Racconto di Lori Marchesin
L’idea di andare a passeggiare per la città e curiosare tra ” Pittori in Contrada”, suggerita dall’amica Serena, parve a Gea un modo come un altro per sfuggire al processo che si stava svolgendo nella sua testa.
Cercava di immaginare quale castigo non avesse ancora subito, elencò le gradazioni della pena, il grado direttamente proporzionale all’angoscia che provocava in lei.
Sapeva che gli altri la giudicavano, ma che ne sapevano di ciò che aveva sconvolto la sua vita?
Le era proibito entrare nello studio di Sergio se lui non era presente. Non poteva usare il suo PC neppure in caso di emergenza. Considerato il lavoro delicato del marito, psichiatra, aveva sempre rispettato la privacy. Certo i pazienti li riceveva nel suo studio a Milano, ma la sera lavorava a casa, lunghe ore barricato dietro la porta di quercia. Certe volte lo sentiva infilarsi sotto le lenzuola quando l’alba stava imbiancando la notte.
La loro vita matrimoniale le era sempre sembrata solida. Agiatezza economica, serenità familiare seppure i loro rapporti intimi fossero ormai rari e privi di slancio. A lei il sesso importava poco, le bastava la sicurezza del suo affetto, il rapporto costruttivo con i figli ormai giovani adulti.
Quel martedì, sei mesi prima, era cominciato male e terminò con un disastro. Aveva bisogno di un documento legale. Sergio era a Torino per un congresso e non riusciva a raggiungerlo. Era quasi sicura che nel PC del marito ci fosse una copia, ma violare il suo sancta sanctorum era impensabile.
Eppure doveva avere quel documento; si trattava di una lunga transazione da sigillare quel giorno.
Trovò la chiave di riserva. Entrò nello studio con timore, il battito accelerato del cuore e il senso di colpa. Accese il computer e arrivò il primo ostacolo: la password. Tentò con i nomi dei figli, le date di nascita e altri dieci tentativi infruttuosi. Doveva entrare. Pensò a Sergio, alle sue manie. Certo! Provò con il suo idolo Sigmund Freud: nulla. Non era abbastanza. Provò ancora abbinando l’anno di nascita del marito e finalmente apparve lo schermo costellato da cartelle. Erano disposte in ordine alfabetico; velocemente scorse l’elenco arrivando a Studio Legale. Con un sospiro cliccò e trovato il documento che cercava, lo stampò. Stava per chiudere e uscire quando una cartella attirò la sua attenzione: Devianze. Sicuramente concerneva le svariate forme di patologie. Perché non era nella cartella pazienti? Doveva uscire. Aveva quello che cercava; perché l’incertezza, la tentazione di aprire la cartella?
Non resistette. Lo fece e rimase sconcertata dalle immagini sadomaso; non c’erano didascalie o date, solo immagini in sequenza, seguite poi da un video; per alcuni secondi chiuse gli occhi, li riaprì: l’uomo nudo che si stava scopando una virago era suo marito, mentre una seconda donna in tenuta nera e mascherina lo fustigava con violenza, il tutto sonorizzato da gemiti e schiocchi.
Sconvolta, Gea chiuse cartella, computer e si precipitò fuori dalla stanza, chiuse a chiave. Nella fretta si era dimenticata il documento stampato. Lo recuperò e crollò sul divano con gli occhi sbarrati e la mente vuota.
Al ritorno del marito, Gea non era riuscita a parlargli né a guardarlo negli occhi. Lui aveva capito, lui sapeva.
̶ E così hai voluto vedere. Lo sai che posso denunciarti per violazione della privacy dei miei pazienti. E lo farò se parli ad anima viva di quello che hai
illegalmente guardato. Vedo il disprezzo nei tuoi occhi; sei solo una piccola, limitata borghesuccia. Se vuoi andartene, fallo pure, non ti fermerò e troverai tu una spiegazione accettabile per i nostri figli.
E lei aveva chiesto la separazione causando costernazione tra famigliari e amici che non capivano. I figli avevano posto domande, tanti perché. Dando loro risposte evasive li aveva resi diffidenti e lontani.
Non c’erano state aperte accuse, ma lei era considerata la sfascia famiglia, lei era colpevole. Solo poche amiche le erano rimaste accanto senza chiedere, recriminare; la dolce Serena cercava o creava occasioni per fala uscire dal suo isolamento. La mostra di oggi, le aveva promesso, avrebbe avuto un effetto catartico.
La contrada la accolse nel fluire multicolore di visitatori e dipinti. Sotto i portici, sui marciapiedi, i passanti si riempivano gli occhi di nature morte, volti, paesaggi, cattedrali scomposte dalla fantasia o trasfigurate dal sogno.
Serena le venne incontro sorridendo. Lei era là a rappresentare Gleb, il pittore russo, il creatore del pellegrino: una figura ascetica con cappello e violino che compariva in molti dei suoi dipinti; in altri acquarelli, il pellegrino si sdoppiava in due volti, maschile e femminile, in una tormentata ricerca d’umanità globale.
“Un afflusso incredibile,” disse Serena abbracciandola, “sono felice per Gleb, gli scriveremo”.
“Un ottimo lancio per la personale;” commentò Gea. “Gleb afferma che il suo pellegrino traccia il percorso dell’uomo verso l’uomo, un’apertura al mondo. Io vedo tortuosità e sento lamenti scaturire dal suo violino.”
Serena rise poi la afferrò per mano. “Le tortuosità sono in te, vedrai che le elimineremo. Seguimi. Ti porterò nel verde.”
“Nel verde?”
“Dipinti di alberi ed erba. Immense piane di tranquillità. Vieni con me.”
Percorsero un centinaio di metri. Raggiunsero uno spiazzo ricoperto di tele di grandi dimensioni: una campagna fremente circondata da colonne secolari.
Gea rimase ipnotizzata dai colori, variegate sfumature di verde creavano un effetto cromatico di un colore che era sempre lo stesso e diverso; movimento e profondità; quei fili si animarono, la trascinarono dentro il fiume d’erba. E si mosse con loro, seguì invisibili anse, direzioni di brezza.
Sommersa da ondate di verde, Gea sentì un grido muto sbattere contro le pareti del cuore. Poi si lasciò andare, trasportare; tuffando la mente in chiazze di smeraldo sentì che in quel mare poteva lavare ogni pensiero e, forse, trovare un nuovo approdo.
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