Racconto di Valentina Scelsa
(Prima pubblicazione – 6 maggio 2020)
Ore 9 del primo Aprile 2020: Mi sveglio. Mi rode? Sono di buon umore? Non l’ho ancora capito, ma percepisco l’assenza. Lui non è ancora tornato dal lavoro, è di nuovo l’attimo dopo. L’attimo prima è quello in cui non lo sopporto più, mi prude la pelle e mi manca l’aria. É l’attimo in cui penso, ma quando te ne vai? Sono arrabbiata, però forse troppo. Magari è perché non voglio pensare all’attimo dopo: quello che inizia nel momento in cui chiudo la porta, lui se ne va e i miei occhi non lo vedono più.
Per fortuna ci sono Nina e Sofia, le mie gatte, ora a letto con me. Mi guardano preoccupate. Mi capiscono bene, loro.
C’è silenzio.
Fuori la quarantena, la prigionia, la privazione della mia libertà. Lavoro bloccato, rabbia repressa, fascismo travestito da protezione. C’è il coronavirus, le prove in corso per un ritorno al regime. C’è l’ignoranza, la paura, la gente che muore: come sempre o di più? Il panico è sovrano indiscusso, l’incertezza sua regale compagna. La storia degli uomini è fatta così, un alternarsi infinito di guerre, regimi totalitari e disastri, ma l’inguaribile, inesauribile speranza di un mondo migliore, quella, non muore mai. Le tragedie sono come perline di vetro, infilate una dopo l’altra a formare un’infinita collana di cattivo gusto, dai colori troppo sgargianti o troppo spenti, lunga abbastanza da adornare il collo di Dio.
A me il silenzio piace. Sono abituata all’autoisolamento, all’eremitaggio: il mood da apocalisse mi appartiene, ci vuole altro per mettermi paura. É il vuoto che mi terrorizza:
nessuna forma di contatto con te dopo più di un anno. Nessun odore di mandarini, nessuna canzone sparata in piena notte dalla vecchia radio analogica di legno, quella con le manopole sul mio comodino, che non funziona perché non le capisce le frequenze di oggi.
Mi sarebbe bastata l’anta di un armadio, precedentemente chiusa, spalancata al mattino. Un coperchio impazzito che si solleva come un disco volante e inizia a oscillare in aria vorticoso, per poi ripiombare a sigillare la bocca spalancata della sua pentola. Una lampadina accesa che scoppia, mentre pronuncio ad alta voce il tuo nome. Un sogno in cui, finalmente, ci abbracciamo.
Una delle solite cose, quelle di cui spesso eri anche tu complice e testimone.
Invece no: nessun cazzo di segnale.
Ti fai sempre pregare.
Non sono venuta al tuo funerale, ma hai esagerato con questa punizione.
Abbiamo tempi diversi, forse questo è il punto.
Almeno papà, la notte prima del suo funerale, perché si, al suo ci sono andata, anche se strafatta di benzodiazepine, mi ha dedicato una canzone: la vecchia radio senza spina sul comodino ha iniziato a suonare Cheek to Cheek di Fred Astaire: ‘Heaven, I’m in heaven,
And my heart beats so that I can hardly speak
And I seem to find the happiness I seek
When we’re out together dancing, cheek to cheek…’
Lui non ha più chiuso occhio quella notte.
Io ho riattaccato a piangere più forte, perché non avevo mai smesso da una settimana.
Non so dove siano finite ora le sue ossa, non lo frequentavo più da quasi vent’anni. É morto solo, malato di mente e di cuore, nella casa da cui lo stavano sfrattando. Forse nell’ossario comune di Prima Porta. Chissà se ha pianto le sue lacrime di coccodrillo mentre i suoi polmoni collassavano e stava soffocando.
E le tue ceneri? Desideravi la cremazione, prima che un’emorragia cerebrale ti spappolasse mezzo cervello a cinquantotto anni e paralizzasse la parte destra del tuo corpo, relegandoti nell’invalidità totale per dieci anni. Dieci anni in cui, però, capivi tutto e in cui il tuo carattere è diventato l’esasperazione di quello che era: struggentemente emotivo, inguaribilmente distruttivo, mortalmente distopico. Le tue ceneri sono state disperse su una collina verde, sotto l’ombra di un bel fior, come cantavi tu?
