Racconto di Sir Arthur Conan Doyle
Ecco, signore, l’ho trovato questo annuncio che mi ha per tanto tempo preoccupato, e che oggi mi conduce a voi. Comparve nel Morning Post il 29 agosto ed è così concepito:
«Alla lega dei Rouquins!
«Grazie alla generosità del fu Ezechiello Hopkins di Lebanon, Pennsylvanie la lega dei Rouquins offre una pensione di 400 lire al mese ad ogni persona di sesso maschile, che abbia i capelli rossi, abbia oltrepassato i 21 anni e sia riconosciuta degna di questo favore. I candidati sono pregati di presentarsi lunedì 1 settembre a un’ora, negli uffici della lega, 7 Pope’s Court, Duncan Strett!»
La persona che così parlava, seduta in un seggiolone in casa di Sherlock Holmes era un onesto imprestitore dietro pegni, chiamato Jabes Wilson venuto quel mattino dall’amico mio per consultarlo sopra un affare importante. L’uomo aveva l’aspetto di un tranquillo borghese di Londra, alquanto pingue, col volto inquadrato da un collare di barba rossa e il cranio provveduto di una capigliatura della stessa tinta. Oh! quella capigliatura! Aveva attirata la mia attenzione appena quel personaggio era comparso: la si avrebbe detta una fiamma pazza svolazzante su quel capo, dalla fronte all’occipite!
Il signor Jabes Wilson.
E come Sherlock lo incalzava a continuare la sua istoria, o meglio a riprenderla dal principio per mettermi al corrente – ero giunto all’improvviso – l’uomo così proseguì:
— Sì, signore, io posseggo una bottega non lungi da qui… Gli affari sono abbastanza calmi pel momento, è appena se il mio mestiere mi dà da vivere. Per diminuire le mie spese, ho ridotto il mio personale e non impiego ora che un uomo soltanto. E lo presi perfino a metà salario. Si presentò da sè e accettò le mie condizioni.
— Come si chiama il vostro commesso? interruppe Holmes.
— Vincenzo Spaulding. È molto intelligente e mi serve benissimo. Non gli conosco che un sol difetto: ama troppo la fotografia. Non passa giorno in cui non colga a volo dei tipi della strada per andare poi a sviluppare i suoi clichés in fondo alla mia cantina. Vi sta per delle ore intere.
— Ed è questa la sola persona che voi occupate?
— Sì, signore; una giovinetta di quindici anni viene inoltre ogni giorno per dar ordine alla nostra casa. Ci serve da cameriera e da cuoca. Viviamo così tutti tre semplicemente, uscendo pochissimo. Sono vedovo da molti anni e non ebbi mai figli.
— Ora ritornando a questo famoso annuncio del Morning Post, annuncio dal quale deriva il vostro tormento, chi ve lo mostrò dunque, se, come voi dite, non leggete mai giornali?
— Fu Vincenzo che un mattino, or fa un mese e più, me lo pose sotto gli occhi. Mi spiegò che un originale, Elias Hopkins, aveva, or fa qualche anno, fondato una lega per la propagazione dei capelli rossi. L’individuo, era, pare, munito lui stesso di una criniera ardente e avea lasciato morendo una somma alquanto considerevole le cui rendite dovevano andare distribuite fra coloro che al par di lui avevano ricevuto dal cielo questo dono poco gradito.
Quell’annuncio, dunque, diceva che un posto era vacante; si offriva al nuovo titolare, la bella somma di 100 lire per settimana, per un lavoro derisorio. Vincenzo m’indusse vivamente a posare la mia candidatura.
E come gli facevo osservare che delle migliaia d’individui sedotti da quell’offerta non mancherebbero di presentarsi, mi rispose che nessuno avrebbe potuto lottare con me. I miei capelli erano di un sì bel rosso, la mia situazione era tanto degna d’interesse che non potevo mancare di ottenere la preferenza.
