Racconto di Poul Anderson
Poul William Anderson nasce nel 1926 a Bristol, in Pennsylvania. E’ stato uno scrittore statunitense, autore di romanzi di fantascienza.
La notte sussurrò il messaggio, un messaggio che viaggiò per miglia e miglia di plaghe deserte, trasportato dal vento, diffuso dal fruscio dei licheni semisenzienti e degli alberi nani, mormorato da una all’altra di quelle creaturine che si annidavano nei crepacci, nelle caverne, nelle dune ombrose. Un messaggio che non era fatto di parole, ma che era una pulsazione di paura che riecheggiò nel cervello di Kreega e il messaggio carico di monito diceva: Sono tornati in caccia. Kreega provò un brivido sotto un’improvvisa folata di vento.
La notte era enorme attorno a lui, sopra di lui, dalla tetra massa di quelle colline amare alle lucenti costellazioni che roteavano a migliaia di anni luce sopra di lui. Tremebondo sondò il vuoto con le sue percezioni, sintonizzandosi sulla steppa e sul vento e su quelle piccole cose che scavavano gallerie sotto i suoi piedi, lasciando che fosse la notte a parlare per lui. Solo. Solo. Non c’era un altro marziano nel raggio di cento miglia. Solo il vuoto. Solo i minuscoli animaletti e le sterpaglie tremanti e il triste, sottile ansito del vento. Il grido senza voce dei morenti viaggiò di pianta in pianta attraverso le macchie di vegetazione, riecheggiato dalle pulsazioni di terrore degli animali e riflesso sonoramente dalle colline. Ed essi si raggomitolarono, si raggrinzirono e si annerirono mentre il razzo li inondava della morte luminescente e le loro vene, i loro nervi avvizziti, gridavano il loro grido di dolore alle stelle.
Kreega si rannicchiò contro uno scheletrico spuntone. I suoi occhi erano come delle lune gialle nelle tenebre, freddi di odio e di terrore e in essi vi si poteva leggere la decisione che stava lentamente maturando. Con espressione tetra, giudicò che la morte veniva seminata in un raggio dal diametro di dieci miglia. E lui era intrappolato proprio dentro di esso e presto il cacciatore sarebbe venuto a cercarlo. Alzò lo sguardo verso le stelle che brillavano indifferenti e tutto il suo corpo fu percorso da un lungo fremito. Poi sedette e cominciò a pensare.
***
Tutto era cominciato qualche giorno prima nell’ufficio privato del commerciante Wisby. – Sono venuto su Marte – disse Riordan – per procurami un civetto. Wisby in tanti anni aveva ormai imparato il valore di una faccia perfettamente impassibile, da giocatore di poker, quindi scrutò l’uomo da sopra il bordo degli occhiali, cercando di valutarlo. Anche in un buco dimenticato dal Signore come Port Armstrong, chiunque aveva sentito parlare di Riordan. Erede di una ditta di spedizioni del valore di un milione di dollariche lui stesso aveva trasformato in un gigante tentacolare presente in tutto il Sistema Solare, Riordan aveva anche fama di grande cacciatore. Aveva preso prede dappertutto, dai draghi di fuoco di Mercurio, ai mostri striscia-ghiaccio di Plutone, con l’unica eccezione di un marziano, naturalmente. Quella particolare caccia, infatti, era ormai proibita.
Riordan si spaparanzò sulla sedia. Era un uomo ancora giovane, grosso, forte e spietato che faceva rimpicciolire quella stanza così disordinata con la sola sua presenza e la forza che sembrava sprigionare. I suoi freddi occhi verdi soggiogarono il commerciante.
– È illegale, lo sapete bene – gli disse Wisby. – E se vi prendono, sono vent’anni di galera.
– Bah! Il Commissario per Marte si trova su Ares, dall’altra parte del pianeta. Se ci diamo subito da fare, chi verrà mai a saperlo? – Riordan ingollò il suo drink. – Mi rendo benissimo conto che fra un altro anno o giù di lì avranno talmente stretto i freni che la caccia sarà assolutamente impossibile. Questa insomma è l’ultima occasione di potersi aggiudicare un civetto. Ed è per questo che sono qui. Wisby esitò, guardando fuori dalla finestra. Port Armstrong non era altro che un ammasso polveroso di cupole, collegate tra di loro da tunnel, disposte su un immenso deserto di sabbia rossa che si stendeva fino all’orizzonte. Un terrestre munito di tuta pressurizzata e di casco trasparente stava camminando per la strada e contro una parete ciondolavano un paio di marziani. Per il resto niente… una monotonia silenziosa e mortale che covava sotto un sole sempre più piccolo. La vita su Marte non era particolarmente piacevole per un essere umano. – Voi non vi siete lasciato prendere da tutto quell’amore per i civetti che ha corrotto la Terra? – chiese Riordan con sprezzo.
– Oh, no! – esclamò Wisby. – Io li tengo al loro posto a casa mia. Ma i tempi stanno cambiando. Non c’è nulla da fare.
– C’è stato un tempo in cui erano schiavi – gli ricordò Riordan. – Adesso ci sono quelle vecchie beghine della Terra che gli vogliono dare perfino il voto! – sbuffò con indignazione.
– Sicuro, i tempi stanno cambiando – ripeté Wisby in tono più tranquillo.
– Quando i primi umani atterrarono su Marte un centinaio di anni fa, la Terra era appena passata attraverso gli orrori delle Guerre degli Emisferi. Le peggiori che si fossero mai conosciute. Per poco tutte le vecchie idee di libertà ed eguaglianza non andarono a pallino.
La gente era diventata dura e sospettosa… ed era necessario che lo fosse, se voleva sopravvivere. Così non era in grado di fraternizzare con i marziani, o comunque vogliate chiamarli. Non riusciva assolutamente a considerarli nulla di più che animali intelligenti. E i marziani si rivelarono degli schiavi veramente utili… Avevano bisogno di pochissimo cibo, calore e ossigeno. Potevano perfino sopravvivere per un quarto d’ora o giù di lì senza neanche respirare. E i marziani selvatici potevano offrire anche una bellissima diversione sportiva… Erano una preda intelligente che poteva spesso riuscire anche a sfuggire e qualche volta era perfino in grado di uccidere il cacciatore.
