Racconto di Virginia Tedeschi-Treves (Cordelia)
Fiorenzo era un bel giovane, dalle forme scultorie, dai lineamenti del volto regolari e gli occhi grandi ed espressivi. Fin da bambino egli s‘era sentito sorgere nell’anima un vero culto per la bellezza, e sua aspirazione costante fu di circondarsi delle cose più belle che esistevano sulla terra.
Il suo era un sogno, che non sapeva come avrebbe potuto realizzare, ma quel giorno in cui si trovò assoluto padrone di sé, incominciò a pensare a cose impossibili ed inverosimili, lasciando libero campo alla sua fantasia fervida e sfrenata; tanto che stanco e spossato, si sdraiò all‘ombra d‘una pianta e s’addormentò. Ad un certo punto gli parve d‘esser trasportato in alto in alto, come se avesse le ali; finché si trovò innanzi ad un globo di fuoco che gli abbagliò la vista: fece uno sforzo per vedere il luogo dove si trovava, ma non potendo sopportare quella luce intensa, dovette chiudere gli occhi; non però così velocemente da non accorgersi che una bella fanciulla gli era vicina e gli serviva da guida.
— Dove sono? – le chiese meravigliato.
— Nel regno del Sole, – rispose con voce dolce dolce la sua compagna, prendendolo per mano.
— Perché mi hai condotto in questo luogo se non posso veder nulla?
— Apri gli occhi adagio per abituarti alla luce sfolgorante, e vedrai cose che ti sorprenderanno, e che nessuno ha veduto mai.
Infatti appena poté sollevare le palpebre uno spettacolo meraviglioso si presentò al di lui sguardo. Sopra immensi scaglioni d’oro, disposti a semicerchio, scoperse una schiera di bellissime donne, come la sua fantasia non ne aveva mai immaginate, e tutte stavano intente ad un lavoro diverso.
Esse erano leggere e trasparenti come l’aria, con movenze così delicate, che pareva sfiorassero appena gli oggetti che toccavano con le candide mani. Fiorenzo interrogò con lo sguardo la fanciulla che gli serviva da guida.
— Sono le fate che presiedono ai destini del mondo, – ella rispose; se vuoi ne faremo in breve la conoscenza.
— È quello che desidero! – esclamò Fiorenzo.
— Lasciati dunque guidare da me, – soggiunse la fanciulla, e sì dicendo lo fece salire su uno scaglione d’oro, e s‘avvicinò ad un gruppo di fate, che colle mani leggere riunivano diversi colori, che si combinavano e scomponevano ad ogni lor movimento, in tutte le sfumature più delicate, poi li porgevano alle loro vicine, le quali formavano dei petali morbidi e finalmente ad altre che li mutavano in una quantità di splendidi fiori.
— Vedi, – gli disse la sua guida, – sono le fate dei fiori, e sono incaricate di formarli, e spargerli sulla terra.
Fiorenzo si soffermò per vedere quello spettacolo, e non sapeva se ammirare più le fate che mandavano sorrisi dagli occhi, dalle labbra, da tutta la persona; o i fiori che uscivano come per incanto dalle loro mani, e si spargevano nel mondo. Intorno a loro c‘era un tappeto di rose, di gigli, di viole; in alto una pioggia di gelsomini, d‘azalee, di gardenie e di mughetti, e ovunque un profumo inebriante, una festa per gli occhi, che faceva rimanere estatici.
— Andiamo, – disse la fanciulla, trascinando Fiorenzo. – Il tempo è breve, e la via è lunga. Ecco le fate degli uccelli, – soggiunse, dopo averlo condotto sopra un altro scaglione.
Fiorenzo si trovò innanzi ad una nuova schiera di fate, più ridenti e più irrequiete di quelle dei fiori, ma anch’esse molto operose ed affaccendate. Erano tutte intente a dipingere penne grandi e piccine a vari colori, poi componevano dei vispi uccelletti, che spargevano nell‘aria, dopo avervi soffiato in gola assieme alla vita, delle note gaie, che si riunivano e si combinavano, formando soavi melodie.