Queste buone ragioni mi convinsero e, pensando che dopo tutto quel tentativo nulla mi costerebbe, gli ordinai di chiudere la bottega e di accompagnarmi all’indirizzo dato dal giornale.
A mezzodì ci ponemmo in cammino. In mia vita signore, non vidi spettacolo simile. Da tutti gli angoli della città, da tutti i punti della contea, chiunque possedeva un riflesso di rosso nei capelli era accorso verso Fleet-Street. Ve n’erano di tutte le sfumature: dal giallo più delicato, al rosso più fiammeggiante! La strada pareva carica di una cascata di aranci!
Giammai avrei creduto avere tanti congeneri! Quella vista mi scoraggiò. Non avevo alcuna speranza di riuscita, e avrei abbandonata la lotta se Vincenzo non mi avesse fatto vergognare dei miei scrupoli. La coda era lunga dinanzi la porta dell’ufficio, ma il mio impiegato fece tanto bene, adoperò magnificamente i suoi gomiti, dando spinte qua e là, calpestando dei piedi, che in breve ci trovammo nella prima fila. E venne il nostro turno di essere introdotti.
Si offre un posto di 100 lire.
Il locale ove entrammo era sommariamente ammobiliato; qualche sedile di legno, un gran tavolo nero, dietro cui stava seduto un ometto vestito di bigio, coi capelli più rossi ancora dei miei. Quando un candidato si presentava, egli esaminava rapidamente: prendeva delle annotazioni e lo congedava, trovandolo inaccettabile. Quando giunsi, egli si fece più conciliante; mi scoprii il capo e il suo viso parve calmarsi.
— È il signor Jabes Wilson, disse il mio impiegato, nominandomi.
— Meraviglioso! esclamò quell’ometto. Meraviglioso! Ecco appunto la tinta che noi cercavamo! Ben di rado ne vidi una di simile.
Mi fece sedere, alzarmi, camminare, mi esaminò in tutti i versi dichiarandosi soddisfatto. Poi di repente, mi prese il capo fra le mani e per un buon minuto mi stropicciò con forza.
— Mi scuserete, disse, ma spesse volte fummo ingannati e il dover mio è di assicurarmi prima di tutto se la vostra tinta è naturale, e se non portate parrucca. Ma tutto va bene, e non abbiamo frode alcuna a temere.
Andò allora alla finestra, la spalancò, e gridò al popolo raccolto nella via che il concorso era chiuso, perchè il candidato era stato scelto.
Mi disse chiamarsi Duncan Ross, essere segretario della lega dei Rouquins, e il riconoscente obbligato del nostro benefattore comune Elias Hopkins. Poi mi domandò se avevo figli. E siccome risposi negativamente, il volto gli si offuscò.
Era quella, pareva, una clausola formale della costituzione dovendo i membri della lega, nella misura delle loro forze contribuire alla propaganda del rosso, e all’aumento della specie.
Meraviglioso! Meraviglioso! esclamò l’omiciattolo.
Ma soggiunse che, veduta la rarità della mia tinta, un’eccezione sarebbe fatta per me. «Le ore di presenza, egli continuò, sono dalle 10 alle 2, la pensione di 400 lire al mese, e il lavoro puramente nominale. Si trattava semplicemente, durante il tempo stabilito, di copiare gli articoli dell’Enciclopedia Britannica. Dovevo fornirmi io stesso di carta e penne. Siccome accondiscendevo a queste condizioni mi fece osservare che la menoma irregolarità potea essermi di grande pregiudizio; non dovevo mancare sotto verun pretesto, malattia, affari, od altro, non dovevo lasciare durante quelle quattro ore l’ufficio che mi veniva assegnato, non fosse che per un istante.
Tutto ciò mi conveniva a meraviglia, non lavoravo che dopo mezzodì; nulla m’impediva quindi di venire ogni giorno a copiare l’Enciclopedia; del resto Vincenzo mi prometteva di rimpiazzarmi del suo meglio.