Accendo la candela sul mio comodino, voglio riaddormentarmi.
Ore 11: hai voluto vedermi distrutta, poco fa, piangere senza ritegno. Fissare il fuoco di quella candela bianca accesa con l’intensità della salvezza, per deciderti a fare qualcosa, per entrare in contatto con me.
Sento la musica di un violino, viene da fuori, è Mozart: la stessa musica che ti facevo ascoltare quando eri in terapia intensiva. Mi alzo, vado in sala, il libro è sul pavimento: La voce invisibile del vento, di Clara Sánchez. É stata Nina, sono sicura. Panterina nera, gatta nana diabolica, ama distruggere la materia pesante, sbriciolare fogli di carta, attaccare la mia libreria.
Apro una pagina a caso: quello che leggo non mi piace. Forse era meglio lasciarti morire.
La pagina mi parla di coma, e dell’aiuto esterno necessario per ritrovare la strada del risveglio. Dovevo permettere che staccassero la spina del respiratore, mentre eri in coma, dieci anni fa e lasciarti morire. Invece ho detto ai medici che tu c’eri ancora, in quel corpo gonfio e irriconoscibile dopo l’operazione, che quell’elettroencefalogramma che ti collocava negli anfratti più profondi dell’incoscienza senza ritorno si sbagliava: “muovi una mano per il sì, un piede per il no” e tu hai risposto a tutte le domande, davanti a loro. Coerentemente. Forse per la prima volta in vita tua. Tutto quello che è seguito non è stato il miracolo che sembrava all’inizio, quello che ha reso il tuo caso oggetto di studio da parte dei medici. Un miracolo non può essere solo dolore.
Vado in cucina per un bicchiere d’acqua, coriandoli di carta attirano la mia attenzione e mi guidano a un altro libro, Il piano infinito, dell’Allende: è stata sempre Nina, ha buttato giù il romanzo dalla libreria in cucina e questa volta ha sbriciolato qualcosa, il lembo di un foglio dentro il libro: è un tuo disegno! Non ne avevo la minima idea, come ci è finito? Hai disegnato una donna con un cerchio in mezzo agli occhi e un altro, più grande, sul naso. Non ci capisco un cazzo, ma che significa? Rovescio il tavolo della cucina, cade tutto per terra, le pile di libri, il vasetto di vetro con i fiori selvatici del mio terrazzo, che va in pezzi. Spacco tutto, quando non capisco niente.
Poi arriva Lui e sto piangendo. Mi abbraccia e non so come, finiamo a letto.
L’orgasmo dell’amore è fatto di una strana materia impalpabile e potente, ha una consistenza tutta sua. É luce. Meno esclusivamente clitorideo, più vaginale, rilascia serotonina e dopamina. Le sue vibrazioni sono come le onde della frequenza in un elettrocardiogramma che, dopo l’esplosione in picco tsunami, disegna sullo schermo colline dolci sempre più basse, che poi diventano una lunga strada dritta, la linea piatta di una piccola meravigliosa morte.
Ore 13: mi risveglio e sul letto con noi ci sono Nina e Sofia, la mia gatta inspiratrice. Quando c’è lei che mi guarda in un quel modo capisco di essere sulla strada giusta.
Prendo di nuovo in mano il libro, Il piano infinito, ne estraggo il disegno menomato, lo rigiro tra le mani, lo capovolgo e finalmente capisco! Vedo quello che raffigura davvero: il cerchio grande sul naso è la testa, il setto nasale il corpo, gli occhi dalle lunghe ciglia ali spiegate, il cerchio più piccolo, quello in mezzo alla fronte, è il cuore: è un angelo in volo.
Mi hai fatto uno scherzo, un bel pesce di aprile. Ti sei divertita eh, Gemma?
Mamma, essere contorto dal viscerale tutto e distruttivo niente, sei il mio angelo adesso?
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