Assieme allo stormo degli uccelli piccini, si vedeva di tratto in tratto volare un‘aquila, un cigno, un pavone e le fate ridevano e cantavano con note gaie e squillanti, tutte le volte che un uccello più perfetto riusciva a spiccare il volo.
Accanto alle fate degli uccelli, trovarono quelle degli insetti, che lavoravano in silenzio, ma colla massima rapidità; erano affaccendate perché nel mondo c‘è bisogno di tanti insetti, che così piccini occupano poco spazio; e di tratto in tratto rapide come il baleno, unite agli scarabei dai riflessi cangianti, si vedevano schiere di farfalle colle ali variopinte e scintillanti, quasi fossero coperte di gemme, volare leggere leggere, scomparire e dileguarsi, seguendo la luce ed i fiori.
— Quanto è bello! – esclamò Fiorenzo che non si stancava mai di ammirare quello spettacolo.
— Il tempo stringe, – gli disse la compagna; – andiamo avanti.
E così, tenendosi per mano, proseguirono la loro via, salendo gli scaglioni d’oro.
Trovarono ancora belle fate dagli occhi soavi, ma non più così allegre come quelle che avevano lasciato indietro. Queste avevano i movimenti calmi, la faccia serena, e la bocca che si apriva soltanto ad un sorriso, ma così dolce, che invitava all’adorazione, e Fiorenzo provava quasi il bisogno di piegare le ginocchia come davanti ad essenze divine.
— Queste sono le fate dell’umanità – gli disse la fanciulla che gli serviva da guida.
Esse erano tanto assorte nel loro lavoro, che raramente alzavano gli occhi. Ognuna formava una parte del corpo umano, quindi si riunivano in cinque o sei, e componevano un essere completo; un bel bambino al quale soffiavano in bocca la vita, poi lo mettevano in una culla di piume, e l’affidavano ad un genietto alato per recarlo sulla terra. E via per l’aria volavano i genietti alati, carichi del loro dolce peso, e ritornavano a prender gli altri bimbi, che le fate fabbricavano sempre senza stancarsi mai. Più lungi c’erano le fate che spargevano nel mondo leoni dalla fulva criniera, cavalli svelti e leggeri, buoi, elefanti dall’andar lento e maestoso, cani, gatti, caprioli, e tutti gli altri animali che sono sparsi nel mondo; poi in un angolo silenzioso, ma illuminate da una luce trasparente, le fate dell’acqua dalle cui mani sgusciavano pesciolini a frotte, e uscivano perle e conchiglie.
Fiorenzo fissava lo sguardo attonito intorno a sé, e:
— Chi sono le fate laggiù nell’ombra, che sembrano più meste delle altre? – chiese alla compagna.
— Esse sono le fate del dolore; quelle più lontane radunano le lagrime dell’umanità, e ne formano i torrenti ed i ruscelli che scendono dai monti; le altre, più vicine a noi, riuniscono i sospiri degli uomini e ne formano i venti e le nubi. Non vedi come già le nubi ci avvolgono e ci sospingono? Noi pure dovremo con esse scendere a terra.
— Restiamo qui – supplicò Fiorenzo. – è così bello!
— Impossibile! Ecco già il vento ne spinge.
Non erano ancora pronunciate dalla fanciulla quelle parole che si sentirono tutti e due spinti da un soffio forte di vento, e trasportati da una nube, che aveva la forma d’un carro immenso, tirato da una schiera di cani barboni. E via vennero trascinati per lo spazio infinito, finché toccarono uno scoglio.
La nube si dileguò come per incanto, e Fiorenzo si svegliò di soprassalto, e con infinito dolore s’accorse, il suo non esser stato altro che un sogno.
Però dopo quel sogno egli sentì centuplicato il culto del bello, e a questo pensò di dedicare tutto sé stesso, anche se ciò dovesse costargli la vita.
Il suo primo pensiero fu di radunare intorno a sé i più bei fiori che sbocciavano sulla terra, tenendosi certo che gli uccelli e le farfalle verrebbero spontaneamente a fare i nidi sugli alberi e a svolazzare tra i fiori.
