Racconto di Nicola Moscardelli

 

— Ascoltami – disse Silvano – fra quante cose si possano trovare per terra nessuna è così suggestiva come una chiave. Tutte le altre cose che la combinazione fa trovare sul nostro passo possono da noi essere adoperate nuovamente come se invece di trovarle le avessimo acquistate. Non parlo del danaro, ottimo sempre per tutti gli usi, ma che la coscienza rilutta ad appropriarsi quando essa sappia che non fu guadagnato onestamente. Ma una borsa, un temperino, un ombrello, le mille utili ed inutili cose che rechiamo con noi nella via sono sempre buone sia per chi le smarrisce sia per chi le trova. È vero che ogni oggetto reca con sé l’immagine e la storia di chi lo ha prima adoperato, ma non accade tutti i giorni di incontrare chi sia in grado di riconoscere i segni di quelle immagini e di quella storia, così che la maggioranza può liberamente servirsi di un ombrello o di un temperino trovati. Ma una chiave, a che cosa può servire una chiave rinvenuta sul bordo del marciapiede, alle sette e mezza di sera, quando migliaia di esseri sfilano sotto le lampade accese? Ed ecco, vedi, è proprio una chiave quella che io ho trovata.

Ed in così dire me la mostrò. Non era una di quelle antiche chiavi di ferro, nere e tozze, che occupavano molto posto nelle tasche e nella memoria, come ancora se ne usano per i portoni delle case senza portiere, che pur essendo d’affitto hanno una personalità ed una vita autonoma; e nemmeno era una chiave di ultimissimo modello, di quelle che hanno minutissimi denti e non ingombrano né tasche né memoria, essendo piccolissime e di forma, per milioni di esemplari, quasi sempre eguale. Era invece una chiave di media grandezza, né bruna né argentea, con quattro denti semplicissimi, e tale che qualunque serratura avrebbe dovuto aprirsi con essa.

— Vedi – continuò Silvano – sono quattro giorni che io occupo i miei riposi osservando questa chiave. Se il mio capo ufficio lo venisse a sapere mi toglierebbe la stima di cui mi gratifica: ma tant’è, non mi riesce di pensare ad altro. L’ho trovata dinanzi al caffè del Corso, tu capisci, su di un pezzo di selciato anonimo, tanta è la gente che vi passa dalla mattina alla sera, come il suolo d’un’isola deserta. La sera stessa ho provato d’aprire con essa la serratura di casa mia, ma essa non entra che per un millimetro, forse anche meno, essendo, come vedi, di forma antiquata. La mattina dopo me n’ero dimenticato, ma uscendo per andare all’ufficio l’ho sentita all’improvviso nella tasca e mentre ero in via fantasticavo su chi potesse averla perduta. Mi pareva di vedere una vecchia signora, probabilmente di famiglia decaduta, costretta ad uscire di casa in ore in cui avrebbe meglio amato rimanere nella sua stanza. Gli è che da tanto tempo aveva promesso una visita alla sua vecchia amica e non avrebbe potuto rimandarla ancora senza parere scortese. La poverina s’è rinfagottata come un bambino ed è uscita raccomandandosi a Dio ed a Gervasia, la vecchia cameriera che l’ha accompagnata durante tutta la sua vita, da quando abitava al primo piano della casa antica fino ad oggi che abita all’ultimo della casa vecchia. Veramente avrebbe voluto condurre con sé anche Gervasia, ma l’idea soltanto di lasciare la casa incustodita, oggi che il mondo è pieno di ladri e sui giornali se ne leggono tante, l’ha fatta fremere. Non che essa abbia dei tesori in casa, tutt’altro, perché quello che aveva valore fu venduto anno per anno alle amiche che ancora son ricche o a dei signori in pelliccia che venivano per casa, guardavano gli oggetti come se già fossero stati in una bottega, prendevano in mano ninnoli o gioielli senza commuoversi, e non sapevano che in essi c’era tanta della vita di lei, e che se essi erano ancora intatti, lo si doveva proprio a lei che s’era invecchiata guardandoli. Ora non le è rimasto che qualche scatola settecentesca, vuota, e che fu già porta-gioielli o porta-profumi, i gioielli che aveva in petto da sposa, i profumi di quando era giovane, qualche miniatura, qualche anello salvato al naufragio insieme con due o tre seggiole troppo solenni per camere d’affitto, e che attendono addosso alle pareti che qualcuno vi si sieda, mentre nessuno le tocca, ultimi resti di una lingua che nessuno parla più, frasi galanti di quando i discorsi erano lieti, estirpate dal resto che è distrutto, e che nessuno comprende. Perdere una di queste minime cose sarebbe stato per lei come perdere una delle ragioni della sua esistenza, gli amici e i testimoni della sua vita passata: sarebbe stato infine esser più vicina alla morte. Grandi raccomandazioni, dunque, a Gervasia, del resto superflue, di non uscire per nessuna ragione, di non aprire a nessuno, ma di metter la catena e di parlare attraverso l’apertura.

