Racconto di Neera

 

Spadafora, uno dei pochi paesi rimasti lontani da ogni rete ferroviaria, ignoto alla carta del Touring perché nessuna bicicletta e nessuna automobile vi passa mai non essendovi nelle sue vicinanze cosa alcuna degna di essere vista; Spadafora infine, uno dei paesi più poveri in qualunque senso e sotto qualsiasi aspetto, fu messo sottosopra un giorno da una straordinaria notizia ben degna di commuovere un paese dove le donne sono in grande maggioranza. Don Assalonne Mei, parroco, aveva ricevuto da una lontana città questa lettera inaspettata:

«Reverendo signor Parroco,

«Una donna di nome Ester Serpinelli, nativa di codesto paese di Spadafora ma vivente da quasi vent’anni all’estero, venne a morte il giorno 4 del corrente mese lasciando con suo testamento olografo, in data di un anno prima, eredi dello spoglio personale i poveri di Spadafora e nominando esecutore testamentario il reverendo parroco di detto paese. In seguito a che mi pregio avvertirla che tengo a sua disposizione numero tre bauli, due valigie, una cassa di legno e ventidue scatole di cartone contenenti il suddetto spoglio personale della defunta Ester Serpinelli. In attesa di pregiata risposta le presento, signor parroco, tutti i miei rispetti.

«Devotissimo

«Dott. Gaudenzio Ripetti

«Notaio.»

— Ed ora che cosa si fa? — aveva subito pensato don Assalonne togliendosi e rimettendosi la papalina, come se quel modo di arieggiare il cranio lo dovesse guidare più lucidamente attraverso il dedalo delle ventidue scatole di cartone, senza contare il resto. La città da cui proveniva la lettera era troppo distante perché egli potesse pensare neanche per ischerzo di andarvi in persona a verificare quella faccenda. Bisognava dunque scrivere e scrisse:

«Pregiatissimo signor Notaio,

«Mi affretto a darle ricevuta della sua stimata lettera nella quale era annunciata una eredità di spoglio personale per i poveri della mia parrocchia. Non essendo in grado di giudicare l’entità degli effetti lasciati dalla defunta Ester Serpinelli (che io non conobbi perché da quindici anni appena ho qui cura d’anime), le sarei obbligatissimo se volesse darmi maggiori ragguagli, in seguito ai quali e visto se mi conviene per il vantaggio de’ miei poveri accettare questo spoglio, ogni spesa dedotta, la pregherò del favore di mandare qui ogni cosa.

«Resto pertanto, egregio signor notaio, suo obbligatissimo

«Don Assalonne Mei

«parroco di Spadafora.»

Impostata colle sue proprie mani la lettera, don Assalonne mentre rientrava in casa si fermò sulla soglia della cucina a guardare la sua vecchia serva Agata che spennacchiava un pollo. A un tratto le disse:

— Agata, voi che siete di questo paese, vi ricordate di una certa Ester Serpinelli partita vent’anni sono? Signora Ester Serpinelli?

— I Serpinelli — rispose la donna — vossignoria lo sa al pari di me, non sono ricchi. Giacomo il taglialegna è un Serpinelli; sono Serpinelli quelli che fanno andare il mulino nel bosco, che non guadagnano nemmeno tanto da sfamarsi; signore Serpinelli, che io sappia, non ve ne sono mai state.

Lì per lì don Assalonne non chiese altro, ma la curiosità della vecchia serva stuzzicata nel lungo digiuno non la lasciò tranquilla. Tolta l’ultima penna al pollo, scosso il grembiule, ripulite le mani e infilato sul braccio il secchio da attinger acqua mosse alla fontana persuasa che vi avrebbe bene incontrato qualcuno. Non si ingannava infatti, che già due donne vi avevano attinto e prima di ripartire col carico scambiavano parola con Cristoforo, il vaccaro, venuto a vedere se la conca per le bestie era colma. A tutti costoro Agata domandò se avevano conosciuto una signora Ester Serpinelli.

A farlo apposta nessuno l’aveva conosciuta. Cristoforo il vaccaro tuttavia, cambiando di posto alla cicca che gli gonfiava una guancia, mormorò:

— Una Ester io conobbi, saranno vent’anni, che m’aveva stregato con i suoi occhi ladri e Dio sa che cosa non avrei fatto per entrarle nelle grazie. Ma la briccona sul più bello mi piantò in asso e nessuno la vide più in Spadafora.