– Lo so – disse Riordan. – È per questo che voglio dare la caccia a un marziano. Non c’è nessun divertimento se anche la selvaggina non ha una possibilità di difesa.
– Ma adesso è diverso – continuò Riordan. – La Terra ha conosciuto un lungo periodo di pace. Prevale la sinistra moderata e naturalmente una delle sue prime riforme è stata di porre fine alla schiavitù dei marziani.
Riordan imprecò. Il rimpatrio forzato dei marziani che lavoravano sulle sue astronavi gli era costato una fortuna.
– Sentite, io non ho tempo per le discussioni accademiche – disse. – Se voi potete organizzarmi una caccia a un marziano, sarete adeguatamente ricompensato.
– Quanto? – chiese Wisby. Contrattarono un po’ prima di stabilire una cifra. Riordan aveva portato con sé delle armi e una piccola scialuppa a razzo, ma Wisby avrebbe dovuto fornire del materiale radioattivo, un «falco» e un cane selvatico. Poi bisognava anche pagarlo per il rischio di una causa legale, ma questo non era molto. Il totale tuttavia arrivava alle stelle.
– Bene! – esclamò Riordan. – E adesso dove trovo il mio marziano? – Con una mano indicò i due che ciondolavano per la strada. – Intendete prendere uno di quelli e lasciarlo libero nel deserto?
Questa volta fu Wisby ad essere sprezzante. – Uno di quelli? Ah! Quelli sono marziani di città! Un abitante di una qualsiasi città della Terra vi offrirebbe una partita più emozionante! I marziani non sembravano nulla di speciale. Erano alti solo un metro e venti circa e si reggevano su delle gambette magre dai piedi ad artiglio e le braccia che terminavano con mani ossute munite di solo quattro dita erano viscose. Avevano il petto ampio e profondo ma la cintura ridicolmente stretta. Erano vivipari, a sangue caldo e allattavano i propri piccoli, ma avevano la pelle coperta di piume. Le teste, rotonde e dal becco a gancio, con grossi occhi ambrati e ciuffi di piume sulle orecchie, rivelavano chiaramente la ragione per cui erano stati chiamati «civetti». Indossavano solo delle cinture munite di tasche e portavano dei coltelli inguainati; perfino le forze liberali della Terra non erano pronte a concedere loro attrezzi ed armi moderni. C’erano ancora troppi vecchi rancori insoddisfatti.
– I marziani sono sempre stati dei bravi combattenti – affermò Riordan. – Ai vecchi tempi hanno cancellato dalla faccia del pianeta più di un insediamento di terrestri.
– Quelli selvatici – ammise Wisby. – Ma non questi. Questi sono solo degli stupidi operai che dipendono dalla nostra civiltà quanto noi. Ma a voi serve un vero marziano di vecchio stampo e io so dove posso trovarvelo. Spiegò una carta geografica sulla scrivania. – Ecco qui, sulle Colline di Hraefn, a circa cento miglia da qui. Questi marziani hanno una vita molto lunga, probabilmente circa due secoli, e questo Kreega c’era già quando sono atterrati i primi terrestri. A quei tempi ha guidato parecchie incursioni di marziani, ma da quando c’è stata l’amnistia generale e la pace, è vissuto laggiù da solo in una delle vecchie torri in rovina. Un vero guerriero d’altri tempi, un guerriero che odia a morte i terrestri. Di tanto in tanto viene qui per scambiare pelli e minerali, così un po’ lo conosco. – Gli occhi di Wisby ebbero un lampo selvaggio. – Ma farete un piacere a noi tutti se eliminerete quell’arrogante bastardo. Quando viene qui, sembra che sia lui il padrone. E potete stare certo che vi offrirà una caccia emozionante. Non rimpiangerete i vostri soldi. La grossa testa scura di Riordan annuì. L’uomo aveva un uccello e un cane selvatico. Questo era male. Se ne fosse stato sprovvisto, Kreega sarebbe riuscito a seminarlo in quel labirinto di caverne, canyon e macchie di arbusti… Ma il cane sarebbe riuscito a seguire il suo odore e l’uccello avrebbe potuto individuarlo dall’alto.
A rendere ancora peggiori le cose, l’uomo era sceso vicino alla torre di Kreega, là dove erano custodite tutte le armi, e adesso lui si trovava tagliato fuori dalla torre, disarmato e solo, e poteva contare solo sullo scarso aiuto che gli poteva offrire la vita del deserto. A meno che non fosse riuscito a ritornare in qualche modo nella torre… Ma nel frattempo doveva pensare a restare vivo. Si sedette in una caverna e abbassò lo sguardo su un paesaggio tormentato di sabbia, arbusti e rocce scavate dal vento che si stendeva per qualche miglio fino al punto in cui brillava il metallo del razzo che era atterrato. L’uomo era solo un minuscolo puntino in quel deserto dall’aria limpida, un insetto solitario che strisciava sotto un cielo azzurrino. In quella atmosfera estremamente rarefatta, le stelle brillavano perfino di giorno e la luce del sole, pallida e debole si versava sulle rocce color ocra scuro e rosso ruggine, sopra i piccoli cespugli spinosi e impolverati e i bassi alberi contorti e la sabbia che il vento spingeva debolmente tra di essi. Quello era l’Equatore di Marte! Ma solo o no, quell’uomo aveva un fucile che poteva seminare la morte fin sulla linea dell’orizzonte e poi aveva anche i suoi animali e a bordo del razzo avrebbe anche avuto una radio per chiamare i suoi simili. Inoltre la morte luminescente li chiudeva in un cerchio magico che Kreega non avrebbe potuto attraversare senza richiamare su di sé una morte ancora peggiore di quella che avrebbe avuto dal fucile… O forse c’era una morte ancora peggiore? Venir abbattuto dal mostro il quale avrebbe riportato a casa la sua pelle imbalsamata per esibirla come trofeo agli idioti? Il vecchio orgoglio indomabile della sua razza colpì Kreega con la violenza di una frustata. Ormai lui non chiedeva poi molto alla vita… Cercava solo la solitudine della sua torre per potersi dedicare a quelle lunghe meditazioni di marziano e creare i piccoli e squisiti oggetti artigianali che tanto amava; la compagnia dei suoi simili nella Stagione del Raduno, la grave e antica cerimonia che gli offriva l’acre felicità e la possibilità di generare e allevare figli; di tanto in tanto un viaggio fino alla colonia terrestre per procurarsi oggetti di metallo e il vino, le uniche cose di qualche valore che gli invasori avevano portato su Marte; un vago sogno di poter emancipare la sua gente in modo che potesse ergersi da uguale di fronte a tutto l’universo. Non chiedeva altro. E adesso volevano portargli via anche queste cose! Lanciò una rauca imprecazione all’indirizzo del terrestre e riprese a scalpellare un frammento di pietra per farne la punta di una lancia, che chissà se gli sarebbe poi servita. La sterpaglia arida frusciò in segno di allarme, i minuscoli animali nascosti ovunque mugolarono per il terrore e il deserto gli gridò che il mostro stava avanzando verso la sua caverna. Ma non era necessario mettersi a fuggire ora.
