Racconto di Enrico Franceschini
Da – Archivio Repubblica.it > 18 07 1992
Mosca – Il ristorante dell’Unione Scrittori era da sempre considerato il migliore di Mosca. “Non solo”, scrive Mikhail Bulgakov, che ne dà una descrizione impareggiabile nel suo romanzo Il Maestro e Margherita, “perché su ogni tavolino c’era una lampada coperta da uno scialle, non solo perché lì non poteva penetrare il primo venuto, ma soprattutto perché, per la qualità dei piatti, (…) batteva e strabatteva qualsiasi ristorante di Mosca, e questi piatti venivano serviti a prezzi più che convenienti, per nulla onerosi”. Al ristorante degli scrittori si mangia ancora piuttosto bene. Certo, le lampade coperte da uno scialle sono sparite. Certo, manca l’abbondanza su cui si soffermava Bulgakov, “le uova-in-cocotte con una purée di funghi in tazza”, “i filettini di tordo coi tartufi”, “le quaglie alla genovese”, “il piatto di soupe printanière in una dorata chiazza sulla lindissima tovaglia”, “le beccacce, i beccaccini, i tordi, le starne, a seconda della stagione, le pernici, le accegge”. Ma anche oggi i clienti, appena entrati, trovano la tavola già ricoperta di antipasti, come si usa in Russia: caviale rosso e caviale nero, burro, cetrioli salati, pomodori, spezie, salumi, formaggi, aringhe con patate, “tartaletki”, ovvero tartine con paté di fegato. E, naturalmente, bottiglie di vodka, vino rosso della Moldavia, cognac armeno, “sciampanskoje” di Crimea. La sala da pranzo principale, che una volta, prima della rivoluzione d’ Ottobre, era la sede di una loggia massonica, è piena come al solito. Ma qualcosa è cambiato anche qui, dopo la rivoluzione politica ed economica che ha distrutto l’Urss. “Si guardi intorno”, dice il distinto signore che mi ha dato appuntamento in quello che era il tempio gastronomico dell’intellighenzija russa. Indica con la forchetta gli avventori che mangiano, brindano, ridono, e conclude mestamente: “Di scrittori, al ristorante dell’Unione Scrittori, non ne è rimasto nemmeno uno”. O meglio: oggi ce n’ è uno, il nostro ospite. Il quale tuttavia precisa, con un sussulto di umiliazione, che pranza al “suo” ristorante solo perché il conto lo pagherà un giornalista straniero: i prezzi non sono più “convenienti” come all’ epoca di Bulgakov, o come nell’ era molto più recente in cui gli scrittori dell’Urss potevano abbuffarsi per pochi rubli, in santa pace, serviti da camerieri cortesi. “Qualcuno si ricorda di me, in Italia”, continua lo scrittore seduto davanti a noi, pregando di non usare il suo nome per questo articolo. “Forse mi inviteranno a un convegno, a una fiera, a un seminario, se ignorano come me la passo, se credono che io possa ancora rappresentare degnamente la letteratura del mio paese”. L’ angoscia del mondo letterario L’ angoscia del nostro anonimo invitato è assai diffusa nel mondo letterario della Russia post-comunista. La riforma per introdurre un’economia di modello capitalista ha sconvolto, tra le altre cose, anche la vita dei diecimila e più scrittori che prosperavano serenamente nella vecchia Unione Sovietica. Il prezzo della carta è salito alle stelle. Le case editrici hanno perso le loro ricche sovvenzioni statali, cosicché ora molte sono sull’ orlo della bancarotta e tutte sono costrette a tagliare radicalmente il numero delle opere da pubblicare. I mensili letterari come Novyj Mir, attesi con ansia e divorati da milioni di lettori negli anni della perestrojka, chiudono per mancanza di carta, di nuovi temi, e di lettori. Gli scrittori, pagati mediamente 400 rubli per 24 cartelle dattiloscritte, si sono ritrovati poveri dalla mattina alla sera. I più fortunati pubblicano con i primi editori privati, che pagano meglio di quelli di Stato: ma anche loro sono alle prese con un mercato ristretto, con costi in perenne ascesa, e con una concorrenza