Sul momento gli aumentai leggermente il salario.
Quindi lasciai il signor Duncan Ross. Dovevo entrare in funzioni subito il domani.
Ritornato a casa mi presi a riflettere.
Solo, ora mi chiedevo se tutto ciò non era una curiosa mistificazione, e se non ero lo zimbello di qualche maligno buontempone.
Ma Vincenzo, una volta ancora mi rassicurò, e fiducioso me ne ritornai il dì seguente a Pape’s Court.
Ero aspettato. Il signor Duncan stesso mi fece sedere in un buon seggiolone, dinanzi un largo tavolo, m’indicò il mio lavoro, aprì l’Enciclopedia, pregandomi d’incominciare alla lettera A. E bravamente mi posi a copiare.
A più riprese il piccolo uomo venne a vedere se mi trovavo sempre al mio posto.
Poteva essere tranquillo io non mi muovevo.
Alle due, egli mi annunciò che potevo ritirarmi, ed uscì con me.
Ritornai l’indomani, indi il dopo domani, tutta la settimana.
Ora copiavo più presto. Venivo pagato regolarmente con delle belle lire d’oro.
Dopo quindici giorni mi trovavo ad Architettura, indi terminai Attica, poi Azzurro; stavo per passare al B, avendo impiegato quasi una risma di carta, quando bruscamente tutto cessò!
— Come? – chiedemmo noi in coro?
— Sì, non più tardi di questa mattina, giungendo all’ufficio, ecco ciò che trovai appiccicato alla porta! Prendete, leggete voi stessi.
E Jabes Wilson ci porse un foglio di carta stracciato agli angoli il quale portava queste parole:
«La lega dei Rouquins è sciolta.
«11 ottobre 1890».
Il volto del buon uomo era tanto comico in quell’istante che, Holmes ed io scoppiammo in una risata!
— Si tratta di ridere proprio così – esclamò furibondo. – Io perdo una bella situazione, e ancora mi deridete! Davvero m’aspettavo ben altra accoglienza.
La lega è sciolta.
Lo rassicurammo del nostro meglio. Holmes si scusò, dicendo che per nulla la mondo avrebbe rinunciato ad un affare tanto piccante; lo pregò di continuare la sua narrazione.
— Quest’avviso mi gelò, egli riprese, mi ero abituato alla mia nuova esistenza ed ecco che ora tutto finiva! Scesi dal proprietario per chiedere che cosa era avvenuto dell’uomo dei capelli rossi, Duncan Ross, suo locatario.
— Duncan Ross? egli mi rispose. Voi volete dire William Morris, il sollecitor. Si è ora trasferito nel suo nuovo appartamento, 17, Kinsby Road.
Corsi all’indirizzo indicato: era una fabbrica di denti artificiali.
Naturalmente non vi si conosceva nè Morris nè Duncan. Ritornai a casa, per consigliarmi con Vincenzo. Nulla egli potè dirmi, se non che pensava, avrei avuto presto notizia di tutta questa faccenda e che il prossimo corriere non poteva mancare di portarmi una lettera. Allora inquieto, malcontento, signor Holmes, io venni qui da voi a chiedervi consiglio.
— Avete fatto bene, riprese il mio amico; la vostra istoria m’interessa vivamente e sarò felice di occuparmene. Del resto, credo, da quanto potei comprendere, che qualche grave impresa si stia macchinando e che mi avete messo sopra delle traccie serie.
Difatti, non dovete lagnarvi dell’avventura, vi procurò 30 buone lire in oro e di più voi sapete minutamente tutto quanto, nell’Enciclopedia incomincia in A.
— È vero, ma desidero andare al chiaro di questa cosa. A quale scopo quella gente si prese giuoco di me; perchè mi hanno prescelto per mettermi poi alla porta?