— Allora è proprio lei! — esclamò l’Agata. — Si chiamava Serpinelli?

— Può darsi. Era sorella di quel Gianni che tiene adesso il mulino nel bosco.

— Serpinelli, per l’appunto.

— Ma sono tutt’altro che signori i Serpinelli.

— È vero; tuttavia questa Ester che voi avete conosciuta può aver fatto fortuna, che so, sposando, per esempio, un gran signore. Ora che ci penso mi pare di ricordarmela. Non era una ragazza bianca bianca con due occhi neri neri che sprizzavano fuoco?

— Sì, — fece Cristoforo, — parevano due bracie. È a quelle che mi sono cotto, ma la storia è vecchia e l’Esterina è morta certamente.

La serva del parroco si affrettò a recare al suo padrone le poche ed incerte notizie aggiungendo solamente di suo come fatto appurato il ricco matrimonio. L’Agata apparteneva a quel tipo di persone che hanno raramente una idea e quando per caso se la vedono pullulare nel deserto cervello vi si attaccano tenacemente col vago istinto che dovrà passare del tempo prima che ne spunti un’altra. Quest’idea poi del matrimonio di una ragazza di Spadafora con un gran signore, onorando in certo qual modo il paese, le mandava di rimbalzo una gloriola nella quale si ringalluzziva tutta. Se avesse avuto anche lei il coraggio di abbandonare il paese venti o trenta o quarant’anni addietro…. e perché no?

Il parroco ed il notaio intanto continuarono a scambiarsi delle lettere, finché un bel giorno il corriere che faceva lo scarso servizio di Spadafora scaricò nel cortile della canonica un cumulo di pacchi di tutte le dimensioni e di forme così svariate che l’Agata, rinunciando a parlare, rimase a bocca aperta per qualche minuto.

— Ed ora mo’ che cosa si fa?

L’esclamazione era del parroco. L’Agata, serrata ben bene la porta affinché nessuno venisse a curiosare prima del tempo, prese in esame quei colli uno per uno, palpandone la superficie, picchiando colle nocche nei fianchi, tentando coll’indice la resistenza delle funi incrociate ed espresse finalmente la sua opinione.

— Io direi di aprire qui, fra noi, prima di darne avviso al paese. Bisogna ben sapere di che si tratta.

— Giusto, giusto, — fece don Assalonne che dal momento che se li era visti dinanzi in un mucchio così fatto guardava i bauli, le valigie e le scatole con una certa diffidenza.

Fu ancora l’Agata che disse: — Apriamo?

E poiché il prete, paralizzato da una singolare timidezza al pensiero delle femminili spoglie che stavano per uscire fuori non osava pronunciarsi, essa, ratta, tagliò colle forbici che le pendevano dal grembiule la funicella di una scatola rotonda che più delle altre aveva colpito la sua immaginazione e ne venne in luce un gran cappello tutto rosso con piume di siffatta lunghezza che mai più ella avrebbe pensato un uccello le potesse rivestire.

Dietro quel primo cappello, araldo sfolgorante di eleganze ignote fino allora agli abitanti di Spadafora, altri ne versarono le misteriose scatole, diversi per forma, per colore, per audacie fantastiche ed impreviste. E come non si poteva lasciare tutta quella roba in mezzo al cortile, l’Agata, aiutata da don Assalonne, si pose coscienziosamente a portare in casa ogni oggetto man mano che veniva fuori.

Si ammucchiarono così nel modesto tinello del parroco pervaso da una luce monastica e da un odore misto di incenso e di rinchiuso seriche gonne ricoperte di falpalà, trine, nastri, busti di raso bianco e di raso carnicino, calze di seta traforate, guanti, fazzoletti di trine, camicie sottili trasparenti, fibbie, fiocchetti, cinture, mantelline, tutta una ondata di morbidezze, di luccichii, di profumi, di colori e di forme nuove. Certi nastri si attorcigliavano a guisa di serpentelli vivi intorno alle dita rugose della vecchia serva; da certe aperture di busto sembrava uscire uno scoppio di risa provocatrici e folli; non ridevano pure frementi ad ogni scossa le trine arricciate in fondo alle sottane, fluide tra le mani inesperte come se volessero prendersi giuoco dei loro nuovi padroni?