esasperata. Perciò, stanno sul sicuro: pubblicano quasi esclusivamente romanzi gialli, fantascienza, western, erotismo, pornografia, manuali “fai da te”. E, soprattutto, pubblicano opere di autori stranieri. Era una tendenza già cominciata prima della fine dell’Urss e del comunismo: tra i dieci “best seller” del 1991, solo due sono russi, Valentin Pikul e Aleksandr Solgenitsyn (gli altri: Agatha Christie, Dumas, Simenon, Burroughs, Stout, Margaret Mitchell e simili). Ma adesso per i russi va ancora peggio: persino i libri di Solgenitsyn giacciono invenduti. “Con i prezzi che corrono, se la gente deve scegliere tra un libro e una bistecca, compra la bistecca”, spiega un commesso della Dom Knighi, la libreria più grande di Mosca. “E se vuole per forza comprare un libro, sceglie Tom Clancy, non certo Tolstoj, per non parlare di Lenin o della ‘ letteratura uzbekat’ , che abbiamo mandato al non parlare di Lenin o della ‘ letteratura uzbekat’, che abbiamo mandato al macero già da un pezzo”. Per oltre 70 anni, l’Urss ha condotto una campagna brutale per lobotomizzare una delle culture più fertili del mondo, e metterla al servizio del “realismo socialista”. Chi non accettava l’ideologia del Cremlino veniva censurato, umiliato, condannato all’ esilio o al carcere duro. Opere accolte all’ estero come capolavori, quali Lolita, Il dottor Zivago o Arcipelago Gulag, circolavano furtivamente in Urss sotto forma di “samizdat”, e rischiavi la prigione solo per possederne una copia. In compenso, il regime, attraverso il suo braccio letterario, l’Unione degli Scrittori, garantiva alte tirature (che andassero vendute o restassero a impoverirsi sugli scaffali di una libreria, non aveva importanza), prestigio, denaro, dacie, vacanze lussuose sul Mar Nero e viaggi all’ estero, agli scrittori disposti a diffondere il suo credo. “Sì, erano bei tempi”, ammette Lev Novogrudskij, autore di favole per bambini. “Passavo tre mesi, ogni estate, nei sanatori dell’Unione Scrittori, in Crimea, a Jurmala sul Baltico, o nella zona delle acque minerali nel Caucaso. Avevo la mia stanza. Nessuno mi disturbava. Non avevo responsabilità di fronte a un “mercato”, né preoccupazioni. Le mie tirature erano decise da un comitato. Vivevo nel comfort più assoluto, in compagnia di altri scrittori e intellettuali come me. Sì, era una bella vita”. Ora la “bella vita” è finita. L’ Unione Scrittori è nel caos, come il resto del paese, contesa da opposte fazioni di letterati che ne rivendicano la leadership. A febbraio, un gruppo di scrittori filocomunisti, chiamati “bondarzvy” dal nome del loro capo Jurij Bondarev, ha bruciato un fantoccio con le sembianze del poeta Evghenij Evtushenko nel giardino dell’Unione, sull’ ulitza Vorovskogo, dove si trova anche il ristorante. Poi Evtushenko ha vittoriosamente guidato una rivolta contro la vecchia dirigenza dell’Unione, accusata di avere appoggiato il tentato golpe dell’agosto ‘ 91. Quindi il potere è stato preso da Jurij Chernichenko, ex-direttore della Literaturnaja Gazeta, che ha accusato Evtushenko di essere un “ignobile reazionario”. E dopo l’ultimo, sovraeccitato congresso, la lotta continua. La crisi non è solo economica. Lo scrittore era sempre stato, in Russia, una figura centrale nella vita politica, sociale, artistica della nazione, che fosse un sostenitore del regime, o un dissidente. Ma oggi non ha più identità. Gli ex-comunisti o neocomunisti non riescono più a pubblicare, sono senza soldi e senza mestiere: Anatolij Pristavkin racconta di avere visto suoi vecchi colleghi chiedere l’elemosina nel sottopassaggio di Piazza Pushkin. Qualcuno cerca di arrangiarsi, vendendo i propri libri, stampati in proprio, sulle bancarelle dell’Arbat, in mezzo agli ambulanti che espongono matrioske e bandiere rosse offerte come souvenir. Qualcun altro protesta: un appello firmato da