— Questo cercheremo di spiegarcelo. E anzitutto da quanto tempo avete voi quel commesso Vincenzo Spaulding?
— Da un mese. Si presentò in casa mia in risposta a un annuncio che avevo fatto comparire in un giornale quotidiano; sono venute 12 o 15 persone, ma Vincenzo mi piacque; era giovane, aveva l’aspetto intelligente. E poi, acconsentiva a non ricevere che la metà del solito salario.
— Che uomo è?
— Piccino, alquanto forte, molto svelto, imberbe, con una macchia di rossore sulla fronte.
— Durante la vostra assenza ha condotto bene i vostri affari?
— Perfettamente, i clienti sono contenti di lui.
— Queste indicazioni mi basteranno sig. Wilson; lunedì, vale a dire fra due giorni, voi saprete l’ultima parola di questa storia.
E quando il buon uomo ci ebbe lasciati, Holmes prese la pipa, la colmò di tabacco, l’accese coscienziosamente e lasciandosi cadere in un seggiolone mi pregò di lasciarlo riflettere tranquillamente; tre quarti d’ora gli bastavano. Vi fu un istante in cui lo credetti addormentato; con le gambe incrociate, e ripiegate verso di se, pareva sonnecchiare. Di repente, quando il tempo che si era fissato era trascorso, si scosse bruscamente e, alzandosi di un balzo, andò ad addossarsi al caminetto.
— Sarasate suona questa sera a Saint-James’s Halle, volete accompagnarmi? Ci farà bene udire un po’ di buona musica. E poi, quel diavolo di artista sà tanto bene far dimenticare la bestialità umana. Passando andremo dal nostro Wilson, a Saxe-Coburg Square.
Si lasciò cadere nel seggiolone.
La bottega del prestatore era, come lo immaginavamo, una stamberga, smarrita in un cantuccio dello square, a mattoni rossi, colle finestre ornate di qualche pianta illanguidita dal fumo.
Sherlock esaminava tutto attentamente; ispezionò la via per ritornare ancora dinanzi alla povera bottega. Finalmente si avanzò fino alla porta, picchiò forte il suolo coll’estremità della sua canna, e a più riprese, e dall’esterno chiamò nell’interno della bottega. Un giovanotto comparve subito.
— Scusate, disse Sherlock, potreste indicarmi il più breve cammino per recarmi a Windmill Street? nessuno ha saputo rispondermi.
— La terza via a destra, la quarta a sinistra, riprese l’impiegato richiudendo la porta.
— Per bacco! non è stupido questo ragazzo, mormorò il mio amico inchinandosi. L’ho incontrato in qualche luogo. E so quanto volevo sapere.
— Che cosa? chiesi.
— Ho veduto le sue ginocchia… sì è così, proseguì, parlando fra sè; dopo il prestatore c’è un libraio, poi un bar; più lungi la banca suburbana, e per ultimo il noleggiatore di vetture… Ora non abbiamo che il tempo di recarci al concerto.
Seduto su un seggiolone di Saint James’ Hall, Holmes ascoltava ora il canto del violino di Sarasate; il volto era irradiato da un sorriso, e la mano seguiva il movimento indiavolato del musicista.
Un giovanotto comparve subito.
Il suo alter ego trionfava; l’artista pareva avere in lui soffocato il questore. Quando egli si abbandonava alla musica, o alle sue ricerche chimiche, lo faceva con passione tale, che ogni altra preoccupazione era bandita dalla sua mente. Sentiva il bisogno di queste distrazioni, e ne usciva fortificato, riposato, e si rimetteva al lavoro con un ardore temuto per coloro dei quali voleva sconvolgere le mene criminali
— È molto seria questa istoria della lega dei Rouquins mi disse uscendo, speriamo di pervenire. Volete prestarmi il vostro concorso questa sera Watson? Avrò bisogna di voi verso le 10.
— Certo.
