Racconto di Nicola Moscardelli

 

Dalla terrazza della villa Spina si ammira uno dei più bei tramonti della città, e gli amici non mancano mai all’invito dei padroni di casa sicuri di godere della loro amabile ospitalità e di uno spettacolo quanto pochi altri bello.

La villa è solitaria su di un colle alle porte della città e si scorge da essa la distesa della campagna rotta dalle rovine degli acquedotti e delle terme. I pini ed i cipressi scandiscono quel silenzio: e quella augusta desolazione, sulla quale la luce del tramonto posa il colore che solo le conviene, sembra a quel tocco animarsi e ripalpitare quasi che l’ultima ora del giorno risusciti i fremiti della vita mattinale, tal che le strida delle rondini paiono annunciare un’ebrezza che comincia piuttosto che celebrare la dipartita del sole.

A poco a poco alberi e rovine si confondono nell’ombra calante: ciò che la luce aveva diviso, l’oscurità rende eguale, ed una medesima notte copre i resti dell’età tramontate e le chiome delle piante adolescenti. Quasi toccato da un’aerea mano ognuno dei presenti si scuote: è un brivido di freddo che sfiora le fronti e rompe il silenzio. Anche sulla terrazza si fa notte e si potrebbero accendere le lampade. Ma il padrone di casa ci avverte che non è opportuno.

— Lo spettacolo vero – egli dice –, la contropartita del tramonto comincia ora giù nella strada.

La villa è circondata da una via solitaria, dominata da alti alberi che come il giorno lasciano piovere un’ombra discreta così a sera lasciano cadere un’oscurità più discreta ancora.

Alle sette e mezzo dal fondo della via si comincia a profilare una coppia che sale lentamente.

— Se ci fosse luce sulla terrazza essi si sentirebbero spiati e non sarebbero più a loro agio. Noi d’altra parte – dice il padrone di casa – non potremmo ammirarli.

Ci disponiamo lungo il parapetto della terrazza, col capo nascosto tra i rampicanti che fanno spalliera e si allacciano l’uno all’altro, ed incominciano lo studio. Siamo degli entomologi discreti che invece di studiare la vita delle farfalle o delle formiche studiamo la vita degli uomini. Uno ha portato un binocolo per le scene più interessanti. Al momento buono ce lo passeremo.

Non s’è ancora accesa la prima stella in cielo che già la prima coppia è giù nella strada. Sono sicuri di essere soli e non visti, ed i loro volti esprimono il sentimento che li anima senza la maschera della convenienza che fa di ogni uomo un attore per ventitré ore del giorno.

Un’altra coppia spunta dal fondo della strada, in tutto simile alla prima. Al rumore dei passi sulla ghiaia la prima coppia si volta e come se non avesse visto nessuno riprende il cammino. Parlano guardandosi negli occhi e tenendosi per mano, non sentendo null’altro che il suono basso delle loro parole, null’altro vedendo che il fuoco delle loro pupille. La strada è lunga e in fondo digrada verso un pendio che mena ad altre ville. La presenza dell’abitato sfiora l’attenzione degli innamorati senza che essi vi badino, e appena giunti al limite estremo del silenzio tornano indietro automaticamente senza che l’una coppia sfiori o guardi l’altra, senza che una parola dell’una sia ascoltata dall’altra.

Attraverso il fogliame dei rampicanti che cingono la terrazza noi fuggiamo lo sguardo in silenzio. Basterebbe che uno di noi tossisse o smuovesse una sedia perché quell’incantamento fosse turbato. Ma noi non ci muoviamo.

Consideriamo gli attori di una scena che ha nome vita, senza sorridere e senza parlare.

A quest’ora gli uffici ed i negozi si sono chiusi, ed ognuno di questi è venuto quassù senza perdere un minuto di tempo. Per tutta la giornata, dietro la scrivania dell’ufficio o dietro il banco del negozio, impiegati o commessi, essi hanno visto balenare il volto della persona amata come i viaggiatori del deserto vedono verdeggiare l’oasi lontana. Per questa ultima ora del giorno essi hanno sopportato il giorno intero, per la rosa di questo momento non hanno sentito le spine di tutte le altre ore: e mentre il selciato ribolliva stringendo intorno alle fronti un cerchio di fuoco, essi assaporavano la freschezza di queste prode, già lambiti dall’ombra di queste fronde, dalla fluidità di questo vento. È una provvista di vita che essi fanno per poter riprendere il cammino di domani, come nell’oasi che interrompe il deserto si spegne la sete e si riempie l’otre con l’acqua che permette il proseguimento del viaggio.

Un’automobile sale con lieve fruscio, s’arresta: il motore si spegne, i fanali anche. Le coppie si volgono un istante: la riconoscono, e la dimenticano. È la solita macchina di tutte le sere. Uno sportello si apre: aguzzando lo sguardo scorgiamo la coppia: lui è un uomo di una quarantina d’anni, serio: lei forse ha la stessa età, ma sembra più giovane nel viso appena intraveduto. Ogni tanto un braccio sporge fuori dallo sportello, scuote la cenere della sigaretta, si ritrae. Discorrono placidamente come possono discorrere due compagni, ma il posto e l’ora ci dicono che essi non sono compagni. Forse entrambi hanno rotto una maglia alla catena dei loro doveri, e come i forzati prendono aria nei cortili della prigione, così essi a sera vengono a prendere aria nella strada solitaria della città. Il loro amore non ha rose intorno alla fronte: non è il fanciullo che ride, ma l’erma bifronte che, al bivio, da una faccia sorride e dall’altra piange. I destini che non si incontrarono lungo la via grande, si incontrano qui, nella via laterale, dove si prepara il futuro o si sconta il passato. Con la solidarietà inconscia e indistruttibile degli innamorati, le giovani coppie ignorano la coppia più adulta: sfiorano senza mirarlo quel mondo limitato dal radiatore e dalle ruote di ricambio: non vedono nemmeno la mano che ogni tanto scuote la sigaretta fuori dello sportello aperto.

Nessuno di noi parla. Nemmeno il più giovane fra noi che di tutto sorride, osa sorridere della scena che si svolge sotto ai nostri occhi. Inconsciamente anch’egli sente d’aver fissato lo sguardo sull’oscuro laboratorio della vita, sugli alambicchi che distillano l’elisir della vita stessa. E poiché le stelle già occhieggiano in cielo, anch’egli sente che la medesima forza che unisce gli astri e li dispone secondo l’ordine delle costellazioni, ha unito questi minimi esseri, frammenti di mondi distrutti che tentano di riunirsi secondo la legge oscura della creazione: e come le stelle punteggiano il cielo di lumi così queste stelle d’un cielo terrestre punteggiano la terra coi fuochi della loro speranza. Una dietro l’altra le generazioni passano sulla strada in ombra: i figli calpestano l’orma dei padri, così che le acque della vita sono sempre ad una stessa altezza.

Ormai le coppie sono partite. Una luce fiammeggia sulla strada, seguita dallo strepito del motore. Un colpo secco dello sportello che si chiude e la macchina parte anch’essa. Ora la via è deserta e scura come se l’ultima luce se ne fosse andata con gli innamorati. Ci scuotiamo, ci alziamo. Forse evitiamo di guardarci in faccia.

Siamo dunque già così vecchi che invece d’essere in mezzo al fiume miriamo dai ponti l’acqua fluire?