Vassilij Aksionov e Andrej Voznessenskij (che vivono all’ estero, e guadagnano molto meglio degli scrittori rimasti in patria) afferma che i prezzi liberi stanno uccidendo mensili letterari e case editrici. Si chiedono a Boris Eltsin sovvenzioni pubbliche, altrimenti “la grande letteratura russa morirà di un male che si chiama ‘ economia di mercato’ “. Si dice che il capitalismo “rischia di diventare la tomba della cultura russa”, che “la privatizzazione della cultura è la privatizzazione dell’anima”. Il più duro è Evtushenko: “Di questo passo”, dice, “il Bolscioj diventerà un music-hall. Le nostre arti, e la poesia in particolare, stavano meglio quando erano controllate dallo Stato, anche se tutti sanno che il partito comunista utilizzava la censura per controllarle. Ma ora si è passati all’ indifferenza. Lo Stato ha smesso di censurare l’arte, ma ha cominciato a ignorarla”. Con i dollari l’onore non si compra Non tutti condividono il suo parere. “Oggigiorno la vita è difficile per professionisti, insegnanti, operai, perché dovrebbe essere diverso per gli scrittori?” commenta Vitalij Babenko, un piccolo editore privato. E aggiunge: “Letteratura e cultura non sono in pericolo. Gli scrittori veri continueranno a scrivere senza badare a queste polemiche. La sfrenata passione per libri più ‘ commerciali’ è passeggera. E in fondo è una passione naturale, dopo settant’ anni in cui queste cose erano proibite, e i gusti del pubblico erano decisi da qualcuno chiuso nei corridoi del Cremlino”. Alla Latynina, uno dei più autorevoli critici letterari, è cautamente ottimista. È vero, la nostra letteratura sta vivendo un momento difficile. E il lettore sta perdendo interesse per i libri. Ma, in parte, si tratta di un fenomeno generale, che non riguarda soltanto la Russia. Gli autori di talento esistono, e non hanno smesso di scrivere: col tempo produrranno opere di valore. La letteratura russa non può improvvisamente morire”. Di queste cose si parla con animazione fra le betulle di Peredelkino, il villaggio alle porte di Mosca dove gli scrittori sovietici abitavano in dacie eleganti e sontuose, ricevute quasi gratis dallo Stato sovietico; e dove abitano ancora quelli che la dacia non l’hanno venduta o affittata, in dollari, a qualche giornalista o diplomatico straniero. Sono, per lo più, discorsi pieni di amarezza: quest’ anno, niente vacanze sul Mar Nero, il mio libro non uscirà, e ci ho lavorato tre anni, alla fiera di Francoforte non ci vado, non mi invitano più. Ma c’ è anche chi sostiene che lo “scrittore russo” non è morto, e non si è nemmeno addormentato, citando i successi di un esule come Viktor Erofeev, il cui romanzo La bella di Mosca è diventato un best-seller internazionale; o le pagine piene di vitalità e inventiva prodotte da autori giovani e meno giovani, come Vjaceslav Pecuch, Vladimir Krupin, Fazil Iskander, Tatjana Tolstaja e tanti altri, raccolti qualche anno fa da Bompiani nel volume Narratori Russi Contemporanei a cura di Elena Kostjukovic. “Oggi finalmente sappiamo tutto sui nostri letterati: le menzogne meschine per il ‘ bene della causa’, le denunce, la corruzione, la tendenza mafiosa, la brama di arraffare i previlegi e non cederli mai indietro, e poi macchine, dacie, case, viaggi all’ estero, valuta”, commenta Feliks Svetov, uno scrittore imprigionato per anni nel Gulag. “Sì, è meglio vivere in un bell’ appartamento che in uno brutto. È meglio avere una macchina per scrivere che una matita. Ma il vero scrittore non lavora meglio solo perché, attraverso la menzogna e l’ingiustizia, ha avuto una casa, una dacia, un’auto e la possibilità di girare il mondo gratis. E adesso non scriverà meglio solo perché gli onorari gli saranno pagati non più in rubli, ma in dollari. Con i dollari potrà comprare tutto, tranne il suo onore di letterato”.
Scrivi un commento