Racconto di Nicla
Non sono più abituato a questo silenzio. La sera, quando gli ultimi uccelli se ne sono andati, cala un freddo che nemmeno la luna grande riesce a ravvivare.
Da quando quelle imposte sono state chiuse per l’ultima volta, la campagna ha ripreso il sopravvento, con un brulichio di voci che a stento riconosco. Sto invecchiando. E pensare quanto ti temevo quando ti ho vista arrivare. Siamo vicini ma non siamo cresciuti assieme.
Non sapevo cosa fosse quel tumulto di terra che operai solerti avevano iniziato a scavare. Temevo i loro picconi e la loro ferraglia. Ad ogni colpo mi facevano tremare. Temevo che avrebbero tranciato quel filo sottile chiamato anima che mi lega al mondo, e che loro chiamano radici.
Ma i giorni passavano, loro mi scavavano accanto, sempre con rispetto. Ero perlopiù salvo, anche se incupito. Presagivo qualcosa di terribile e il pensiero non mi dava tregua. E nel frattempo osservavo quel brulicare che ti avrebbe portato a crescere dalla terra nuda, in modo così diverso dal mio. Io avevo fatto tutto da solo, e tu invece, avevi bisogno di tante mani addosso.
Finché è accaduto. Una delle mie radici, quella che si era spinta più lontano, ansiosa di futuro, è rimasta intrappolata nella colata di cemento versata per le fondamenta.
Non so cosa significhi restare senza respiro per un essere umano. Dicono che si senta la morte succhiarti il corpo in anticipo, mentre sei ancora vigile e sveglio, e non puoi fare nulla per fermarla.
Io credo di aver provato qualcosa di simile quando il cemento ha intrappolato per sempre quella radice. Quello che le era successo, si riversava dentro di me. Come se anch’io fossi sepolto nel cemento, pur essendo in gran parte fuori. Ho sentito la linfa seccarsi dentro, come per un incantesimo, lasciandomi vivo ma inerte.
Non so quanto tempo sia durato lo stordimento. Mi sentivo come quei pezzi di legno e ferro che usavano per farti crescere, che a poco a poco venivano rivestiti dalla malta e dal cemento. Ma loro non erano mai stati vivi. Non come me. Mi chiedevo: ma chi può investire così tanto energie in qualcosa di non vivo, qualcosa di già morto dall’inizio?
E mentre io vivevo non vivo, tu crescevi mattone dopo mattone, e iniziavi a splendere di intonaco bianco.
Poi il tempo ha messo la sua pezza curativa su di me, e su di te un tetto. E dopo il tetto, tutto il resto.
Il trasloco, famiglie che si distribuivano lo spazio, creando cucine, sale, camere da letto, e bambini, bambini che scorrazzavano dentro e fuori dall’edificio, e correvano per il cortile a perdifiato.
Io immobile regalavo loro le cose di cui ero capace. L’ombra d’estate, foglie calde in autunno, dopo giorni di colore sotto i raggi di ottobre, blocchi di neve d’inverno che spingevano le madri a gridare “attenti”, e un verde nuovo ad ogni primavera, che avvisava i bambini che potevano tornare a giocare all’aperto. E il fruscio, il fruscio del vento, che senza le mie fronde sarebbe solo un silenzioso movimento.
Non mi stancavo delle loro voci, dei loro girotondi, dei loro inseguimenti e pianti in cortile, quando correndo inciampavano e incontravano un sasso appuntito o un pezzo di terreno troppo ruvido per la loro pelle sottile.
A sentire quei gridolini, i miei rami e le mie foglie oscillavano anche senza vento, solleticati da una brezza che nulla aveva a che fare con l’aria. Io ascoltavo, come ascolto tutto ciò che mi circonda, e che dal mondo fuori sfiora la mia corteccia.
Ma un giorno è accaduto quello che mai avrei immaginato. Ho iniziato a percepire un formicolio. Proprio sotto al cemento. Da quella radice senza futuro con cui oramai mi ero rassegnato a convivere. Ho cominciato a sentire le loro voci in un modo diverso. Non più come suoni che arrivavano da fuori, ma come dei fremiti interni, che salivano dalle profondità. Come se quella radice intrappolata fosse il punto cavo da cui penetravano brividi di luce, nuova fonte di nutrimento.
I bambini ora sono cresciuti, le famiglie se ne sono andate, e le imposte sono oramai chiuse da tempo Sei rimasta tu, guscio vuoto di una vita che vive altrove.
Io accanto a te proietto il mio silenzio, disegnando sulle tue mura stanche pensieri di ombra e sole.
Delicato, ben scritto, dai voce alla natura e alla tormentata convivenza con il cemento. Fa immedesimare il lettore con l’albero. Grazie per la lettura.