Dietro la casa c’era un bel bosco con un ruscelletto che scendeva limpido da un colle vicino, e quello doveva essere il posto destinato per rifugiarsi a meditare nelle ore del meriggio e ripararsi dai raggi ardenti del sole. Per godere sempre in ogni stagione lo spettacolo variato della natura, pensò di fabbricare una casa di cristallo, onde avere l’illusione d’essere in mezzo ad un giardino fiorito, sotto la volta del cielo e pure riparato dal freddo. Quante belle ore avrebbe passate in quella sala trasparente, ammirando il cielo stellato, gli indescrivibili tramonti, e i fiori sboccianti nelle ore mattutine! Ma per animare la sua dimora aveva bisogno d’una fata bella, come quelle vedute nel sogno, e per trovarla aveva divisato d’andar a girare per il mondo intero, rapirla e portarla nel suo regno. Poi la vita gli sarebbe trascorsa in un perfetto godimento, studiandosi di scoprire il bello di ogni cosa creata e di appropriarsene come fanno le api col succo dei fiori. La sua mente era ancora immersa in quelle poetiche fantasie, quando si avvicinò una contadina con una ciotola di latte in mano.
— Signore, non prende nulla? – gli disse con umile accento.
Egli le diede un’occhiata, la vide brutta, goffa, colla pelle ruvida bruciata dal sole, e le spalle curve, e rispose bruscamente:
— Che fai qui? Lasciami in pace; vattene.
La fanciulla lasciò cadere la ciotola di latte, che si sparse per terra, e pianse, nascondendo la faccia nel grembiule.
— Che vuoi da me? Chi sei? Perché vieni a turbare i miei sogni?
— Sono una povera contadina – essa rispose, calmandosi, ma ancora con un singulto nella voce. – Vostro padre mi raccolse per carità, e mi incaricò delle faccende di casa, di preparare il cibo e far pascolare le bestie. Speravo di poter continuare a vivere qui, anche ora, che siete voi il padrone, ma capisco che non mi volete, sono tanto brutta! Però mi sento morire al pensiero di dover andarmene lontana pel mondo, io che sono tanto affezionata a questi luoghi, alle bestie che mi conoscono e mi vogliono bene.
Fiorenzo si commosse a quelle parole, comprese che non poteva vivere soltanto di sogni, ma aveva bisogno di una persona semplice ed affezionata che pensasse ai bisogni della vita reale.
— lo ti concedo di restare al mio servizio, ma ad un patto, – le disse.
— Farò tutto quello che mi comanderete.
— Senti – riprese Fiorenzo, – mi terrai in ordine la casa e il giardino, penserai alle bestie, ma non ti farai mai vedere da me.
— Sarà fatta la vostra volontà – rispose rassegnata la fanciulla.
— Come ti chiami? – le chiese Fiorenzo.
— Pervinca.
— Bene, Pervinca. Ancora un momento. Fra pochi giorni partirò, e al mio ritorno voglio trovare piantati nel giardino i fiori più belli dell’universo, e in mezzo ai fiori farai costruire un edifizio di cristallo come questo; – così dicendo le diede il disegno di un chiosco, poi soggiunse: – Ora va a prendere un’altra ciotola di latte, recala in quel capanno di verzura, laggiù nel bosco, dove mi porterai ogni giorno il cibo, e ricordati di non venire mai alla mia presenza se non ti chiamo. Ora puoi andare.
