Racconto di Charles Bukowski
Scesi dall’autobus a Rampart Street, tornai indietro d’un cento passi fino a Coronado Street, arrancai su per la breve salita, salii i gradini fino al vialetto d’accesso; lo percorsi, arrivai al mio cortile. Davanti al portone di casa mi soffermai un pezzo, col tepore del sole sulle spalle. Poi, trovata la chiave, aprii la porta e salii su per le scale.
“Chi è?” domandò Madge.
Non risposi. Salii su lentamente. Ero pallido e piuttosto stanco.
“Ma chi è?”
“Non aver paura, Madge, sono io.”
Mi fermai in cima alle scale. Lei sedeva sul divano con indosso un vecchio abito di seta verde. Aveva
un bicchiere di vino in mano — vino di porto con cubetti di ghiaccio — come piaceva a lei. “Baby!” E mi corse incontro. Mi abbracciò, pareva felice. “Oh, Harry, sul serio sei tornato?” “Può darsi. Se duro. C’è nessuno di là in camera?”
“Non dire sciocchezze. Vuoi bere?”
“Me l’hanno proibito. M’hanno detto di mangiare pollo lesso, uova sode. M’hanno dato la lista.” “Quei bastardi. Siediti. Vuoi fare un bagno? Vuoi qualcosa da mangiare?”
“No, mi siedo soltanto.”
Andai a sedermi sulla poltrona a dondolo.
“Quanti soldi ci sono rimasti?” le domandai. “Quindici dollari.”
“Sono andati via in fretta, eh?”
“Vedi…”
“Con l’affitto, quanto siamo in arretrato?”
“Due settimane. Non sono riuscita a trovare un posto.”
“Lo so. Di’, la macchina dov’è? Non l’ho vista qui fuori.”
“Oh dio, brutte notizie. L’ho prestata a certa gente. Ci sono andati a sbattere. Speravo di farla riparare
prima che tu tornavi. È al garage qui all’angolo.”
“Cammina ancora?”
“Sì, ma volevo fartela trovare aggiustata.”
“Una macchina così può andare in giro anche col davanti ammaccato. Basta che il radiatore sia in
ordine e i fari funzionino.
“Cristo! mi pareva di aver fatto bene!”
“Torno subito,” le dissi.
“Ma, Harry, dove vai?”
“A dare un’occhiata alla macchina.”
“Perché non aspetti fino a domani? Sei sciupato. Riposati. Parliamo.”
“Torno presto. Mi conosci. Non mi piacciono le cose in sospeso.’
“Oh, merda!”
“Senti, qualcuno deve impedire che questa barca affondi. E tu non sei buona a nulla, è risaputo.”
“Te lo giuro, Harry, mi son data da fare. Ogni giorno a cercare lavoro, mentre eri via. Non ho trovato
niente.”
“Dammi i quindici dollari.”
Madge prese la borsetta, ci guardò dentro.
“Senti, Harry, lasciami quel che basta per una bottiglia di vino, quella è bell’e finita, e stasera bisogna
festeggiare il tuo ritorno a casa.”
“Gentile, Madge, da parte tua.”
Frugò nella borsa e mi porse un deca e quattro pezzi da uno. Le strappai la borsetta di mano e ne
rovesciai il contenuto sull’ottomana. Tutta la sua paccottiglia. Più qualche spicciolo, una fiaschetta di porto, un biglietto da cinque e uno da un dollaro. Fece per arraffare il cinquone, ma fui più svelto di lei. Poi le diedi uno schiaffo.
“Brutto bastardo! Sei sempre il solito figlio di mignotta, non cambi mai!” “Sì, è per questo che non sono crepato.”
“Se t’azzardi a menarmi ancora, me ne vado.”
“Lo sai che non mi piace menarti, baby.”
“Sì, con me ti ci metti, ma a un uomo mica gli meneresti, eh?” “Questo adesso che diavolo c’entra?”
Presi il cinquone, scesi le scale, uscii.
Il garage era in fondo alla strada. Quando entrai il garagista giapponese stava dando una vernice d’argento alla calandra del radiatore, appena messa su. Stetti un pezzo a guardarlo. “Gesù, ma è un lavoro alla Rembrandt, quello,” gli dissi. “La sua macchina, mister?”
“Sì. Quanto viene?”
“Settantacinque dollari.”
“Cosa?”
“Settantacinque dollari. Una signora l’ha portata qui.”
“Una puttana l’ha portata qui. Stia a sentire, quella macchina neanche li valeva, tutta intera,
settantacinque dollari. Sì Neppure adesso li vale. Quella griglia lì l’avrà pagata cinque dollari sì e no, dallo sfasciacarrozze.”
“Vede, mister, la signora ha detto…”
“Chi?”
“Insomma, quella donna m’ha detto…”
“Non rispondo per lei, amico. Sono appena uscito dall’ospedale. Le pagherò quel che posso e quando
posso, ma son senza lavoro e ho bisogno di quell’auto per trovarmelo. Ne ho bisogno subito. Se trovo da lavorare, la pagherò. Sennò, non posso. Dunque, se non si fida, dovrà tenersi la macchina. Le darò il libretto. Abito qui vicino. Vado a prenderlo, se vuole.”
“Quanto mi può dare, per adesso?”
“Cinque dollari.”
“Mica è molto.”
“Gliel’ho detto, sono appena uscito dall’ospedale. Quando avrò un lavoro, la pagherò. O si fida, o si
tiene l’automobile.”
“Mi fido,” disse. “Mi dia i cinque dollari.”
“Lei non lo sa, quanto ho faticato per questi cinque dollari.”
“Come sarebbe?”
“Lasci perdere.”