— Non sono una bambina, Contessa – ha risposto Gervasia. Contessa: ha detto proprio così. Cara Gervasia! Finché ci sarà lei, quella vecchietta che ora va in istrada quasi in atto di domandare scusa all’aria che respira sarà ancora una contessa, ma scomparsa essa, ahimè! forse non la chiamerebbero più nemmeno signora. È arrivata in casa dell’amica e così, come quelli che hanno poco, s’è seduta con la sua borsa stretta nelle mani, simile a un bambino che ha ricevuto un giocattolo e teme che glielo portino via. Hanno parlato di tutto e di nulla. Il mondo è tanto cambiato che nemmeno l’amica vi si trova più a suo agio: ma avendo essa ancora il danaro è come se avesse il cifrario della lingua di oggi e di sempre, mentre la contessa è inerme, è sola, è come un viaggiatore sceso ad una stazione di là dalla frontiera mentre i suoi bagagli dove ci sono le sue cose, il suo passaporto, ciò che completa la sua personalità, sono rimasti nel treno che va che va e non tornerà indietro mai più, sì che la poverina vorrebbe attaccare discorso, ma non conosce la lingua e ciò che potrebbe farla riconoscere, i suoi quadri, i suoi specchi, i suoi gioielli, il suo passaporto, infine, non ci son più. L’amica è fine, discreta: evita la pur minima allusione che potrebbe ferirla: si lamenta con lei per non farla esser sola a lamentarsi: la contessa attenua i suoi lagni per non tediar troppo l’altra. Assalto di fioretto tra maestri dell’arma. La casa è calda come una serra, ma l’amica fa subito notare che non fa freddo, e del riscaldamento si potrebbe fare benissimo a meno: pensa alla casa dell’altra riscaldata dal sole quando c’è. «Certo, certo – risponde la contessa – e poi io ci sono abituata». Abituata al caldo, al freddo? Mistero. All’improvviso l’amica s’alza per accender la luce, e allora i mobili par che si facciano innanzi per esser veduti, ed il salone si rivela per quello che è: salone di ricevimento, ampio salone, quando c’è una fila d’automobili alla porta, mentre ora non c’è che essa sola con ancora il biglietto del tram nella borsa. Tutt’insieme i ricordi fan groppo alla gola, e la contessa saluta: è già tardi. Ed eccola di nuovo in istrada, con la borsa stretta come se l’avesse rubata, eccola di nuovo in tram addossata alla parete, che vorrebbe sorridere al vicino, magari attaccare discorso, ma come si fa quando non s’è mai studiata la lingua della gente che va in tram? In collegio, e ci tenevano tanto, le fecero studiare il greco, ed essa ricorda benissimo che il professore soleva dire che nulla vale più delle lingue morte, greco e latino, per comprendere le lingue viventi, ed essa che sapeva leggere Sofocle non riesce ad intendere la donnetta col pupo in braccio che senza parere la spinge, la spinge sempre di più in fondo al banco dov’essa da sé, già s’era ritirata. Ma è terribile come si prendono facilmente le flussioni. Fosse la troppo alta differenza di temperatura tra la casa e la strada, fosse altro, certo che la contessa ogni tanto deve asciugarsi gli occhi che lacrimano. Pensa a Gervasia con la quale almeno può discorrere ancora e che non le fa sentire il peso di ciò che ha perduto. Ma finalmente si arriva. Eccola di nuovo fra le mura delle case che non ha ancora imparato a conoscere, ma fra le quali ormai spera di finire la vita. Sale la scala, giunge dinanzi alla porta, apre la borsa e cerca la chiave. Non c’è. La cosa è talmente impossibile che essa non è impressionata. Rovista, preme d’ogni dove, capovolge la borsa, e non c’è. Come se le avessero messo fuoco alle vesti ridiscende la scala, scruta ogni scalino: nulla. Allora torna in istrada, posa di nuovo i piedi dove li ha posati poc’anzi, si curva a guardar le commessure del selciato, arriva fino alla grande strada, vorrebbe traversarla di nuovo, ma anche se riuscisse ancora a tale prodigio come potrebbe curvarsi a guardare in terra se ciascuno in quella via cammina spedito, e il selciato è liscio, levigato dalle automobili, ed un oggetto cadendo si volatilizza e scompare? Come uno che non sa nuotare eppur vorrebbe tuffarsi nel mare, essa esita sulla riva della strada, poi vinta torna indietro, e di nuovo guarda passo per passo febbricitante e sgomenta. Vergognandosi come una bambina che a scuola ha avuto zero in condotta suona il campanello e quando sente che Gervasia è dietro la porta: «Gervasia, sono io!», esclama, ma l’altra che sa di quante astuzie oggi sono capaci mette egualmente la catena e spia dall’apertura. Sùbito apre e saluta contenta che la padrona sia finalmente di ritorno: ma la padrona alzando la borsa come se l’avesse rubata:

— Sai, Gervasia, ho perduto la chiave – esclama col tono di chi ha perduto l’onore.

Gervasia. che non ha perduto nulla, abusa un poco della sua posizione e, simile al commissario che interroga l’assassino, vuol sapere come fu e dove fu che perdé la chiave: e la contessa non osa rispondere che se sapesse tanto non l’avrebbe smarrita. La casa è ormai in balìa della sorte. Espertissimi ladri riusciranno – oggi fanno altro che questo! – a trovare la serratura della chiave smarrita e domani, se non pure questa sera stessa, verranno a rubare. Far fare una chiave nuova? E il fabbro dunque quando verrà a provarla non saprà di quale porta essa è e non ne farà una anche per sé? Mettere una nuova serratura? Ma l’operaio che verrà a fissarla non vedrà dunque quale porta essa apre. Gli incubi di quelle due povere donne si possono meglio immaginare che descrivere. E tutto perché? Perché io, alle sette e mezza, uscito dall’ufficio, m’ero trovato a passare dinanzi al Caffè del Corso, proprio là dove essa per la prima volta aveva aperto la borsa per asciugarsi gli occhi che lagrimavano.

Questo accadde giovedì sera. Venerdì mattina, come t’ho detto, ripresi il mio fantasticare. Sabato sera c’era una prima all’Opera e ci andai, solo, avendo mia moglie preferito rimanere in casa. Domenica, ah! domenica, succede l’incredibile. Dopo colazione mi sdraio in pigiama sulla poltrona per leggere i giornali e prego mia moglie di prendermi le sigarette rimaste nella giacca. Essa mi guarda con uno strano sguardo: non ci fo caso: esce dalla stanza, torna e, immagina tu, mi si getta singhiozzando nelle braccia. Trasecolo, ho quasi terrore di chiedere che cosa è successo, la calmo, e infine le chiedo che è stato; ed essa mi mostra la chiave che nella sua mente era già diventata la chiave della garçonnière, capisci, di cui giovedì sera avevo preso possesso e che sabato, con la scusa dell’opera, avevo inaugurato, e ti assicuro che non mancava altro che il nome di quella sciagurata che mi aveva fatto perder la testa. Singhiozzando anch’io, ma dal ridere, riesco a convincerla che non di una garçonnière si trattava ma di due stanze all’ultimo piano, e non di una donna fatale ma di una vecchia contessa decaduta, di forse cinquanta, forse sessant’anni.

— Ma come si chiama ed in che via abita? – concluse, riprendendo il respiro.

Ed io pensai a Gervasia che voleva sapere dove e come la contessa aveva perduto la chiave. Se avessi saputo il nome e la via, oh! allora non avrei fantasticato. Per concludere ti dò un consiglio da amico: quando trovi una chiave gettala a fiume: tanto son sicuro che tu come me non potresti tenerti dal raccoglierla.