***
Riordan spruzzò l’isotopo di metallo pesante attorno alla vecchia torre per un raggio di cinque miglia. Lo fece di notte, giusto per evitare di venire sorpreso da qualche pattuglia di sorveglianza. Ma una volta atterrato, era al sicuro, in quanto avrebbe potuto sempre sostenere di essere impegnato in qualche esplorazione o di dare la caccia ai saltatori o comunque di non fare nulla di illegale. La radioattività aveva un mezzo ciclo vitale di quattro giorni circa, il che significava che sarebbe stato pericoloso avvicinarsi per circa tre settimane… o come minimo due. Ma sarebbe stata sufficiente, una volta che il marziano fosse stato imprigionato in quell’area così ristretta. Non c’era pericolo che tentasse di attraversare la barriera. I civetti avevano ormai imparato cosa voleva dire la radioattività, l’avevano imparato a loro spese quando avevano combattuto contro gli umani e la loro vista, che si stendeva fino all’ultravioletto, la rendeva loro visibile grazie alla luminescenza, per non parlare poi degli altri sensi assolutamente non umani di cui disponevano. No, Kreega avrebbe cercato di nascondersi e magari di combattere e alla fine si sarebbe trovato con le spalle al muro e nessuna via di scampo. Tuttavia non c’era ragione di correre rischi.
Riordan caricò il segnatempo della radio di bordo. Se non fosse tornato a spegnerlo entro due settimane, questo segnatempo avrebbe emesso un segnale che Wisby avrebbe captato e lui sarebbe stato salvato.
Controllò l’equipaggiamento. Aveva una tuta pressurizzata studiata appositamente per le condizioni di Marte, con una piccola pompa azionata da un raggio energetico proveniente dal razzo per comprimere l’atmosfera in modo da rendergliela respirabile. La stessa unità era in grado di recuperare dal suo fiato acqua sufficiente a permettergli di non caricarsi di un peso eccessivo di provviste per parecchi giorni, considerato anche che la gravità marziana era ridotta rispetto a quella della Terra. Come arma aveva un fucile calibro 45 costruito per funzionare appunto nell’aria marziana e che era abbastanza potente per lo scopo che si era prefisso. E naturalmente era anche munito di bussola, binocolo e sacco a pelo. Un equipaggiamento piuttosto leggero in definitiva, ma cui non voleva rinunciare.
Come ultima misura di emergenza aveva una piccola bombola di sospensione e che poteva venire immessa nell’aria che respirava aprendo una valvola. Il gas non provocava esattamente un’animazione sospesa, ma paralizzava i nervi efferenti e rallentava in generale il metabolismo a un punto tale per cui un uomo poteva sopravvivere per diverse settimane con la sola aria che aveva nei polmoni. Era un gas utilissimo in chirurgia e aveva salvato la vita di più di un esploratore interplanetario quando c’era stato qualche guasto ai respiratori.
Ma Riordan non si aspettava di doverlo usare. Certo sperava di non doverlo fare. Sarebbe stato davvero tedioso rimanere completamente sveglio per giorni e giorni in attesa che il segnale automatico chiamasse Wisby. Riordan scese dal razzo e lo chiuse. Non c’era pericolo che il civetto vi penetrasse nel frattempo in quanto ci sarebbe voluta della tordenite per incrinare lo scafo. Con un fischio chiamò i suoi animali. Queste erano delle bestie indigene addomesticate da tempo dai marziani e più tardi dagli uomini. Il cane selvatico era simile a un agile lupo, ma aveva il petto assai sviluppato ed era coperto di penne, ottimo per la caccia quanto un qualsiasi segugio della terra. Il «falco» invece, assomigliava di meno alla sua controparte terrestre: anch’esso era un uccello da preda, ma in quella tenue atmosfera aveva bisogno di un’apertura alare di quasi due metri per sollevare un corpicino da nulla. Riordan era ben contento di come erano stati addestrati. Il cane abbaiò, fu una nota bassa e tremolante che sarebbe stata quasi inaudibile in quell’aria così rarefatta se il casco di plastica del cacciatore non avesse avuto inclusi microfoni e amplificatori. Il segugio si mise a girare in tondo annusando, mentre il falco si levò in volo in quel cielo alieno.
Riordan non guardò attentamente la torre, un mozzicone di costruzione diroccata in cima a una collina rossastra, disumana e grottesca. Un tempo, forse diecimila anni fa, i marziani avevano avuta una loro civiltà, città e agricoltura e una tecnologia neolitica, ma assecondando la loro tradizione avevano raggiunto poi una unione o una simbiosi con la vita selvaggia del pianeta e avevano abbandonato quegli ausilii metallici in quanto non necessari. Riordan sbuffò. Il cane abbaiò di nuovo. Il suono sembrò rimanere sospeso nell’aria fredda e silenziosa con effetto soprannaturale, per poi dileguarsi tra le rocce e morire con riluttanza in quel silenzio senza fine. Ma era il suono di una tromba, la sfida orgogliosa a un mondo che era divenuto ormai vecchio… Fatevi da parte, tutti, ecco che arriva il conquistatore!