Più di una volta don Assalonne incespicò nello strascico di un abito da lui retto con braccia maldestre; gli caddero gli occhiali in una scarpetta bianca tempestata di lustrini e quando volle cercare più tardi il suo breviario lo trovò prigioniero fra un mazzo di ricci biondi e una scatola di belletto.

— Santo Dio, che cosa mi è mai capitato! — mormorò il buon prete con una inquietudine che cresceva di minuto in minuto.

L’Agata, infocata nei pomelli delle guance, ficcava gli occhi in mezzo a quegli splendori non risparmiando le osservazioni.

— Domando io se queste sono camicie! una tela di ragno è più solida; cerco inutilmente le camicie vere, perché già non è possibile che la defunta signora abbia indossato questa ragnatela senza avere una vera camicia. E come poteva camminare con queste scarpe che si piegano nelle mani a mo’ di un giunco? soffiare il naso in questi fazzoletti che non basterebbero a coprire l’ostia consacrata?

— Non mischiate il sacro col profano, — ammonì severamente don Assalonne. — Già ci siamo occupati anche troppo di questa roba.

Occuparsene però dovette ancora il buon curato contro suo genio nei giorni seguenti, perché avendo annunciato dal pulpito che c’era una eredità da dividere tra i poveri del paese, la sua porta fu presa d’assalto. Le donne principalmente non chiudevano più occhio alla notte facendo calcoli sopra calcoli, pensando ognuna di rifornirsi di abiti e di biancheria collo spoglio della defunta. I Serpinelli, in qualità di parenti, avanzavano le maggiori pretese e quantunque non avessero saputo più nulla della Ester fin dal giorno lontano della sua fuga, mostravano di interessarsi con maggior diritto degli altri.

Ma siccome il testamento parlava chiaro dei poveri di Spadafora senza precisare alcuno il parroco non poté tener conto delle querimonie dei parenti. Poveri poi in Spadafora lo erano, dal più al meno, tutti, eccettuato il farmacista, l’oste e poche altre famiglie. Fu dunque un accorrere in massa di cupidigie eccitate, di miserie speranzose, di desideri latenti sprigionatisi all’improvviso, come se una vampata misteriosa fosse passata sul tranquillo paese di Spadafora accendendo un focherello in ogni mente, un’ansia di gaudio in ogni cuore.

— Piano, piano, — badava a gridare l’Agata, — non vedete che pestate coi vostri zoccoli questo abito di velo? Giù quelle mani! Ehi! là in fondo, finitela con quel cappello, me lo spiumate tutto. Olà! olà! Non capite che è un busto? che bisogno c’è di fiutarlo? Lo avete forse preso per un mazzo di fiori?

La serva del prete si sbracciava a mantenere l’ordine spesso turbato da esclamazioni di meraviglia o da curiosità indiscrete, mentre don Assalonne andava e veniva, disorientato, colle mosse di un pesce fuori d’acqua, malcontento di sé e degli altri, pensando al modo di chiudere in fretta quella ridicola parentesi della sua vita.

Intanto, allo slancio ammirativo del primo momento, subentrava da parte di quelle povere donne la scoraggiante constatazione che nessuna di esse avrebbe mai potuto servirsi di quella roba. Invano le più giovani si sentivano crescere la saliva in bocca e tremavano di commozione toccando quelle stoffe, quei nastri, quei pizzi, quelle piume, quelle scarpette luccicanti d’oro, quelle vitine scollate che esse non avrebbero osato mettere, oh! no, ma dinanzi alle quali il loro cuore batteva collo stesso turbamento misto di paura e di attrazione invincibile che le prendeva qualche volta sulle balze scoscese dei loro monti là dove precipitava fosco d’ombre l’abisso. Invano! Di solide gonne di panno, di grossa tela, di pesanti calzerotti esse avevano duopo e il trovarsi dinanzi tutta quella roba magnifica ma inutile le rendeva meste.

— Cosa si fa? Cosa si fa? — gemeva don Assalonne.