— Allora non dimenticate il vostro revolver. Arrivederci.
Andandomene, cercavo alla mia volta di capire qualche cosa da quel tenebroso affare. Mi sentivo tanto ottuso, tanto volgare di fronte a Holmes! avevo come lui occhi, ed orecchi; sapevo vedere, ed udire; e però nulla io aveva veduto, nulla udito.
Soltanto quel piccolo Vincenzo m’imbrogliava; egli doveva rappresentare una parte importante nel dramma che si preparava.
Fui esatto al rendez vous.
A Baker-Street trovai Holmes che discorreva con due nuovi arrivati: nell’uno riconobbi Peter Jones, l’agente di questura. L’altro lungo e scarno, mi era sconosciuto, mi fu presentato come un signor Merryweather.
— In cammino, ora! concluse Holmes.
E tutti quattro scendemmo.
Peter Jones mi si era avvicinato. Mi narrò tutta la fiducia ch’egli aveva nel mio amico. Il suo modo di procedere lo intricava un po’ ma perchè riusciva quasi sempre, non si poteva che ammirarlo.
— Andiamo verso una rude caccia questa sera, egli proseguì. Si tratta di prendere uno dei più brillanti nostri bricconi, John Clay, il più abile dei nostri ladri, falsari, banditi. Del resto, perfetto uomo di società, nipote di un duca, allievo egli stesso di Eton e graduato di Oxford, dotato di cervello agile quanto le dita, anima nobile, perchè organizza delle sottoscrizioni per dotare istituzioni benefiche dopo avere svaligiato il palazzo di un pari del regno.
Son cinque anni che seguo le sue tracce, e non lo vidi mai…
Ma Holmes aveva frattanto chiamato due cabs; salii con lui nel primo, mentre i nostri due compagni s’introducevano nell’altro. L’amico mio quella sera era di umore poco comunicativo. Si accontentò dirmi che quel signor Merryweather era il direttore della succursale di una gran banca interessata nell’affare, e che non aveva accompagnato Peter Jones che per procedere a un arresto legale.
A Farrington Street, scendemmo dinanzi a una porta bassa, il signor Merryweather si arrestò, invitandoci a seguirlo.
Attraversammo un lungo corridoio chiuso da una porta di ferro, indi uno stretto passatizio giù di qualche gradino.
Un’altra porta ci arrestò; il signor Merryweather accesa una lanterna cieca, aprì il cancello, e ci precedette in una sala bassa, selciata, e ingombra di massicci coffani.
— Nulla a temere nè sopra nè sotto, bisbigliò la nostra guida picchiando il suolo coll’estremità della sua canna.
Ma il suolo suonò vuoto.
— Attenzione! mormorò Holmes, potreste mandare in aria la nostra impresa. Signor Merryweather, vi prego sedervi sopra una di queste casse, e lasciarmi agire.
Così dicendo, Holmes si era inginocchiato in terra e, col fanale in mano, esaminava le fessure del suolo.
— Abbiamo un’ora innanzi a noi. I nostri furfanti nulla potranno fare prima che Wilson si sia messo a letto. Allora andranno subito a metter in opera il loro piano. Domani è domenica, e s’essi riescono sono sicuri che nulla verrà scoperto prima di lunedì!
— Sì, e abbiamo ogni ragione di credere che ci si rubi il nostro oro francese.
— Quale oro francese? chiesi.
— Sapete come or fa qualche mese, per consolidare il nostro credito, noi dovemmo chiedere a prestito 350,000 marenghi alla Banca di Francia, somma che ci fu subito cortesemente data. Ora, si seppe dal pubblico che mai avevamo aperte quelle casse, e che si trovano nelle nostre cantine tal quale le abbiamo ricevute. Il cofano sul quale io sono seduto contiene 300,000 lire in oro, chiuse fra quattro strati di piombo. È una forte riserva per una succursale, e fummo avvertiti, come un colpo di mano si preparava per involarla…
Il signor Merryweather si arrestò.