Improvvisamente l’animale balzò in avanti. Aveva colto un odore. Riordan si incamminò di buon passo, agevolato dalla bassa gravità. I suoi occhi brillavano come frammenti di ghiaccio verde. La caccia aveva avuto inizio! Nei polmoni di Kreega ci fu un ansito convulso e doloroso. Ora sentiva le gambe deboli e pesanti e i tonfi del suo cuore sembravano scuotergli. Ma continuò a correre, mentre dietro di lui si levava un terribile clamore e il tonfo delle zampe del cane si faceva più vicino.
Kreega si mise a fuggire, saltando, correndo, sgattaiolando di roccia in roccia, scivolando giù per pendii argillosi e inoltrandosi in mezzo a macchie di alberi. Ma il segugio era sempre dietro di lui e il falco si librava sulla sua testa. Erano bastati un giorno e una notte per ridurlo in quella situazione, costringendolo a scappare come un pazzo tallonato dalla morte. Non aveva mai immaginato che un umano potesse muoversi così velocemente e con tanta costanza. Il deserto si batteva dalla sua parte; le piante con la loro straordinaria vita cieca che nessun terrestre avrebbe mai compreso erano dalla sua parte. I loro rami spinosi si dipartivano quando lui vi si gettava in mezzo a capofitto, per poi tornare a sfregare i fianchi del cane e rallentarne l’avanzata… ma non poteva lo stesso fermarne lo slancio brutale. Il cane si limitava a sfondare l’ostacolo di quelle dita adunche ma senza forza e abbaiava sulle peste del marziano.
L’umano procedeva più a fatica un buon miglio più indietro, ma non mostrava segni di stanchezza. Ma Kreega continuava a correre. Doveva raggiungere il cornicione dell’altura prima che il cacciatore potesse inquadrarlo nel mirino del fucile… Doveva farlo, ad ogni costo, e il cane ormai ringhiava a meno di un metro di distanza. Risalì di corsa il lungo pendio. Il falco piombò giù in picchiata, cercando di colpirlo alla testa col becco e gli artigli. Kreega vibrò un colpo al falco con la lancia e si riparò dietro un albero, poi l’albero fece scattare un ramo su cui il segugio si schiantò rimbalzando indietro e riempiendo l’aria di guaiti. Il marziano si lanciò sull’orlo dell’altura che dall’altra parte cadeva a picco fino in fondo al canyon, centocinquanta metri di rocce ferrose su cui spirava il vento. Al di là delle rocce il sole che stava calando lo abbacinò. Kreega si fermò solo un attimo, perfettamente inquadrato contro lo sfondo del cielo, un bersaglio perfetto se il cacciatore fosse sbucato in tempo, poi saltò al di là.
Kreega aveva sperato che il cane si sarebbe lanciato a capofitto in avanti, ma l’animale frenò giusto in tempo. Kreega rotolò giù per il pendio, aggrappandosi con gli artigli ad ogni spaccatura e tremando mentre la roccia resa friabile dall’età si sgretolava sotto le sue dita. Il falco gli sfrecciò vicino, cercando di colpirlo e gracchiando per richiamare il padrone.
Kreega non poteva combatterlo, ora che aveva le dita delle mani e dei piedi impegnate a impedirgli di cadere nel vuoto, ma… Scivolò lungo il pendio del precipizio e finì in un groviglio di arbusti e i suoi nervi lanciarono il richiamo dell’antica simbiosi. Il falco si lanciò di nuovo all’attacco e Kreega rimase immobile, rigido come se fosse morto, finché il volatile non lanciò un acuto strillo di trionfo e non gli si posò sulla spalla per accingersi a beccargli gli occhi. Poi i viticci scattarono. Non erano forti, ma le loro spine si affondarono nella carne del falco e questi non poté più liberarsi. Kreega continuò la faticosa discesa in fondo al canyon mentre i viticci laceravano in due il volatile.
Riordan apparve in cima all’altura, enorme contro lo sfondo del cielo che stava abbuiandosi. Sparò una volta, due e i proiettili ronzarono orribilmente vicino a Kreega, ma il marziano riuscì a sparire nelle ombre che salivano dal basso. L’uomo azionò l’amplificatore del microfono e la sua voce rimbombò mostruosamente nella notte, un rimbombo di tuono quale il pianeta Marte ormai da tempo arido non aveva più sentito da millenni: – Un punto per te! Ma non è ancora finita! E io ti troverò!
Il sole calò sotto l’orizzonte e la notte scese come un manto. Nel buio, Kreega udì l’uomo ridere. Le antiche rocce tremarono sotto quella risata. Riordan cominciava ad essere stanco del lungo inseguimento e l’insufficienza della scorta di ossigeno cominciava a preoccuparlo. Desiderava fumare, mangiare, un pasto caldo, ma nulla di tutto questo era possibile. Oh, pazienza, sarebbe tornato ad apprezzare i lussi della vita ancora di più quando sarebbe tornato a casa… con la pelle del marziano!
Sogghignò mentre si accampava per la notte. Il piccoletto si stava rivelando una preda coi fiocchi, questo era certo. Ormai era da due giorni che resisteva, in una piccola zona circolare dal diametro di dieci miglia e aveva perfino ucciso il falco. Ma Riordan ormai lo incalzava così da vicino che il cane poteva seguire le sue peste, perché su Marte non c’erano corsi d’acqua che potevano interrompere una pista. Così non c’era nulla da fare. Il cacciatore rimase sdraiato a osservare quella splendida notte di stelle. Fra poco avrebbe cominciato a far freddo, un freddo intenso e spietato, ma il suo sacco a pelo era bene isolato e lo avrebbe tenuto al caldo con la sola energia solare immagazzinata durante il giorno dalle cellule
Gergen. Marte era buio di notte, le sue lune offrivano poca luce… Phobos era solo un ciottolo celeste e Deimos una stella luminosa. Buio, freddo e vuoto. Il cane selvatico si era scavato una buca nella sabbia lì vicino, ma se appena il marziano si fosse avvicinato al campo avrebbe subito dato l’allarme. Non che questo fosse probabile… anche lui avrebbe dovuto trovare un posto in cui ripararsi se non voleva morire congelato.