Pervinca se ne andò mogia mogia con le lagrime agli occhi, ma contenta di non abbandonare quei luoghi che l’avevano veduta nascere, e Fiorenzo, annoiato che quel mostriciattolo fosse venuto ad interrompere i suoi sogni, cercò di riafferrare la prima idea, di trasformare la sua dimora e renderla bella e poetica; poi per non trovarsi in mezzo al trambusto degli operai e dei giardinieri che dovevano invaderla per molto tempo, fece sellare il suo cavallo per girare il mondo alla ricerca della bella fata, destinata ad essergli compagna per tutta la vita. E così se ne andò lontano, lontano, cavalcando giorno e notte, soffermandosi quando uno spettacolo bello arrestava la sua attenzione; sempre innanzi, salendo monti e attraversando valli, avido di emozioni o di novità. Dovunque, ritrovava cose degne di ammirazione: ora era una cascata che scendeva rumoreggiante da un alto monte e si frangeva sui sassi; ora erano montagne che parevano tagliare il cielo colle punte aguzze ed irregolari, sempre belle ed imponenti, sia coperte di neri abeti, o ammantate di candida neve. Qualche volta si fermava a riposare sopra un verde prato, dove in pace pascolavano gli armenti, e disteso sull’erba contemplava il cielo, scegliendo coll’occhio le nuvole vaganti che cambiavano aspetto ad ogni soffio di vento, ad ogni nuovo riflesso di luce. Egli sarebbe stato contento di poter fermare per sempre sulla carta o sulla tela quelle fuggevoli visioni d’un istante. Si sentiva artista nell‘anima, ma incapace di dar forma duratura alle sue impressioni. Egli tentò qualche volta di riprodurre le immagini che gli erano apparse allo sguardo, ma scoraggiato di non poter dare che una pallida idea delle cose vedute aveva distrutto l‘opera sua. Intanto andava sempre innanzi, non stancandosi mai di vedere e d‘ammirare: non s’era ancora fermato sopra un paesaggio, che già un altro più bello attirava i suoi sguardi. Era un‘ebbrezza indescrivibile la sua, e avanti avanti, galoppava senza mai stancarsi e senza mai tornare indietro.
Erano passati parecchi mesi, dacché aveva lasciato la sua casa, ma lo scopo del viaggio non era raggiunto perché ancora non gli era apparsa la fata dei suoi sogni.
Un giorno verso l‘ora del tramonto giunse alla riva del mare: una tinta rosso-aranciata colorava il lontano orizzonte, le onde si alzavano e si abbassavano, rifrangendo i raggi del sole morente, prima irradiandosi del colore dell‘iride, poi dileguandosi, spumeggianti sugli scogli.
Fiorenzo si fermò a contemplare quello spettacolo vecchio come il mondo, ma sempre bello e sorprendente. Legò il cavallo ad un albero, e si sedette sopra uno scoglio, seguendo collo sguardo le onde del mare che qualche volta lo spruzzavano, lambendogli i piedi. Il sole intanto tramontava, il cielo si tingeva d‘un colore più intenso, e l‘ombra s‘allargava sul mare.
Quando tutto ad un tratto Fiorenzo vide qualche cosa di vivo ed animato che cullato dalle onde s’andava avvicinando.
Appena poté distinguere più chiaramente, gli apparve come una visione veduta soltanto nei sogni. Una bella donna, col corpo eretto, le chiome sciolte, sfiorando l‘onde colle braccia candide, s‘andava lentamente avvicinando alla riva. I raggi del sole morente le formavano quasi un’aureola luminosa intorno al capo. Appena toccò col piede la spiaggia, scosse la fulva chioma e ne cadde una pioggia di gocce risplendenti che parvero gemme, poi con atto pudico raccolse un velo che le era caduto dalle spalle, e avvoltolo intorno alla bella persona, stette ritta sulla riva guardando il mare ed il sole che spariva per quel giorno sommerso dalle onde.
Quando si volse vide gli occhi di Fiorenzo che la fissavano e fiammeggiavano come carboni ardenti. Essa diede un piccolo grido, avvolse tutta la persona in un candido panneggiamento e si mosse per fuggire.
Fu afferrata dalla mano di Fiorenzo, che balzato in un lampo dallo scoglio la trattenne dicendole:
— Perché fuggi?
Essa lo guardò in faccia, vide che era giovane e bello, non ebbe più timore e rispose:
— Non so!
— Vuoi venire con me? – egli le chiese.
— Dove?
— Nel regno della Bellezza. Nel tuo regno.