Prese i soldi, io l’auto. Camminava. Il serbatoio era mezzo pieno, pure. Dell’acqua e dell’olio non mi
preoccupai. Feci un paio di volte il giro dell’isolato, per provare che effetto faceva guidare di nuovo. Era bello. Poi mi fermai davanti al negozio di vini e liquori.
“Harry!” esclamò il vecchio col grembiule bianco sporco. E sua moglie: “Oh, Harry!”
“Dove siete stato?” mi chiese il vecchio dal grembiule sudicio.
“In Arizona. Con un’impresa mineraria.”
“Vedi, Sol,” disse la vecchia, “te l’ho sempre detto che è un brav’omo, Harry. Ha sale in zucca, ha.” “Dunque,” dissi, “vorrei due confezioni di birra da sei, in bottiglie, a buffo.”
“Un momentino,” disse il vecchio.
“Come sarebbe? Non ho sempre pagato tutti i buffi?
“Sì o no?”
“Voi va bene, sì, Harry. Ma lei. Ci ha una pendenza di… vediamo, vediamo… tredici e settantacinque.” “Cosa volete che sia. Sono arrivato anche a ventotto doli lari. E ho pagato fino all’ultimo soldo, sì o
no?”
“Sì, Harry, ma…”
“Ma cosa? Volete che vada da un’altra parte? Volete che vi lasci il buffo aperto? Non vi fidate per un
po’ di birra, dopo tutti ‘sti anni?”
“E va bene, Harry,” disse il vecchio.
“Okay, qua nel sacchetto. E anche venti Pall Mall e due sigari Dutch Master.” “Okay, Harry, okay…”
Tornai su in casa. Mi fermai in cima alle scale.
“Ah, Harry, hai comprato la birra! Non la bere, non voglio vederti morire, sai, baby?”
“Lo so, Madge, lo so, Ma i dottori non capiscono un cazzo. Stappami ‘na bottiglia. Sono stanco. Mi
sono strapazzato. Sono uscito di là da due ore sì e no.”
Madge tornò con la birra e un bicchiere di vino per sé. S’era messa le scarpe coi tacchi alti. Si sedette e
accavallò le gambe. Era sempre un bel tocco. Quanto al corpo, niente da dire. “Hai riavuto la macchina?”
“Sì.”
“Quel giapponese è gentile, non ti sa?”
“Per forza che lo è.”
“Casa vuoi dire? Non ha riparato la macchina?”
“Sì. É gentile. É venuto qui da te?”
“Harry, non ricominciare! Non scoperei mai un giapponese, io.”
Si alzò. Aveva il panino bello piatto. Cosce, fianchi, culo, a posto. Che puttana. Trincai mezza
bottiglia di birra. Le andai vicino.
“Lo sai che sono pazzo di te, Madge, pupa, ammazzerei per te, lo sai o non lo sai?”
Mi feci più vicino. Mi sorrise. Gettai via la bottiglia di birra, le tolsi di mano il bicchiere di vino, me lo
bevvi d’un sorso. Cominciava a sentirmi decentemente per la prima volta in non, so quanto tempo. Eravamo vicinissimi. Lei dischiuse quelle. labbra selvagge, carnose. Le diedi una spinta, con tutt’e due j le mani, forte. Cadde sul divano.
“Brutta puttana! Hai fatto un buffo da Goldbarth per tredici e settantacinque, ver’o no?” “Non lo so.”
La gonna le saliva un pezzo in su.
“Puttanaccia!”
“Non chiamarmi puttana!”
“Tredici e settantacinque!”
“Non so di cosa parli.”
Le montai sopra, cominciai a baciarla, a tastarla sul petto, fra le gambe. Piangeva.
“Non… chiamarmi… puttana… Tu lo sai che ti amo, Harry.” Mi raddrizzai, feci un passo indietro. “Adesso mi ti pappo, baby, mi ti pappo.”
Si mise a ridere.
La sollevai fra le braccia, la portai cli là, la scaricai sul letto.
“Ma sei appena uscito d’ospedale, Harry!”
“Quindi, sono quindici giorni di sperma che ti beccherai, bellezza!”
“Non parlare sboccato!”
“Vaffanculo.”
Saltai sul letto, m’ero già sbarazzato dei vestiti.
Cominciai a spogliarla, carezzando e baciando. Era un gran tocco di carne femminile.
Le sfilai le mutandine. E, come ai vecchi tempi, glielo ficcai dentro.
Diedi otto o dieci belle stantuffate, lentamente, con grazia. Poi essa mi fa: “Non penserai mica che la
darei a uno sporco giapponese, di’?” “Penso che la daresti a chiunque.” Diede un colpo di reni e mi estromise. “Ma che cazzo ti prende?” gridai.
“Ti amo, Harry, lo sai che ti amo. Mi fai male, quando parli a quel modo.” “Ma sì, baby, lo so che non la daresti a uno sporco giapponese. Scherzavo.” Madge dischiuse le cosce e glielo rificcai in corpo. “Oh, daddy, era da tanto!” “Da tanto? davvero?”
“Che vuoi dire? Ricominci?”
“No, no, baby. Ti amo, cocca, ti amo, ti amo.” La baciai sulla bocca, seguitando a pompare. “Harry,” essa disse.
“Madge,” dissi io.
Aveva ragione.
Era da tanto.
Il vinaio avanzava tredici e settantacinque, più le dodici birrette, più le sigarette e i sigari. L’ospedale
conteale di Los Angeles avanzava da me 225 dollari. Allo sporco giapponese dovevo 70 dollari. E poi c’erano altre piccole fatture da pagare. L’abbracciai stretta stretta, e lei a me, le pareti ci si strinsero addosso.
Che chiavata, ragazzi.
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