I cespugli e gli alberi e gli animaletti furtivi del deserto sussurrarono una parola che non poté sentire e si raccontarono l’un l’altro sulle ali del vento la storia del marziano che si teneva al caldo col lavoro, ma lui non riuscì a capire quella lingua che non era una lingua. Mezzo addormentato, Riordan ripensò alle passate cacce. Le grandi prede della Terra, i leoni e le tigri e gli elefanti e i bufali e le pecore sulle alte vette inondate di sole delle Montagne Rocciose. Le foreste pioviginose di Venere e il cupo ruggito del mostro delle paludi dalle molte gambe che aveva sradicato gli alberi nella sua folle corsa verso il punto in cui si trovava lui. Il rullio di primitivi tamburi in una notte calda e umida, il canto dei battitori che danzavano accanto al fuoco… Le scarpinate sulle pianure infuocate di Mercurio sotto un sole enorme che cercava di forzare la misera tuta isolante che lo riparava… La grandiosità e la desolazione delle paludi di gas liquido di Nettuno e l’enorme essere cieco che lo rincorreva urlando…
Ma questa era la caccia più strana e solitaria e forse più pericolosa di tutte quante e appunto per questo, anche la migliore. Non provava sentimenti di cattiveria verso il marziano, anzi rispettava il coraggio di quel piccolo essere così come aveva rispettato il valore degli altri animali che aveva abbattuto. Qualunque fosse il trofeo che avrebbe riportato a casa dopo quella caccia, sarebbe stato un trofeo ben meritato. Il fatto che il suo successo avrebbe dovuto essere trattato con discrezione non aveva importanza, perché lui non cacciava tanto per la gloria, anche se doveva ammettere che la pubblicità non gli dava certo fastidio, quanto per amore. I suoi antenati si erano sempre battuti sotto un nome o l’altro… vichinghi, crociati, mercenari, ribelli, patrioti, qualunque fosse la dizione comune al momento. Lui aveva la lotta nel sangue e in questi tempi degeneri c’erano ben pochi tipi di lotta, anzirestava solo la caccia. Be’, domani… lentamente il sonno lo colse.
***
Si svegliò all’alba, un’alba breve e grigia, fece una rapida colazione e con un fischio fece scattare in piedi il cane. Le nari gli si dilatarono per l’eccitazione e provò un’ubriacatura che lo galvanizzò come una canzone di guerra. Oggi… sì, forse oggi era il gran giorno! Per scendere nel canyon dovettero fare un giro di deviazione e il cane dovette andare avanti e indietro per quasi un’ora prima di riuscire a ritrovare la pista. Poi si udì di nuovo il grido profondo e si rimisero in marcia… più lentamente adesso, perché la pista di roccia era assai disagevole. Il sole si levò alto mentre scarpinavano lungo l’antico letto del fiume. La sua luce pallida e fredda inondava gli acuminati spuntoni di roccia e dipingeva di fantastici colori le alture, le masse argillose e la sabbia e tutta quanta la rovina di tante ere geologiche. La sterpaglia bassa e arida scricchiolava sotto i suoi piedi e si contorceva e crepitava in segno di impotente protesta. Per il resto tutto era ancora silenzio, un silenzio profondo e teso, quasi in attesa. Il cane infranse la quiete lanciando un guaito e si tuffò avanti. Aveva trovato le peste! Riordan si gettò dietro di lui calpestando i folti arbusti, ansimando e imprecando e sogghignando per l’eccitazione.
Improvvisamente le sterpaglie cedettero e con un ululato di terrore il cane scivolò giù lungo la parete della fossa che era rimasta fino a quel momento nascosta. Riordan si buttò in avanti con rapidità felina, pancia a terra, e con una mano riuscì appena in tempo ad afferrare l’animale per la coda. Per poco lo strappo non trascinò anche lui nella fossa. Passò un braccio attorno a un cespuglio che gli sfiorava il casco e tirò su di peso l’animale.
Poi, tremando, scrutò la trappola. Era stata ben costruita… era profonda circa sette metri e aveva le pareti lisce e strette, almeno come potevano esserlo delle pareti scavate nella sabbia, e il foro era stato abilmente coperto di sterpaglie. Sul fondo erano piantate tre lame di selce dalla punta minacciosa. Se solo fosse stato un’ombra meno svelto nelle sue reazioni, avrebbe perso il cane e magari anche la vita. Si guardò attorno scoprendo i denti in un ringhio da lupo. Il civetto doveva aver lavorato tutta notte per costruire quella trappola. Quindi non poteva essere lontano… e doveva essere molto stanco… Come in risposta ai suoi pensieri, un masso piombò giù da una piccola altura. Era un oggetto mostruoso, ma su Marte un oggetto cade con metà dell’accelerazione che avrebbe sulla Terra e Riordan saltò a fianco mentre il masso si schiantava proprio nel punto in cui c’era lui un momento prima.
– Ci sei! – gridò e si lanciò su per l’altura. Per un istante sulla cima comparve una forma grigia che gli lanciò contro una lancia. Riordan sparò un colpo e la sagoma svanì. La lancia schizzò via dalla tuta quando ne urtò il tessuto resistente e Riordan si arrampicò su per il precipizio fino a raggiungere un cornicione in cima. Il marziano non era più visibile, ma c’era una leggera stria rossa che si snodava tra le rocce. L’ho preso, per Dio! Il cane fu più lento a risalire gli schisti d’argilla e quando arrivò in cima aveva le zampe che gli sanguinavano. Riordan imprecò contro di lui e si rimisero in caccia. Seguirono le tracce per uno o due miglia poi la pista finì. Riordan si guardò attorno cercando di vedere attraverso l’intrico di alberi e di rami che bloccavano la vista in ogni direzione. Era chiaro che il civetto si era ritirato fin lì per salire in cima a una di quelle rocce da cui poteva lanciarsi con un balzo verso qualche altro punto. Ma dove?