— E poi?
— Sarai regina, ed io il tuo schiavo.
— Sono qui di passaggio, – rispose la bella. – Nessun mortale potrebbe trattenermi. Devo seguire il mio destino.
— Fa una sosta nella mia dimora. Che io possa ritrovarvi l‘impronta del tuo passaggio, – supplicò Fiorenzo.
La donna esitò qualche istante poi si decise.
— Ebbene sia fatta la tua volontà; – rispose. – Andiamo.
— Come chiami?
— Chiamami come vuoi.
— Ti chiamerò Dea, – disse Fiorenzo. Vieni.
Sì dicendo la prese tra le braccia e tenendola stretta, salì in groppa al suo cavallo, e andarono via di galoppo per l’aperta campagna, avviandosi in una corsa sfrenata verso casa.
****
Dopo aver viaggiato per molte settimane colla bella compagna, Fiorenzo giunse finalmente alla propria dimora, dove trovò che i suoi ordini erano stati eseguiti, e se ne compiacque.
Il giardino era adorno di mille fiori che mandavano inebrianti profumi; nel mezzo s’ergeva un immenso chiosco di cristallo sul quale svolazzavano gli uccelli più rari e le farfalle dalle ali variopinte.
Fiorenzo condusse Dea nel bosco, la fece sedere sopra un pendio di muschio morbido e profumato per riposarsi. Poi andarono nel capanno di verdura, dove sopra un tavolino adorno di fiori, trovarono il pane, il latte, il miele, il burro, che Pervinca non mancava di preparare tutti i giorni, sempre aspettando il ritorno del padrone.
Dopo l‘aria fresca di quella mattina ed il lungo cammino avevano appetito e gustarono quei cibi semplici, come se fossero squisiti manicaretti. Fiorenzo poi non si saziava mai d’ammirare la sua compagna nella quale scopriva sempre nuove bellezze.
Di tratto in tratto volgeva intorno lo sguardo, e gli pareva che il giardino fosse diventato più bello per la presenza di quella donna, e ch’essa in mezzo a quei fiori acquistasse nuovo splendore.
Stava lunghe ore in ginocchio a contemplarla, e quando essa apriva la bocca ad un sorriso, egli sentiva un gran turbamento in tutta la persona, temendo che una così intensa felicità non potesse durare.
Quello che lo faceva soffrire e guastava la sua gioia, era il timore di perder la bella compagna, ed il mistero da cui era circondata. Egli spesso le chiedeva chi fosse e donde venisse.
— Non lo so, – essa rispondeva. – Pensa che io sia una fata, e preparati a vedermi uno di questi giorni sparire come una visione.
Fiorenzo a quelle parole diventava pallido come un morto, e la supplicava, di non abbandonarlo.
— Devo seguire il mio destino, – essa rispondeva. – ma perché rattristarci? Godiamo quello che ci è concesso, e non pensiamo all‘avvenire.
Fiorenzo voleva almeno rendere eterna l‘immagine della fata che rallegrava in quel momento la sua dimora. La dipingeva sulla tela, la modellava nella creta, in tutti gli atteggiamenti; ma trovava sempre che il ritratto non dava che una pallida idea dell‘originale perfetto.
Le sue mani erano pigre ed impotenti nel poter fermare la fuggevole espressione d‘un pensiero, d‘un movimento. Una volta sola fu più fortunato. Nel giardino c‘era una specie di declivio tutto fiorito di rododendri ed azalee, che formavano un tappeto dalle tinte smaglianti: c‘erano tutte le sfumature del rosa, dal bianco rosato a quello più vivo quasi violaceo; le gradazioni del rosso, dal rubino purpureo al rosso fiammante. Poi fiori violetti, candidi, chiazzati di macchie rosse e rosee, e fiori a mazzi, a corimbi, un lusso di forma, di colore da abbagliare la vista.