Il consiglio lo diede la signora Radegonda, sorella del farmacista e vedova di un veterinario col quale aveva vissuto sei mesi appena, ma che per il fatto di essere stata maritata a un quasi dottore e di avere viaggiato (cinquanta chilometri lontano da Spadafora), assumeva volontieri delle arie da dottoressa e di donna pratica del mondo. Col suo naso aguzzo e la bocca tagliata in fessura da salvadanaio non le riusciva difficile di comporsi una maschera austera che incuteva rispetto agli ingenui spadaforesi.

Già guardando minutamente le opime spoglie sciorinate nel tinello la signora Radegonga aveva fatto un visaccio che così brutto ancora non lo aveva visto nessuno e tratto il parroco in un cantuccio non s’era peritata a mormorargli nell’orecchio qualche cosa di ben terribile perché il buon prete andava negando colla testa: Ohibò! Ohibò! armeggiando colle mani nell’aria a guisa di uno che sta per annegare.

— A buon conto, — insisté la signora Radegonda, — se questa Ester Serpinelli si fosse maritata avrebbe chiesto a lei la fede di battesimo.

— Ma io non c’ero allora, io non so nulla, io non sospetto di nulla.

— Per qualche cosa esistono i registri della parrocchia; li può consultare quando vuole.

— Ma non occorre, non occorre. Ora si tratta di dividere la roba.

— Io non ne ho bisogno, — dichiarò alteramente la signora Radegonda, — pure vorrei morire nuda come sono nata piuttosto che mettere il mio corpo a contatto di quelle vesti corrotte. Non capisce nulla lei? Naturale del resto poiché non ebbe…. moglie (stava per dire marito). Dia retta a me che conosco il mondo, che ho viaggiato…. questa è roba del diavolo!

— Uh! Uh! — fece don Assalonne.

— Un onesto sacerdote come è lei non può permettere che le sue pecorelle si dividano il bottino di Berlicche. Del resto che cosa ne farebbero di questi veli e di questi rasi per andare a zappar la terra? Sa che cosa deve fare? Venda tutto. Il denaro non conserva traccia della via per cui è venuto e i poveri di Spadafora ne avranno almeno qualche utile.

Ragionevole era il consiglio, e don Assalonne, che non vedeva l’ora di lavarsene le mani, lo accolse subito. Ci fu qualche difficoltà per sapere a chi vendere una merce così fuori dell’ordinario, ma la signora Radegonda si offerse di farne parola a certe sue conoscenze di città e don Assalonne ordinò all’Agata di tornare a rimettere tutto nelle rispettive scatole e bauli.

— Se ne esco con decoro, — pensò il buon parroco, — faccio una novena a Sant’Antonio.

Chi non si consolava invece di dover rinunciare a tanta grazia di Dio era l’Agata. Ad ogni oggetto che rientrava nelle scatole ella vedeva sparire un raggio, un bagliore, un ondeggiamento, e il tinello rifarsi buio e l’odore di rinchiuso risorgere dai mobili. Si fermava a rimirare i più piccoli particolari, i bottoni di una giacca, gli spilloni di un cappello, accarezzando ogni cosa con un rammarico appassionato che quasi le spremeva lagrime dagli occhi. Ma il più doloroso distacco lo provò sollevando delicatamente una sottana che, a farlo apposta, le parve rispondesse con un sommesso frou – frou di simpatia.

Bella era la sottana, magnifica, a larghe righe, una di amoerro rosa, l’altra di raso celeste; e sulla riga celeste correva una ghirlandina di rose, sulla riga rosa si avvicendavano i piccoli fiori celesti dei non-ti-scordar-di-me. Morbida la stoffa, spumosa, pieghevole, lucente; splendido il disegno; e un sottile profumo si svolgeva dalle pieghe più riposte dandole una singolare parvenza di vita.

— No, no, — gemeva l’Agata, — questa non me la lascio portar via. Non s’è mai visto una meraviglia simile; bisogna farne un abito per la nostra Madonna.