L’uomo aveva il viso e il corpo madidi di sudore e non poteva tergerseli per cui provava un prurito intollerabile. I polmoni gli dolevano per lo sforzo che avevano fatto con la scarsità d’aria offertagli dal respiratore. Ma scoppiò lo stesso in una risata soddisfatta. Che caccia!
Oh, che caccia!
***
Kreega era sdraiato all’ombra di un’alta roccia e provò un brivido di stanchezza. Al di là della zona d’ombra, la luce del sole danzava e quel riverbero per lui era accecante, intollerabile, caldo e crudele e assetato di sangue, duro e luminoso come il metallo dei conquistatori. Era stato un errore perdere delle ore a montare quella trappola mentre avrebbe potuto riposare. Infatti non aveva funzionato e questo avrebbe anche potuto aspettarselo. Ed ora aveva fame e la sete lo divorava come una cosa viva. E aveva ancora gli inseguitori alle calcagna. Non erano più molto lontani ormai. Era tutto il giorno che gli tenevano dietro e non era mai riuscito a distanziarli per più di mezz’ora di cammino.
Niente riposo, solo una caccia senza quartiere in un aspro deserto di pietra e di sabbia e adesso non gli restava che aspettare lo scontro finale esausto dal peso di quella fatica. La ferita al fianco gli bruciava. Non era profonda, ma gli era costata sangue e dolore e i pochi minuti di sonno che altrimenti sarebbe riuscito a fare. Per un momento il guerriero Kreega non fu più e nel silenzio del deserto si udirono i singhiozzi di un bambino solo e spaventato. Ma perché non mi lasciano in pace?
Si udì uno stormire di sterpi. In uno dei crepacci un corridore della sabbia lanciò il suo richiamo. Si stavano avvicinando. Kreega si arrampicò stancamente in cima alla roccia e si acquattò. Era tornato indietro sulle proprie tracce, ora secondo ogni logica gli inseguitori avrebbero dovuto passargli oltre per puntare verso la sua torre. La poteva vedere bene da lì, una costruzione gialla diroccata, straziata dai venti di millenni.
C’era stato solo il tempo di correre dentro per afferrare un arco, delle frecce e un’ascia.
Delle ben misere armi, però, perché le frecce non sarebbero potute penetrare attraverso la robusta tuta del terrestre quando c’era solo la debole mano di un marziano a tendere l’arco e perfino la testa d’acciaio dell’ascia era una ben povera cosa. Ma era tutto ciò che aveva assieme ai suoi piccoli alleati di un deserto che combatteva solo per difendere la propria solitudine. Gli schiavi rimpatriati gli avevano raccontato della potenza della Terra. Le loro macchine rombanti rompevano il silenzio dei loro deserti, sfiguravano il volto tranquillo della loro luna e facevano tremare i pianeti con la furia insensata di una energia che in fondo non aveva nessun significato. Loro erano i conquistatori e a loro non era mai venuto in mente che una pace antica e fatta di silenzi valeva la pena di essere rispettata.
Bene… Inserì una freccia sulla corda e si rannicchiò sotto il sole cocente e silenzioso, in attesa. Il primo ad arrivare fu il cane che guaiva e ululava. Kreega tirò indietro la corda tendendo l’arco al massimo della potenza. Ma l’umano doveva avvicinarsi di più… Ed ecco che poi arrivò di corsa, rimbalzando da una roccia all’altra con fucile in mano e gli occhi irrequieti che gli brillavano di una luce verde, diretto verso la morte. Kreega si girò lentamente sul fianco. La bestia aveva già superato la roccia e il terrestre era quasi di sotto.
La corda dell’arco cantò e con un brivido di selvaggia esultanza, Kreega vide la freccia che trapassava il cane. La bestia fece un salto nell’aria e poi prese a rotolare spasmodicamente su se stessa ululando e cercando di mordere la cosa che aveva conficcata nel fianco. Poi con la rapidità di un lampo, la grigia sagoma del marziano si lanciò giù dalla roccia addosso all’umano. Se solo fosse riuscito a spezzargli il casco con l’ascia… Riuscì a colpire l’uomo e caddero a terra entrambi. Il marziano vibrò dei colpi all’impazzata, ma l’ascia scivolò via sulla plastica del casco… non c’era spazio per poter far roteare il braccio e colpire con forza. Riordan lanciò un ruggito e vibrò un pugno. Kreega rotolò indietro con una sensazione di nausea. Riordan cercò di colpirlo con una pallottola. Kreega si voltò e fuggì.
L’uomo si mise in posizione di tiro con un ginocchio a terra e prese con cura di mira la forma grigia che sfrecciava su per il più vicino pendio. Un piccolo serpente del deserto si arrampicò su per la gamba dell’uomo e gli si avvolse attorno al polso. La sua forza per quanto piccola fu sufficiente a far deviare il colpo e la pallottola fischiò accanto all’orecchio di Kreega proprio mentre svaniva in una spaccatura della roccia.
Il marziano sentì la debole agonia e il dolore della morte del serpente mentre l’uomo se lo strappava di dosso e lo schiacciava sotto il tacco dello stivale. Un po’ più tardi udì un’esplosione soffocata tra le colline. L’uomo aveva preso dell’esplosivo dal suo razzo e aveva fatto saltare la torre. Kreega aveva perso l’ascia e l’arco. Ora era completamente disarmato e non aveva neppure un posto in cui riparare per l’ultima resistenza. E il cacciatore non si sarebbe certo arreso. Anche senza gli animali avrebbe continuato a dargli la caccia, più lentamente forse, ma con la stessa pervicacia di prima. Kreega crollò su una roccia piatta. Il suo corpo fu scosso da singhiozzi senza lacrime e il vento del tramonto pianse con lui. Poi alzò lo sguardo verso il sole che scendeva in una immensità di colori rossi e gialli. Lunghe ombre scivolavano sulla terra, pace e tranquillità per un breve istante prima che si abbattesse sul deserto il freddo tenace della notte. Da qualche parte risuonò tra le alture corrose dai venti, il trillo dolce di un corridore della sabbia e le sterpaglie cominciarono a parlare, un sussurro continuo e generale che parlava un antico linguaggio senza parole.