In un pomeriggio di primavera Dea s’era sdraiata in mezzo a quei fiori e addormentata col corpo abbandonato sul tappeto fiorito, all’ombra del rododendro. Fiorenzo, appena la vide immobile in quella posa, corse a prendere i pennelli, e procurò di fissarne sulla tela l‘immagine, che riuscì migliore delle altre, soltanto mancava al quadro il bagliore di quegli occhi, che nessun artista avrebbe potuto mai dare perfettamente. Passavano intanto le giornate rapide come se avessero le ali. Essi vivevano quasi in un sogno, senza curarsi del mondo, o pensare all’avvenire. Due volte al giorno trovavano nell’angolo più poetico dei bosco, sulla tavola adorna di fiori, vivande semplici ed appetitose, preparate con tanto intelletto ed amore, che un giorno Dea domandò:
— Chi mai ci prepara tutte queste cose buone?
— Che t’importa? – rispose Fiorenzo – Pensa che ci vengano dal cielo, e siano l‘opera d’una fata benefica.
— È dunque questo un giardino incantato? – chiese Dea con un sospiro guardandosi intorno.
Per quel giorno non parlò più, ma sentì sorgere in sé una grande curiosità di vedere chi fosse la fata che portava quelle saporite vivande.
Volle appagarla, e il giorno appresso, prima dell‘ora del pasto, s‘appostò nel bosco, in modo da non perder di vista la tavola, ove usavano prendere il cibo. Poco dopo vide avanzarsi Pervinca, che trascinava una cesta pesante carica di vivande, e Dea non poté fare a meno di scoppiare in una forte risata, e correre da Fiorenzo dicendo:
— Bella la tua fata! Ne sono proprio gelosa.
E continuò così per un po’di tempo a ridere e a burlarsi della povera Pervinca, alla quale non sfuggì quella scena, e ne riportò un colpo crudele al cuore.
Essa, quando nascosta tra le piante, aveva veduto ritornare dal suo viaggio Fiorenzo accompagnato da Dea, s’era sentita piena d‘ammirazione per la perfetta bellezza della fanciulla, e stava delle ore in estasi a contemplarla, sempre nascosta in modo da non lasciarsi scorgere. Si studiava d‘imitarne le movenze graziose, il modo di vestire, di parlare, di camminare.
Nessun sentimento d’invidia era sorto nel suo cuore semplice e buono; anzi provava per Dea un senso di riconoscenza, perché sapeva rendere il suo amato padrone lieto e contento.
Quel giorno che la vide cogli occhi fissi sulla tavola, proprio nel momento in cui stava per porvi i cibi, s‘era fatta innanzi, nella speranza d‘udire da lei qualche parola gentile. Era così bella, e s’immaginava che dovesse essere anche buona.
Quando invece udì quel riso di scherno e le crudeli parole che disse a Fiorenzo sentì sorgere per la prima volta un sentimento di odio, al punto che avrebbe voluto scagliarsi contro Dea, e vendicarsi. Poi pensò al dolore di Fiorenzo e disse fra sé: “Ho avuto torto a farmi vedere, dovevo aspettare che se ne fosse andata di là; è mio destino stare sempre nascosta; non sono nata per risplendere alla luce del sole come lei.”
E ritornò nel suo stambugio, sfogando il risentimento dell’animo con uno scoppio di pianto. Poi ridivenne calma e serena, e cercò di dimenticare I ‘affronto sofferto.
I due giovani continuavano intanto la loro vita lieta e spensierata. Dea si adornava ad ogni stagione di nuovi fiori, e diventava sempre più seducente. I gigli erano succeduti alle rose, le ortensie e gli anemoni ai gigli, e Fiorenzo era continuamente in adorazione di lei.
Fu una vera festa quando colsero assieme i grappoli d‘oro dai pergolati, e ne gustarono l’ambrosia. Poi salutarono riconoscenti gli ultimi raggi autunnali, che spargevano la porpora e l‘oro sui crisantemi sboccianti.
