Racconto di Ferdinando Martini

 

O fossero stanchi di aver giuocato troppo a moscacieca o veramente avessero voglia di leggere, fatto sta che quella sera i ragazzi presero ognuno un libro e se ne andarono in un angolo remoto del giardino. Subito che furono accoccolati sull’erba, Carlo che era il più grande e il più prepotente e che aveva preso da poco l’esame di quarta elementare, aprì la sua brava storia romana e alla Mariuccia che aveva un anno meno di lui:

— Siamo rimasti – disse – a Spurio Cassio.

— Chi era? domandò la Nina.

— Zitta – mormorò Topolino – sarà un brutto gigante di quelli che fanno male a’ bambini che poi viene la fata bianca…

Ma la Nina non fu persuasa: e alzatasi e messe le mani sul libro che Carlo teneva aperto sopra le ginocchia, ridomandò:

— È vero che Spu… questo che hai nominato, era un gigante di quelli…

— Chetati, seccatrice.

— Me l’ha detto Topolino.

— Topolino è un seccatore anche lui, conchiuse Carlo; e prima che la Nina avesse tempo di replicare cominciò a leggere:

«Spurio Cassio era il personaggio più insigne del tempo suo»…

— Che vuol dire insigne? — interruppe Topolino.

— Se non lo sai — rispose Michele, un altro de’ grandi, cercalo sul vocabolario.

— Io non ce l’ho il vocabolario.

— Insigne, insigne… Come si fa, gridò Carlo, a non sapere quel che vuol dire insigne? vuol dire alto, generoso.

— Forte, ricco, brava persona — ribadì Michele.

— Senti, senti, osservò spalancando gli occhi la Nina, quante cose vuol dire!

— Costui, — continuò Carlo, — destò le ire della propria casa.

— Dice casta — osservò la Mariuccia che teneva dietro cogli occhi alla lettura.

— O casa o casta, è la stessa; proponendo la legge che fu detta legge agraria…

— No, smetti, questa non è divertente, — osservò Topolino, — non si capisce nulla. Tutte parolacce…

— Ma che parolacce: se non le capisci è colpa tua.

— Questo poi no — gridò la Mariuccia. — Topolino ha ragione: se è un libro che lo dobbiamo leggere noi, bisognerebbe che ci mettessero delle parole che le intendiamo, o se no bisognerebbe ce le spiegassero. La Nina e Topolino incoraggiati da quell’uscita che la Mariuccia aveva fatta, mettendosi tanto di mani sui fianchi, gridarono in coro:

— Questa no! questa no! Una novella!

— Quella del gatto stivalato!

— Quella dei quattro maghi e del pastore!

— Ma che novella, s’alzò a dire Michele — voi altri non sognate altro che novelle. C’era una volta un re…

— Che aveva tre figliuole — continuò Carlo.

— La più piccina si chiamava Rosetta, aggiunse la Mariuccia. Poi tutte e tre insieme strascicando le parole:

— E era bella come un occhio di sole…

La Nina e Topolino capirono la canzonatura: e senza fiatare e combinandosi in uno stesso pensiero s’alzarono, presero i loro libri e fecero per andarsene.

— Ecco subito i permalosi! guardateli lì, se non si fa a modo loro, subito se ne vanno. Dove andate, si può sapere?

E Topolino con un dito fra’ denti e guardando cogli occhi fissi Michele che l’interrogava:

— Via, — rispose.

— Via, — confermò la Nina.

— A far che?

— A leggere da noi.

— Da noi.

— Vadano, — disse la Mariuccia, facendo una reverenza.

La Nina e Topolino non se lo fecero dire due volte: e infilarono il viale abbracciati, portando seco i loro libri di novelle dov’erano raccontate le avventure di Poghettino e i portenti dell’Uccellino blu. Ma il piacere di leggere que’ racconti, che, tanto li avevano letti e riletti, dovevano oramai sapere a memoria, non appariva loro come un piacere completo. In fondo, in fondo sarebbero stati volentieri anche loro coi più grandi; desiderio che traluceva in una lacrimina ond’erano inumiditi gli occhi di Topolino e nell’aria di imbroncimento che al viso della Nina davano le ciglia aggrottate e le labbra sporgenti.

Quando il babbo, che dal terrazzo gli aveva visti andar via cogli altri, dallo stesso luogo li scorse tornare a quel modo:

— Che c’è? Che è stato? Vi siete leticati secondo il solito?

— Carlo ci canzona.

— La Mariuccia ci fa le reverenze.

Subito appena udirono pronunziata l’accusa, gli accusati in tre salti furono dirimpetto al giudice, ossia al babbo.

— Non è vero, disse Carlo, io volevo leggere la storia romana e loro non vogliono sentire che novelle.

— No — replicò singhiozzando Topolino — io sto a sentire tutto… ma io certe parole… e poi lui non spiega… e oggi c’era uno Spu… Spu… che… Io anche le bestie mi divertono… se avessi un bel libro di bestie…

— Ah! sicuro — interruppe Michele — si leggerebbe anche noi.

— Bene! Vi comprerò il libro delle bestie.

— No senti — disse la Mariuccia — un libro si legge presto e poi quando s’è letto una volta o due si sa a mente e non si guarda più. Compraci… Sai, babbo quelle bimbe americane che erano ai bagni con noi l’anno passato? Sai, loro ogni settimana avevano dal postino un libro. No un libro…

— Un giornale?

— Sì un giornale…

— Ah! già…

— Oh! tu avessi visto, babbo mio, com’era bello!

— Oh — gridarono tutti in coro i ragazzi — com’era bello.

— Senti, — seguitò la Mariuccia — c’erano tante figure e tante cose da leggere: in una pagina c’era una novella e in un’altra raccontavano quel che fanno certi animali e in un’altra una cosa di storia…

— E le vite de’ fanciulli celebri.

— E tante poesie carine da impararsi a mente.

— E la descrizione di certe fabbriche ove fanno i mobili, gli aghi.

— E tanti viaggi in Africa, in Asia.

— C’era fino il teatro dei burattini — soggiunse Topolino.

— Ma che burattini! — replicò Carlo.

— Sì, sì i burattini. Me ne ricordo. C’era una figurina. d’un teatrino con tanti bambini.

— Ha ragione Topolino.

— Ah! com’era bello.

E tutti in coro:

— Compraci quello, babbo, compraci quello…

— Figliuoli miei, quello è impossibile ve lo compri…

— Perché?

— Perché in Italia non c’è…

— Perché non lo fanno?

— Perché perché… — conchiuse il babbo — il perché non lo so nemmeno io… Andate siate buoni e se codesti libri non gl’intendete o li sapete a memoria, ve ne comprerò degli altri.

In un’altra occasione quella promessa avrebbe messo di molto buon umore i ragazzi: ma quel giorno non fece loro né caldo né freddo. Ormai la Mariuccia aveva ridestato nelle menti loro il ricordo del bel giornale americano veduto ai bagni, e il desiderio di averlo tanto più vivo quanto era più difficile l’appagarlo.

E intanto il babbo rimuginava le domande ultime dei bambini. — Perché non c’è? Perché non lo fanno? — E aggiunse del suo: Perché quel che si fa per i bambini in America, in Inghilterra, in Francia, non s’ha da fare in Italia?

Tante volte si fece queste interrogazioni, che alla fine giudicò utile di rispondere non colle parole ma co’ fatti.

E la risposta, ragazzi miei, eccola qui.

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