Il deserto, il pianeta col suo vento e la sua sabbia sotto le stelle alte e fredde, la vasta distesa aperta fatta di silenzio e isolamento e un destino che non era quello dell’uomo, gli parlarono. La grande, immensa unicità della vita di Marte, così unita contro la crudezza dell’ambiente, gli rimescolò il sangue. E mentre il sole calava e le stelle sbucavano in tutto il loro gelido splendore, Kreega riprese a pensare. Non odiava il suo persecutore, ma la durezza di Marte era in lui. Lui combatteva la guerra di tutto ciò che era vecchio e primitivo e perso nei suoi sogni contro il dissacratore alieno. Quella guerra era antica e spietata come la vita e ogni battaglia vinta o perduta significava qualcosa anche se nessuno ne avrebbe mai sentito parlare.
Tu non combatti da solo, gli sussurrava il deserto. Tu combatti per tutto Marte e noi siamo con te. Qualcosa si mosse nelle tenebre, una minuscola forma tiepida che gli corse su per la mano, un piccolo esserino pennuto simile a un topo che scavava le sue tane sotto la sabbia e viveva una breve vita di fuggiasco ed era lieto di quel modo di vivere. Ma tutto ciò faceva parte di un mondo e Marte non conosceva la pietà.
Tuttavia c’era della tenerezza nel cuore di Kreega e la sua risposta fu un dolce sussurro nella lingua che non era una lingua fatta di parole: Tu farai questo per me? Tu lo farai, fratellino? Riordan era troppo stanco per poter dormire bene. Così era rimasto sveglio a lungo, pensando, e questo non era bene per un uomo che si trova solo tra le colline di Marte.
Così adesso anche il cane selvatico era morto. Ma non aveva importanza, il civetto non sarebbe riuscito a sfuggire. Ma in qualche modo il fatto gli fece comprendere l’immensità, l’età e l’isolamento del deserto. Il deserto sussurrava attorno a lui. Le sterpaglie stormivano e qualcosa uggiolava nelle tenebre e il vento soffiava tristemente sopra le alture debolmente illuminate ed era come se tutto quel mondo avesse una voce e mormorasse contro di lui e lo minacciasse nella notte. Così si chiese vagamente se l’uomo sarebbe mai riuscito a sottomettere Marte e se la razza umana non aveva forse incontrato un avversario che era troppo grande per lei.
Ma questo era una sciocchezza. Marte era un pianeta vecchio, esausto e spoglio che sognava solo di poter sprofondare lentamente nel dolce oblio della morte. Ora i passi pesanti degli uomini, le loro grida e il rombo delle loro astronavi lo stavano risvegliando ma per un nuovo destino, quello dell’uomo. Quando Ares aveva innalzato le sue aspre guglie sopra le colline della Sirte, dove erano allora gli antichi dei di Marte? Faceva freddo e il freddo si intensificava man mano che la notte progrediva. Le stelle erano fuochi di ghiaccio, dei diamanti che luccicavano in una tenebra cristallina. Di tanto in tanto si sentiva un debole scoppiettio trasmesso dalla terra quando una roccia o un ramo si spaccavano in due. Il vento si quietò, i rumori sì congelarono in un silenzio di morte e ci furono solo i raggi limpidi e freddi delle stelle che inondavano il deserto.
Di nuovo si agitò qualcosa e Riordan si svegliò da un sonno irrequieto in tempo per vedere un piccolo esserino che sgattaiolava verso di lui. D’istinto portò la mano verso il fucile accanto al sacco a pelo, ma poi scoppiò in una rauca risata. Era solo un topo del deserto, ma ciò gli dimostrava che il marziano non aveva nessuna possibilità di sorprenderlo mentre riposava. Ma non rise una seconda volta. Quel suono era sembrato troppo lugubre nel chiuso del casco. Quando sorse la prima alba scialba, si alzò. Ora voleva farla finita con quella caccia. Si sentiva sporco e aveva la barba lunga ed era nauseato dalle reazioni di emergenza che aveva dovuto ingollare e si sentiva anche tutto indolenzito e stanco per lo sforzo. Ora che era privo di cane, l’aveva dovuto abbattere purtroppo, l’inseguimento sarebbe stato più lento, ma non voleva tornare a Port Armstrong per procurarsene un altro.
No, che il diavolo si portasse quel dannato marziano, fra poco avrebbe avuta la sua pelle! Dopo aver fatto colazione ed essersi mosso si sentì meglio. Con occhio ben addestrato cercò la pista del marziano. C’erano sabbia e sterpaglie dappertutto, perfino le rocce mostravano segni di erosione dovuta ad esse. Il civetto non avrebbe potuto nascondere perfettamente le sue tracce… se ci avesse provato, sarebbe stato troppo rallentato. Riordan prese a camminare di buona lena.
Il mezzogiorno lo sorprese in una zona più alta, aspre colline dagli acuminati spuntoni di roccia che si levavano per qualche metro verso il cielo e lui continuò per la strada, fiducioso nella propria abilità per sfinire la preda. Sulla Terra aveva cacciato il cervo, un giorno dopo l’altro finché il cuore dell’animale era scoppiato e la bestia aveva atteso il suo avvicinarsi negli ultimi sussurri della morte. La pista ora appariva chiara e fresca e Riordan si tese tutto, conscio che il marziano non poteva essere lontano ormai.
Era troppo chiara, però! Che fosse un’altra esca per un’altra trappola? Imbracciò il fucile e procedette con maggiori cautele. Ma no, non poteva averne avuto il
tempo… Riordan si arrampicò in cima a un alto costone e scrutò quel torvo e fantastico paesaggio. Vicino alla linea dell’orizzonte vide una striscia nerastra, il confine della sua barriera radioattiva. Il marziano non avrebbe potuto procedere oltre e se fosse tornato sui suoi passi, Riordan avrebbe avuto la possibilità di individuarlo agevolmente. Accese il microfono e la sua voce ruggì nel silenzio: – Vieni fuori, civetto! Sono deciso a prenderti e tanto vale che tu esca subito e la faccia finita!
