogni tanto apro una finestra e non so che cosa vedrò, né se mi riguarda direttamente o se, come accade il più delle volte, preannuncia una disgrazia. Come potevo dirgli che avevo già visto in sogno lo tsunami che aveva colpito l’Indonesia? Come potevo descrivere la fossa piena di corpi che due mesi dopo avrei rivisto in TV? No, non potevo scoprire quella parte di me che va al di là del comprensibile.

«Grazie lo stesso».

Michele capisce subito che non sono stata collaborativa e mi abbraccia senza parlare. Io invece sono un fiume in piena.

«Te l’ho già detto. Io so di che cosa ho bisogno. Non certo di uno psicologo che mi faccia piangere su un lettino. In questo momento ho solo necessità di lavorare. È questa incertezza che mi disorienta e tira fuori i timori per un futuro incerto».

So di mentire per il semplice fatto che so distinguere il malessere di vivere dalla finestra che si apre nel mio mondo parallelo.

A volte chiudo la finestra e rimango in attesa degli eventi, ma stavolta mi sento proiettata in questo mondo che mi cammina a fianco e mi interpella. La notte mi ha lasciato una sensazione di pericolo che non riesco a decodificare.

Arrivo sul ponte e lo sguardo si sposta verso i monti dove vedo addensarsi nubi nere proprio lì dove nasce e prende vita la fiumara, per pochi giorni all’anno. Il letto del torrente è quasi asciutto, le ultime piogge hanno creato dei piccoli rivoli che scorrono frettolosi e scendono verso la marina lungo un tratto ripido e tortuoso.

Mi sento ipnotizzata nel guardare quelle pieghe che definiscono declivi e tornanti e mi torna in mente il sogno di stanotte: la grande onda nera, di fango e acqua, che arriva con violenza travolgendo abitazioni e abitanti.

Succederà adesso? Non ho tempo di ragionare, né di indugiare.

Percorro a tutta velocità la discesa che porta al quartiere accanto al torrente, suono a tutti i campanelli e urlo con quanto fiato ho in gola:

«Abbandonate le case. C’è un’allerta della protezione civile per eventi alluvionali. Andate a rifugiarvi in Chiesa o nella palestra comunale. Presto!»

Li vedo uscire perplessi, non tutti sono convinti di quello che sto dicendo. Qualcuno telefona alla protezione civile che conferma l’allerta ma raccomanda di non uscire di casa. Insisto. Qualcuno mi manda a quel paese: «Questa è pazza. Io non mi muovo».

Altri vanno via.

Attraverso il ponte e vado nella fabbrica dove ci sono una ventina di operai. Il cuore mi trema, non mi crederanno. Ma il capo struttura è un geometra che conosce i rischi.

«Siamo sotto il livello. Meglio andare via».

Tiro un sospiro di sollievo. Inizia a piovere. Riuscirò ad arrivare a casa o almeno ad attraversare il ponte e ad allontanarmi dal pericolo?

Giro lo sguardo ad est verso i monti e la vedo: una massa d’acqua scura imponente arriva ad una velocità impressionante, trascinando ciò che incontra sul percorso.

Rompe gli argini, invade il quartiere, vedo franare le case più vicine. Rimango sul ponte immobilizzata dal timore per quello che sta accadendo.

Frana anche il ponte, io sono trascinata dall’acqua, arrivo al mare in pochi secondi e finalmente lo vedo. Tutto l’azzurro che cercavo. Finalmente è qui.