Quando il sole divenne pallido e meno ardente, Dea si fece mesta e taciturna; incominciò a vagare sotto le piante che si spogliavano delle loro fronde, calpestava le foglie secche, ingiallite, trascinandole dietro le pieghe della veste con un monotono fruscio. Cercava la solitudine e usava ogni sorta di strattagemmi per tener lontano Fiorenzo. Un giorno vagando pel bosco, andò avanti avanti, quasi spinta da una volontà superiore, senza accorgersi del lungo cammino, e si trovò in riva ad un lago: vide una piccola barca con una vela bianca, pronta alla partenza, vi entrò, senza pensare, e vi si adagiò come una persona stanca. Un soffio di vento mosse la barca, che scivolò via, leggera, sulle onde azzurre del lago, conducendo Dea lontano lontano, in balia delle onde, senza una meta fissa.
Quando Fiorenzo non vide più ritornare presso di sé la sua bella compagna, andò a cercarla coll‘inquietudine nel cuore, nel giardino, nel bosco, sulla collina, in tutti i luoghi ch‘essa prediligeva: la chiamò colla disperazione nella voce; ma soltanto gli echi dei monti risposero alle sue grida strazianti.
Giunse alla riva del lago, vide la vela bianca che si dileguava nel lontano orizzonte, ebbe il presentimento che quella vela trascinasse lontano la sua compagna. Cercò collo sguardo una barca per seguirla, ma il lago era deserto.
Per un giorno ed una notte intera girò intorno alla riva piangendo disperatamente come un pazzo, non sentendo né la fame né l‘aria frizzante, ma soltanto il dolore che gli straziava l‘animo.
Ad un certo punto le gambe non lo poterono più sostenere, e cadde a terra affranto, cogli occhi che continuavano a piangere, finché ad un certo punto, perduto ogni sentimento, rimase insensibile come corpo morto.
Si svegliò dopo parecchi giorni nella sua casa e nel suo letto, sentì che una persona si muoveva intorno a lui e lo curava con amore, ma non poteva vederla, perché i suoi occhi a furia di piangere s’erano spenti per sempre; egli era divenuto cieco.
— Chi è che si muove intorno a me? – chiese con debole voce.
— Sono io! – gli rispose Pervinca umilmente. – Perdonate, signore; – vi ho trovato quasi morente in terra sopra un pendio, e vi ho trascinato qui colla speranza di salvarvi. Ora vedo che sono riuscita; se vi do noia mi ritiro.
— No, resta pure; ma, dimmi perché non mi hai lasciato morire?
— Voi dovete vivere. Siete giovane.
— A che scopo vivere?
— Perché io possa servirvi, esservi utile; che cosa farei senza il mio padrone?
— Povera fanciulla! – pensò Fiorenzo, ed ebbe il rimorso di averla disprezzata.
— Ma lei… ma Dea… dove sarà andata? – chiese dopo qualche minuto.
—Non vi disperate, ritornerà colle viole, – rispose Pervinca per consolarlo.
E Fiorenzo ricominciò a sperare, si sentiva meglio, provò ad alzarsi, a girare per la casa ed il giardino; ma un forte dolore l‘opprimeva, ed era di non poterla più rivedere se mai fosse tornata, e di non poter mirare tutte le cose belle che avevano allietata la sua esistenza.
— Perché dovevo essere in questo modo punito? – andava esclamando. – lo che ritraevo dalla vista tanto godimento, dovrò essere condannato alla notte eterna? Quanto sarebbe stato meglio ch‘io fossi morto!
E della sua disgrazia non poteva darsi pace.
Guai se non avesse avuto presso di sé la fanciulla ch‘egli aveva per tanto tempo disprezzata; essa faceva tutto il possibile per alleviargli ogni pena, lo conduceva per mano nel giardino, gli descriveva i fiori che sbocciavano sul ramo, la forma delle nubi che passavano in cielo, l‘aspetto che prendeva la natura nelle diverse ore del giorno, e taceva soltanto quando udiva qualche uccello cantare, perché Fiorenzo potesse gustarne le soavi melodie.
E come stava attento ad ascoltarle! Come scopriva in quelle note, armonie che prima non aveva avvertito! Era quello il suo godimento maggiore. Un giorno sentì l‘aria più tiepida, ed un leggero profumo salire fino lui. Il suo volto si rischiarò d‘un lampo di gioia, e chiese a Pervinca:
— Sono fiorite le viole?