L’eco si impadronì della sua voce e la portò qua e là tra i picchi spogli, vibrante sotto la gran volta del cielo. – Vieni fuori, vieni fuori, vieni fuori… Il marziano parve sbucare dal nulla, un grigio fantasma che sorse da un cumulo di pietre e rimase ritto in piedi a meno di sette metri di distanza. Per un istante lo choc di quella vista improvvisa fu troppo forte e Riordan rimase a bocca spalancata, incredulo. Kreega non si mosse, e restò in attesa, la sua immagine vibrava nell’aria come quella di un miraggio. Poi l’uomo lanciò un grido e sollevò il fucile. Ma ancora il marziano rimase immobile come se fosse intagliato nella pietra grigia e con un brivido di delusione. Riordan pensò che forse, dopo tutto, aveva deciso di darsi così la morte da solo. Be’, in fondo era stata una buona caccia. – Addio! – sussurrò Riordan e premette il grilletto. Ma dal momento che il topolino del deserto era strisciato nella canna, il fucile esplose.
Riordan udì il rombo e vide la canna spaccarsi come una banana troppo matura. Non era rimasto ferito, ma mentre lui faceva un passo indietro, ancora scosso per l’incidente, Kreega si lanciò verso di lui. Il marziano era alto un metro e venti, magro e privo di armi, ma urtò il terrestre con la violenza di un piccolo tornado. Le sue gambe si strinsero attorno alla cintura dell’uomo e le sue mani cercarono il tubo dell’aria. Sotto l’impatto, Riordan cadde e ringhiò ferocemente mentre le sue mani stringevano la gola sottile del marziano. Kreega cercò inutilmente di colpirlo col becco ed entrambi rotolarono a terra in una nube di polvere. Le sterpaglie presero a sfringuellare eccitate. Riordan cercò di spezzare il collo di Kreega, ma il marziano si sottrasse alla mossa per poi tornare all’attacco.
Con un sussulto di terrore, l’uomo udì il sibilo dell’aria che fuggiva quando il becco e le dita di Kreega riuscirono alla fine a strappare il tubo dell’aria dal punto di inserzione. Una valvola automatica si chiuse di scatto, ma purtroppo la pompa ora non gli forniva più aria… Riordan imprecò e riportò le mani alla gola del marziano e quando ci riuscì non le mosse più da lì, continuando a stringere in modo che, nonostante i sussulti e i contorcimenti, Kreega. non riuscisse a liberarsi. Allora Riordan sorrise stancamente e continuò a tenere le mani attorno alla gola del marziano. Dopo cinque minuti o giù di lì, Kreega smise di contorcersi e rimase immobile. Riordan continuò a stringergli la gola per altri cinque minuti, tanto per essere sicuro, poi lo lasciò andare e con le mani cercò freneticamente di raggiungere la pompa dietro le spalle. L’aria nella tuta era ormai calda e fetida. E lui non riusciva a raggiungere la pompa dietro le spalle per collegarla col tubo di alimentazione.
Una progettazione infelice, pensò vagamente. Ma dopo tutto queste tute stagne non sono state progettate come armature. Guardò la forma slanciata e silenziosa del marziano. Un debole venticello gli scompigliava le piume. Che avversario era stato quel piccoletto! Sarebbe stato il suo pezzo più prezioso sulla terra, là nella stanza dei trofei. Ma adesso… Srotolò il sacco a pelo e lo distese accuratamente al suolo. Non ce l’avrebbe mai fatta a raggiungere in tempo il razzo con la poca aria che gli restava, così era necessario immettere la sospensina nella tuta stagna. Ma se non voleva che il freddo della notte gli congelasse il sangue doveva prima entrare nel sacco a pelo. Vi strisciò dentro, chiuse accuratamente i risvolti e aprì la valvola del serbatoio di sospensina. Una fortuna averla avuta con sé, ma del resto un buon cacciatore deve sempre pensare a tutto. Naturalmente si sarebbe annoiato terribilmente nell’attesa, fin tanto che Wisby avesse ricevuto il segnale tra una decina di giorni e fosse venuto quindi a cercarlo, ma ce l’avrebbe fatta. Sarebbe stata un’esperienza indimenticabile. E in quell’aria così asciutta la pelle del marziano si sarebbe conservata perfettamente. Sentì che la paralisi lo raggiungeva, il cuore che si indeboliva, i polmoni che rallentavano il ritmo. I suoi sensi e la mente, però, erano ancora vivi e si accorse a poco a poco che il completo rilassamento aveva anche degli aspetti spiacevoli. Oh, be’, aveva vinto. Aveva ucciso la preda più difficile con le sue stesse mani.
Un istante dopo Kreega si rizzò a sedere. Si toccò con cautela. Gli parve di avere una costola rotta, ma poco male, sarebbe guarita. Cosa più importante… era vivo. Era rimasto soffocato per dieci minuti buoni, ma un marziano può durare anche quindici minuti senz’aria. Aprì il sacco a pelo e prese le chiavi di Riordan, poi tornò lentamente con passo zoppicante verso il razzo. Un giorno o due di prove gli insegnarono come funzionava. Ora avrebbe potuto raggiungere i suoi simili vicino alla Sirte e adesso che avevano una macchina terrestre e armi terrestri da copiare… Ma prima c’era un’altra faccenda di cui occuparsi. Kreega non odiava Riordan, ma Marte è un mondo aspro. Tornò indietro verso il terrestre e lo trascinò in una caverna, nascondendolo in modo che nessuna squadra di ricerca umana sarebbe mai riuscita a trovarlo. Per un po’ fissò gli occhi dell’umano e vi vide riflessa un’espressione di silenzioso orrore.
Lentamente, in un inglese incerto e zoppicante, Kreega gli disse: – Per tutti coloro che hai ucciso e per essere uno straniero su un mondo che non ti vuole, fino al giorno in cui Marte sarà libero, io ti abbandono qui da solo. Prima di andarsene definitivamente, prese diversi contenitori d’ossigeno dal razzo e li collegò alla riserva d’aria dell’uomo. Ora Riordan ne aveva parecchia per un uomo in animazione sospesa. Abbastanza per tenerlo vivo per almeno mille anni.
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