Appena la visione di un abito per la Madonna balenò radiosa nella mente della pia femminuccia, che trovò subito gli argomenti per farne persuaso don Assalonne. Anzitutto non si sarebbe mai più presentata una eguale occasione per cambiare il meschino abituccio di cotone che era una vergogna a vedersi sul corpo benedetto di Maria Santissima. Poi era un modo di propiziare continuamente l’anima della defunta tenendola presente alla misericordia divina. Infine restava visibile a tutto il paese una memoria del benefizio ricevuto e questo era quasi un dovere.

Tanto disse e tanto fece l’Agata, rincalzando i suoi argomenti con quelle infinite piccole premure che ogni donna sa trovare quando vuole ottenere qualche cosa da un uomo, che il parroco finì per accondiscendere; ed ella, felice, incominciò nell’ombra e nel mistero la grande opera. Importava che non trapelasse nulla prima del tempo stabilito per evitare inutili commenti nel paese, e il tempo stabilito doveva essere la Madonna di settembre, consacrata alla festa particolare di Spadafora.

Con aghi e forbici, con misure e rettifili, piena di trepidanza e di audacia insieme, la serva del parroco si improvvisò sarta del paradiso; tolto dalla statua della Madonna l’abito vecchio, lo distese sulla meravigliosa sottana per rilevarne le proporzioni esatte, sentendo che ella compiva allora l’azione più importante di tutta la sua vita; e taglia e cuci e stringi e allenta, ora sembrandole di aver toccata la perfezione, ora avvilita in presenza di improvvise difficoltà, ma sempre sostenuta da quella specie di febbre che accompagna le grandi creazioni, ella poté finalmente mostrare l’opera sua a don Assalonne che ne rimase abbagliato.

Effettivamente la povera e meschina Madonna di Spadafora non sembrava più quella; cinta dalle pieghe flessuose della magnifica stoffa, la figura di legno che una rozza mano aveva intagliata con linee di una rigidità arcaica acquistava agli occhi dei due ingenui ammiratori una imponenza nuova. Gli occhietti dell’Agata luccicavano di strabocchevole letizia; quelli del parroco, più calmi, più avvezzi a contenersi, sparivano ogni tanto sotto alle palpebre quasi volessero raccogliere in asilo sicuro la gamma ridente dei due colori celeste e rosa così abilmente fusi nell’avvicendamento delle righe e dei fiori.

— Bello, bello, non c’è che dire. Brava Agata!

Questo fu il primo trionfo; ma ben altri se n’aspettava l’Agata per il giorno della festa, quando trecento o forse quattrocento persone sarebbero rimaste a bocca aperta dinanzi al capolavoro. Notti insonni, veglie agitate, ansia ed impazienza furono i naturali forieri dell’avvenimento. Contro l’abitudine, non si ammisero alla vigilia le donne del paese per vestire la Madonna; l’Agata volle fare tutto da sé affinché l’effetto della improvvisata riuscisse più solenne.

E finalmente il gran giorno venne, giustificando tutte le speranze dell’Agata che rincantucciata presso all’altare si godeva ad una ad una le esclamazioni del popolo accorso, intuendo nelle sue viscere di pulzella le ebbrezze di una madre a cui lodano la bella prole.

Improvvisamente, vera folgore a ciel sereno, la sua beatitudine fu interrotta da un terribile pizzicotto nel braccio.

— Siete pazza? — le urlò nell’orecchio la bocca a salvadanaio della signora Radegonda. — Bisogna proprio aver perduto la testa per vestire la nostra Madonna con quella roba venuta chi sa da dove. Come mai don Assalonne ve lo ha permesso? Si è mai visto un simile sacrilegio?

— Ma che sacrilegio! — borbottò l’Agata fregandosi il braccio, divenuta a un subito di pessimo umore — ; se un’anima buona ha lasciato il suo spoglio ai poveri la Madonna non può che aggradire la sua parte.

— Siete proprio una zotica. Credete che non riconosca questa sottana? che non l’abbia esaminata, direi interrogata, se voi ne poteste capire qualche cosa. Ma cosa volete mai capire che siete senza marito, che non avete pratica di mondo e non metteste mai piede fuori del paese?

Al sommesso battibecco delle due donne la gente incominciava a distrarsi e la serva del parroco, vedendo compromessa la maestà della chiesa, rispose un: — Vada alla malora! — che mise il colmo alla collera della signora Radegonda, la quale, ritta in piedi, col naso più che mai aguzzo, teso l’indice minaccioso verso l’avversaria, esclamò:

— Andate alla malora voi che vestite la Madonna colla sottana del diavolo!