— Sì, questa mattina.
— E perché Dea non ritorna?
— Forse aspetterà che fioriscano le rose.
E Fiorenzo ritornò a sperare.
Ma sbocciarono tutti i fiori del giardino e la bella non tornò più. Pervinca diceva a Fiorenzo sempre parole di speranza e cercava di consolarlo. Essa parlava bene, descriveva ciò che vedeva con tanta efficacia ed esattezza, ch’egli non poteva trattenersi dal dirle:
— Tu parli così bene, che mi par di vedere quello che descrivi. Chi ti ha insegnato ad esprimerti così?
— Non so, gli uccelli che volano, le cose che mi circondano. Voi stesso me lo avete insegnato.
— Ma se con me, non stavi mai?
— Ma vi seguivo sempre, nascondendomi tra le siepi. Ero il vostro cane, una brutta bestia, ma fedele.
— Ed ora sei la luce dei miei occhi, – diceva Fiorenzo. – che farei senza di te?
Essa a quelle parole si sentiva riscaldare il cuore dalla gioia, ed era tanto contenta, che non si sarebbe cambiata con una regina. Era dolce, paziente, non si lagnava mai, e sopportava i rimproveri di Fiorenzo, quando era di cattivo umore, senza ribellarsi.
— Poveretto! – pensava. – Soffre tanto, bisogna compatirlo!
Egli poi che scopriva ogni giorno nuove bellezze in quell‘anima semplice e buona, le diceva sempre:
— Quanto sei buona! quanto sei paziente!
— E perché non dovrei esserlo? – essa rispondeva. – Sono tanto contenta, ora che vi degnate di tenermi vicina a voi.
— Mi sarai poi sempre fedele? – le chiese un giorno.
— Sempre, sempre, ve lo giuro.
— Se potessi ancora aprir gli occhi! – egli soggiunse.
— Allora non mi vorreste più vicina, perché sono troppo brutta! – rispose Pervinca.
— È tanto bella la tua anima, che ormai non vedrei che quella! – disse Fiorenzo. – Ma dimmi, sei stata sempre contenta? Non ti sei mai ribellata alla tua sorte?
— Perché avrei dovuto ribellarmi? Perché non son bella? Ma che è mai la bellezza? Uno splendore che passa, come tutte le cose di questa terra. Non vedete come le rose che pur son tanto belle appassiscono presto?
— Ma poi rinascono.
— E non possiamo risorgere noi pure? E forse chi una volta è brutto, potrà rinascer bello. Poi la felicità più grande è di trovare un core fedele che possa rispondere al nostro.
— Come sei saggia! – disse Fiorenzo. Ed ogni giorno più s‘accorgeva che mentre l’immagine di Dea andava perdendosi nelle nebbie del passato, si affezionava sempre più a Pervinca, al punto di sentire che non avrebbe potuto vivere senza di lei.
Vi fu un momento in cui ebbe timore ch‘essa potesse andarsene e scomparire come Dea, e le disse:
—Pervinca, sento che tu mi sei necessaria come I ‘aria che respiro; nell‘oscurità della mia vita sei la luce dei miei occhi, ed ho pensato di legarti a me per sempre e farti mia sposa. Sei contenta?
Egli non poté vedere la gioia dipinta sul volto della povera fanciulla, ma dal tremito della mano che teneva stretta nella sua, sentì come il cuore doveva vibrarle. Essa n‘ebbe tanta contentezza che le parve di soffocare, e appena fu sola scoppiò in un pianto dirotto; erano lagrime di gioia, che tanto le abbellirono il volto, che specchiandosi in un ruscello disse:
— Se mi potesse vedere non mi troverebbe poi così brutta!
Ma egli ormai non badava più alle parvenze esteriori, il suo occhio spento scopriva nuove bellezze ignote, ora che poteva leggere chiaramente quello che si nascondeva nell‘interno dell‘anima!
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