Racconto di Grazia Deledda
Da tanti anni il professore sognava di avere un camino: ne aveva fatto costruire uno nella sua villetta di Cervia, nel salottino d’angolo, coi mobili di giunco, ma faceva tanto caldo, nelle brevi settimane che egli vi passava, che la stessa fiamma avrebbe riso a vedersi suscitata sotto la mensoletta della cappa sempre fiorita di rose e garofani: nella sua casa di città, invece, sebbene fosse una villa di costruzione non recente, coi solidi muri di una volta, le stanze alte coi pavimenti di finto mosaico, il termosifone funzionava dai primi di novembre a tutto aprile; e il fuoco non si vedeva neppure nella cucina, perché negli antichi provinciali fornelli erano stati sostituiti i più moderni apparecchi a gas e anche a elettricità.
Era dunque venuto Celestino, il fumista, per esaminare l’angolo ove meglio si poteva costruire il camino. Oltre all’essere fumista, Celestino era una specie di factotum del professore: conosceva la casa a menadito, forse più del padrone stesso, perché era lui che, d’estate, vi faceva da guardiano ed eseguiva le riparazioni; cambiava le carte, verniciava le persiane, coltivava il giardino: si intendeva di tutto, era bravo e pasticcione in tutto, e melenso oltre ogni dire: sonnecchiava sempre, svegliandosi solo quando si trattava di fare i conti. Anche adesso guardava qua e là con gli occhi socchiusi, con la bocca aperta e un po’ storta; sebbene facesse già freddo aveva ancora la paglietta, tirata indietro sul capo: pareva uno di quei santi campestri molto alla buona: un Sant’Antonio del fuoco.
— Ecco, — dice il professore, che si confida con Celestino come in trenta anni di insegnamento e di scritture non si è mai confidato coi suoi allievi e i suoi lettori, — mi pare vada bene quest’angolo della stanza da pranzo: è il luogo che preferisco: dalla vetrata si può scendere in giardino e prendere la legna nel sotto scala della gradinata: è più spiccio. E sbrigati; perché oramai sono tanti anni che si parla di questo camino; e adesso ci ho i dolori reumatici, e voglio infischiarmi del termosifone, che fa venire il mal di testa. Anzi non voglio più neppure accenderlo; tanto non voglio più ricevere nessuno. Mi hanno messo in pensione, e anch’io voglio fare il comodaccio mio; voglio ritornare come era mio padre che è morto beatamente mentre se ne stava a godersi un bel fuoco di ginepro, davanti al grande camino della nostra cucina.
Sarebbe stato facile adattare un caminetto posticcio; ma il professore, giacché ci si era messo, voleva un camino autentico, scavato nella parete, da metterci dentro comodamente i piedi: la faccenda però presentava alcune difficoltà, e Celestino, per quanto flemmatico e lavoratore, ci faticava assai: non è a dire, poi, i brontolii della governante, per il disordine e il polverio della sala da pranzo. Il padrone invece sembrava beato: assisteva ai lavori come si trattasse della costruzione di un palazzo, e disegnava il prospetto del camino con finezza artistica: quando poi l’operaio se ne andava, egli sedeva davanti alla buca della parete, fra le macerie, facendo le prove di quando il camino avrebbe funzionato. Vedeva divampare il fuoco, sentiva il gemere degli spiriti del vento imprigionati dal tubo della conduttura, e ricordava la sua infanzia e la sua fanciullezza con luci romantiche, quali solo in certe notti d’inverno e di bufera gli erano balenate nel tepore del letto solitario. Nella fredda atmosfera della realtà, quei tempi remoti, piuttosto duri e meschini, mentre egli faticava come Celestino per scavarsi una nicchia nella muraglia della vita quotidiana, una buca dalla quale saltasse fuori un po’ di calore e di benessere materiale, quei tempi gli apparivano come uno strato di barbarie, di privazioni, di servaggio. La sua famiglia era povera: il padre, contadino, se voleva il fuoco doveva raccattarsi le legna; e il pane per i figli era acre del suo sudore: quello che non gli costava niente erano le fole che, nelle sere d’inverno, quando la neve chiude in casa anche i più poveri, raccontava ai figli, forse per sopperire col loro nutrimento di sogno allo scarso nutrimento della realtà. Dopo tutto era un uomo buono, biblico rassegnato alla sua sorte; era famoso per le sue storielle, e ne sapeva di quelle che, con le frangie che egli ci metteva, duravano anche sette notti. In fondo, il figlio non ricordava di aver mai gustato un romanzo, né ammirato uno scrittore di fantasia, come le narrazioni di suo padre e il loro autore.
Adesso, poi, a quest’ammirazione sentiva unirsi una tarda tenerezza: forse perché anche lui invecchiava, e se avesse avuto famiglia, della quale si era privato per odio antico alla famiglia povera e alle responsabilità del suo capo, pensava che anche lui avrebbe raccolto i figli attorno al fuoco e raccontato loro delle fiabe. Ma in fondo rideva di queste fantasticherie: i figli adesso non vogliono fiabe; vogliono verità solide, parole che abbiano valore autentico; e soprattutto quattrini. Quattrini egli ne aveva pochi; il suo patrimonio consisteva tutto nella villetta di Cervia, che non rendeva un soldo, e in quella sua casa di città, gravata di tasse, risucchiata dalle riparazioni e dai conti di Celestino, ma dove, almeno, egli viveva a modo suo, come l’orso nella sua tana.