A memoria d’uomo non si era mai dato uno scandalo simile in Spadafora. L’Agata svenne cadendo a ridosso dell’altare, mentre la folla si stringeva intorno alla signora Radegonda per tentare di calmarla. Ma proprio allora un grido di spavento risuonò sotto la volta della chiesa e si vide una lingua di fuoco investire violentemente l’abito della Madonna. In men che si dica, le belle righe, i fiori delicati della serica stoffa scomparvero in mezzo alle fiamme ed al fumo.

È ben vero che alcuni volonterosi si prestarono subito a spegnere l’incendio saltando addosso alla sacra immagine con una furia che mai più si sarebbero permessa in altra occasione, ma brancicando alla cieca finirono col rovinare anche quello che per avventura s’avrebbe potuto mettere in salvo. Era una pena a vedere brandelli di amoerro rosa cadere sul suolo smunti ed avvizziti proprio come rose morte, e strisce di raso celeste volteggiare per l’aria sotto gli insulti del fumo che ne faceva uno straziante simulacro di illusioni perdute.

La signora Radegonda continuava a gridare: — Ecco la vendetta divina!

L’Agata, riavutasi dallo svenimento, piangeva a calde lagrime, e Dio sa dove si sarebbe andati a finire se il sagrestano non fosse accorso a far sgomberare la chiesa.

Mogio mogio nel suo tinello oscuro don Assalonne si abbandonava ad amare riflessioni. Quando mai le era venuto in mente a quella Ester Serpinelli di lasciare una così stramba eredità e di appiopparla precisamente sulle sue spalle! È obbligato un uomo che vive fuori del mondo, un povero prete di montagna, a conoscere vita miracoli e abitudini delle donne che non ha mai nemmeno viste? Certo, egli aveva accettato con soverchia leggerezza il carico di quel vestiario bizzarro, ma santo cielo, chi poteva immaginarne le conseguenze? La colpa maggiore, indubbiamente, andava difilata all’Agata ed alla sua strampalata idea di vestire la Madonna con quella sottana indiavolata….

Toltasi la papalina con un movimento rabbioso, don Assalonne si grattava la pera e la sua faccia bonaria andava facendosi buia. I teologhi, i padri della Chiesa, tutti gli interpreti della divina volontà concordavano col dire che Dio non avrebbe più fatto miracoli in un mondo che se ne mostra così poco degno. Miracoli dunque no. Tuttavia, chi può mettere ostacolo al volere di Dio? E se per un caso eccezionale, Lui che tutto può, avesse voluto ancora una volta ricorrere al miracolo, conveniva al parroco di Spadafora di contrastarglielo? Ma, corbezzoli, un miracolo nella sua parrocchia, anzi un castigo di Dio, chi sa a quali avvenimenti lo preparava! Se ne sarebbe immischiato il vescovo, forse il Santo Padre….

Don Assalonne sudava freddo. Non potendo reggere al peso di pensieri tanto gravi si alzò e per la porticina segreta della chiesa volle andare sul posto a verificare la strage.

Tutto si trovava ancora nel disordine che vi aveva lasciato la folla dei fedeli; le panche smosse, qualche rosario, qualche fazzoletto per terra, pezzi di stoffa bruciacchiata qua e là. Avvicinandosi all’altare vide la cara Madonna spogliata d’ogni suo ornamento e si sentì stringere il cuore, ma vide in pari tempo un oggetto verso il quale si precipitò con subita speranza. Era una candela dell’altare rovesciata proprio accanto alla sedia dove l’Agata aveva eretto il suo posto di osservazione e dove era caduta in seguito allo svenimento trascinando la candela che senza alcun dubbio aveva infiammato l’abito della Madonna. Ora la spiegazione dell’incendio si presentava semplice, chiara, indiscutibile.

— Signore vi ringrazio! — esclamò il prete inginocchiandosi e baciando con ardore i piedi della Madonna.

Comprese che il buon Dio si era accontentato di punirlo per la sua leggerezza con un po’ di paura e tornò alla pieve con un passo tanto leggero che sembrava volasse.