— Ora, interruppe Holmes, prendiamo le nostre disposizioni. Dobbiamo anzitutto spegnere questa lanterna. Il nemico è troppo avanzato perchè noi ci permettiamo la menoma imprudenza. Mi terrò dietro questa cassa, e voi imboscatevi dietro quella. Quando compariranno, proietterò su loro un fascio di luce, e voi vi slancierete dietro ad essi.
Non hanno che una porta di uscita, dalla cantina Wilson, verso lo square.
— Appostai colà due agenti, disse Peter Jones.
— Allora la rete è ben tesa: aspettiamo. Spengo.
Tutto si avvolse nelle tenebre. Rannicchiato nel mio nascondiglio, col revolver carico innanzi a me, attendevo. E i minuti scorrevano lenti come delle ore.
Di repente una fascia bianca, come una linea, apparve sul suolo; si estese, si allargò, divenendo più lucente. Indi senza rumore, un buco parve formarsi, e una piccola mano, delicata come una mano di donna, comparve nel quadrato della luce.
Indi tutto ridivenne oscuro, la mano sparve, il buco si richiuse.
Un minuto passò. Un rumore sordo fu udito; una delle pietre, sotto una forte spinta, girò sopra sè stessa, e si abbattè da un lato, lasciando un buco spalancato, inondato di luce. Una testa comparve, piccina, molto giovane, la quale curiosamente ispezionò il punto ove noi eravamo nascosti. Delle spalle uscirono, vidi due ginocchia che vennero ad appoggiarsi sul limitare dell’orifizio. E porgendo la mano al suo complice rimasto abbasso, John Clay lo aiutò a salire.
Un’altra testa, esangue sormontata da un ciuffo di capelli ardenti comparve alla sua volta.
— Tutto va bene, mormorò Clay: non v’è nessuno. Hai gli utensili?… Ah! Siamo presi, fuggiamo!
Holmes difatti era sorto dal suo nascondiglio. Aveva afferrato il ladro, mentre l’altro, preso da Jones, riusciva a fuggire, scompariva dall’apertura lasciando nelle mani del poliziotto le falde del suo abito.
Clay aveva appuntato il revolver sull’amico mio, ma questi, col pugno suo d’acciaio, gli schiacciava la mano.
— Inutile John Clay, vi tengo.
— Difatti, lo sento, riprese l’uomo con una flemma imperturbabile. Ma almeno il mio compagno vi sfuggì.
— Non temete, sarà preso alla porta. Vi avevo pensato.
—La cosa fu preparata a meraviglia; abbiatevi i miei complimenti.
— Ve li ricambio per la vostra invenzione della lega dei Rouquins. Ben macchinata.
— Via, in cammino, disse Peter Jones. Vieni qui che ti leghi le manette, amico mio.
— Ehi, rispose Clay, pallidissimo, cercate essere più gentile; ho educazione e censo abbastanza per aver diritto ai vostri riguardi.
— Benissimo, sogghignò Jones. Sono agli ordini di Vostra Altezza, e quando ella vorrà, sarò felice d’indicarle il cammino della prigione.
— Questo tuono mi piace meglio, riprese Clay. Vi seguo.
E curvandosi con un saluto schernevole, il giovanotto sparve dietro il suo angelo custode.
— Questa storia mi ha molto divertito, concluse Holmes quando tutti tre, il signor Merryweather ed io ci ritrovammo in strada. Questa lega dei «Rouquins» era una trovata! Mentre il nostro gioielliere copiava l’Enciclopedia, gli si minava la cantina! Quel bandito ha del genio; peccato che si debba chiuderlo ora fra quattro mura!
Mi fece passare qualche buon momento, e mi tolse alla triste noia, che mi logora. Ora si deve riprendere l’esistenza quotidiana!
Ah! come la vita è stupida!
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