Quattrini! Erano stati sempre il suo sogno: e a questo si allacciava forse anche il sogno del camino antico, perché le fiabe paterne che più lo avevano impressionato, colorite certo dal desiderio dello stanco lavoratore che le raccontava, erano quelle dei tesori nascosti, ritrovati a giusto punto da chi ne aveva urgente bisogno. Il mondo è pieno di tesori: le rovine, i muri delle vecchie case, i tronchi scavati degli alberi secolari, i pagliericci dei falsi mendicanti, persino i sepolcri, ove la morte irride i vani beni della terra, nascondono tesori infruttiferi, che aspettano chi sappia trovarli.
Così predicava il padre; e il figlio ci aveva creduto, finché non si era convinto che l’uomo con gli occhi bene aperti alla realtà cerca il tesoro entro sé stesso, nel suo genio e nel suo lavoro, e spesso, non trovandolo neppure là, nelle casse del prossimo.
— Io non sono un genio, e ho sempre lavorato poco, — egli diceva a sé stesso, quella sera di autunno, seduto davanti al camino già ultimato ma ancora fresco di calce e col ripiano di cemento improntato dalla paletta dell’operaio, — quindi essendo anche proclive all’onestà, forse più che altro per pigrizia, sono rimasto povero, senza neppure l’eredità paterna non accettata: cioè quella delle speranze e delle illusioni dell’uomo primitivo. Ma non importa: purché riesca a vedere il miracolo della fiamma, entro questo imbocco di galleria che può condurre a luoghi piacevoli. Sì, mi ricordo…
Sì, ricordava tante cose, adesso: l’imbocco appunto di una specie di galleria naturale, sui monti sopra il suo paese, che dopo una paziente esplorazione conduceva i ragazzi a un fantastico belvedere di rocce dal quale si vedeva un paesaggio bellissimo, esteso fino al mare. Anche in quelle grotte esistevano tesori, ma custoditi da spiriti maliziosi che non bisognava disturbare: e i ragazzi, che possedevano anch’essi ben altre ricchezze, se ne guardavano bene.
Di ricordo in ricordo, di fantasia in fantasia, il professore si lasciava scivolare a un vago sopore, a quel lieve incantesimo che rievoca quasi tangibilmente le cose lontane e risuscita i giorni morti.
Così gli parve di vedere nel camino la fiamma che sprigionava dai ceppi l’odore del ginepro; e quest’odore a sua volta spalancava, al di là di una galleria muschiosa, un panorama di boschi, di rocce, di chine verdi scendenti al confine azzurro del mare. Ma d’improvviso la figura quasi evanescente di Celestino, con la sua aureola di paglia, apparve dietro i cristalli della vetrata, in uno sfondo di rami neri sui quali si libravano ancora, come uccelli notturni, grandi foglie secche. Aveva in mano un bel cestino di giunchi, colmo di pezzi di legna e di trucioli: picchiò lievemente ai vetri, e al professore, venuto ad aprire, disse sottovoce:
— Se permette, facciamo dunque la prova del camino.
L’altro non domandava di meglio. Celestino collocò la legna sugli alari e vi cacciò sotto una manciata di trucioli, ai quali diede fuoco. Il fumo filava bene dentro il tubo della cappa, e in breve le foglie tremule della fiamma germogliarono dai ramicelli neri. Dopo tanti e tanti anni il professore rivide lo splendore del fuoco vivo illuminare la sua casa desolata. Era come se una nuova aurora sorgesse per lui: l’aurora di una nuova fanciullezza che doveva finire solo con la morte.
— Voglio anche dormirci, qui — disse a Celestino, piegato sulle ginocchia come un bonzo in adorazione del fuoco. Quando le braci cominciarono a staccarsi dai tizzi, che pareva si convertissero in oro, l’operaio aggiunse altra legna, poi si sollevò e andò a riempire di nuovo il cestino: infine salutò, e disse che sarebbe ritornato più tardi per vedere se tutto continuava ad andar bene.
Tutto andava bene: una felicità giovanile riscaldava il cuore dell’uomo: gli sembrava di non essere più solo; come già a suo padre, una ghirlanda di figli lo accompagnava di qua, di là, come le ali della speranza e dell’amore. E tutta la stanchezza della sua vita si allentava; cadevano i rancori; le ingiustizie patite, e alcune ancora recenti e sanguinanti come ferite, si mutavano in fiori di offerta a chi tutto giudica e paga con puntualità. Di nuovo fu vinto da un lieve sopore; di nuovo fu risvegliato dalla presenza di Celestino. Senza parlare l’operaio aggiungeva legna al fuoco, finché in fondo al cestino apparve una cosa strana: un mucchio che pareva di brace ed era di monete d’oro.
— Padrone, — egli dice, con la sua voce melliflua, — le ho trovate in un sacchetto, scavando qui nel muro per il camino: sono sue: a me dia quello che solo mi spetta.
E con la mano che pareva una cazzuola ancora bianca di calce, sollevava le monete e le lasciava ricadere nel cestino. Erano tante: e sembrava si moltiplicassero senza numero, luminose, al riflesso del fuoco, come occhi di sole finché il professore si svegliò: e furono solo i suoi vecchi denti ricoperti d’oro a scintillare nel riso schietto che gli rischiarò il viso, poiché la sua felicità non scemava, anzi si faceva più limpida, nell’accorgersi di essere davvero ritornato fanciullo e di aver ritrovato il tesoro dei sogni.
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