Racconto di Antonio Naspri
Non potete immaginare quanti peli, fili, pelucchi di cotone, di lana o di polvere possano annidarsi dentro una pistola semiautomatica. È un mix deleterio per le parti meccaniche che lavorano in attrito tra di loro, un invito a nozze per un possibile bloccaggio o surriscaldamento.
Nel cassetto del trumeau, giù in garage, ho sempre tenuto tutto quanto mi serviva per la pulizia. Nella cassetta degli attrezzi custodivo: un solvente adatto per i residui di polvere, dell’olio lubrificante di buona marca, pezzuole di cotone di varia grandezza e alcuni scovoli di crine e di rame del giusto calibro.
Quando ho sparato in testa, prima a Lara, mia moglie, poi a Sandrino e Michela, i miei due figli e infine a me (con un’arma diversa) ero sicuro che tutto avrebbe funzionato alla perfezione. Non potevo concedermi errori – capite – e, infatti, non ne ho commessi.
Così si fa nella vita, bisogna essere determinati, concentrati, se si vuol raggiungere un obiettivo, e io, vi assicuro, lo ero. Lo sono sempre stato.
Fin dal liceo quando il mio compagno di banco si divertiva a “disordinare” l’ordine minuzioso con cui disponevo i vari oggetti sul banco, la penna biro nera per gli appunti sul quaderno, la matita per le note a margine nei libri, le due gomme, quella dura e quella pane a destra del quaderno, il fa punte con le due bocche, più giù sotto le gomme, quella piccola per i lapis e quella più grande per le penne rosse e blu. Non poteva capire il male che mi faceva.
Non ero un maniaco, direi piuttosto un meticoloso (ecco, sì, è questa la parola giusta), attento a che tutto fosse al suo posto insomma. Che, non solo io, ma anche gli altri potessero contare sempre su di me, sul mio rigore, la mia affidabilità, in qualsiasi circostanza, anche nelle cose più piccole, meno importanti.
E questa meticolosità l’ho riportata anche nella mia famiglia, quando l’ho finalmente avuta, come tutti.
Attento che il disordine, la disaffezione, la superficialità, la disarmonia non avessero la meglio sugli assetti, la sistemazione, la disposizione razionale e armonica delle cose. Nello spazio e nel tempo.
Ero io, solo io, nella mia Valle di Elah, a stirare con cura ogni sera la piega dei pantaloni perché l’indomani fosse perfetta, solo io a ridisporre con cura gli oggetti colpevolmente spostati durante il giorno dal loro luogo naturale dai bambini o anche da Lara.
Magari lo facevano incolpevolmente, certo, ma intanto…
Quando gli affetti, i sentimenti non sono gratuiti, ma necessari come l’aria che si respira, hanno bisogno di più attenzioni, di pazienza, di abitudini consolidate, e io – queste doti – le ho sempre alimentate, in modo minuzioso.
Quando ho esploso il primo colpo della semiautomatica – una Colt Navy ad avancarica del tamburo – a pochi centimetri dalla nuca di mia moglie sapevo che per esplodere i colpi successivi sarebbe bastato tirare solo il grilletto. Sotto l’azione della molla di recupero il carrello ritorna subito in sede e preleva – in modo istantaneo – una nuova cartuccia dal caricatore. Ne avevo otto nel tamburo. Ero sicuro del fatto mio. Ero allenato. Otto, esattamente otto, sarebbero bastati.
Come fa la pallottola, spinta dalla combustione, attraversando la via che offre minore resistenza, e cioè la canna, ho infilato in un balzo le scale e puntando la stessa arma alla nuca dei miei due bambini (che stavano dormendo) ho esploso, uno dopo l’altro, altri due colpi. La sensazione di rinculo della semiautomatica è minore rispetto al normale revolver, e la mano non ha tremato.
Non conservo nessuna percezione della scena del delitto così come è stata ricostruita dagli inquirenti. Credo loro sulla parola se hanno accennato a immagini raccapriccianti. D’altra parte era inevitabile. Quello con cui non concordo – invece ‒ sono le ipotesi formulate affrettatamente dal magistrato di turno (una donna!) subito dopo la scoperta dei cadaveri, compreso il mio ovviamente: raptus improvviso, lucida premeditazione, possibili dissapori.
Niente di tutto questo, ovviamente. Non sono uno stupido, né malato, men che meno un debole.
Solo che doveva pur capitare, un giorno o l’altro.
Non condivido nemmeno l’analisi, fatta a caldo, dai criminologi circa la miscela esplosiva data dalle tre presunte componenti che – in casi come questo – identificano le stragi familiari: intolleranza allo stress, stato depressivo o, ancora, una forte componente narcisistica dell’assassino.
Ehi dico! Abbassate i toni. Siate più umili di fronte al dolore degli altri.
Quando ho rivolto l’altra arma – una Beretta Px4 Storm, semiautomatica con due colpi in canna ‒ contro me stesso, sparandomi alla tempia, ho intuito, nel tempo che l’energia cinetica prodotta dai gas facesse il suo effetto, l’assoluta giustezza del mio gesto, ricomponendo così, una volta per tutte, il puzzle disordinato della mia famiglia in una figura compiuta. Finalmente definita. Esattamente quella che c’era sul coperchio della scatola del puzzle, che IO avevo comperato.
Come quando si getta un sasso nell’acqua, i cerchi partono concentrici, precisi, hanno voglie infinite, ma, alla fine, disegnano spirali ampie e risolute. Se non trovassero ostacoli nel loro propagarsi finirebbero per ricongiungersi in un solo punto. Esattamente quello. Ho tirato io quel sasso, sapevo quel che avrebbe comportato. Come nei sogni, le cose importanti affiorano dopo molto tempo. L’importante è non nascondere la mano, non essere di freno al naturale moto dell’inerzia.
E adesso scusate ma non ricordo più cosa ho “fatto” dal momento in cui ho esploso l’ultimo proiettile, quello contro me stesso, intendo.
Non vi erano altre soluzioni per evitare la sofferenza? No, almeno io non le ho trovate. E chi pensa che lui – al mio posto – ne avrebbe avute, è un bugiardo. La vita è oscena (tanto quanto la morte). E non è più tempo di “fare le signorine” quando lo si comincia a capire.
Non pretendete da me giustificazioni o soluzioni a ciò che è INDICIBILE, non fate i moralisti. Ho solo seguito i canoni del pensiero logico, accumulato informazione, separato i sentimenti, selezionato ipotesi, determinato un pronostico sul da farsi. Poi ho agito. Combinando – credo nel miglior modo ‒ il risultato finale di una riflessione.
Nulla a che vedere con la natura compulsiva di un serial killer, nessun raptus, nessun trauma, nessuna patologia né connotazione sadica. Semmai il contrario.
“Più il dolore è determinato e preciso, più l’istinto della vita si dibatte”.
Ma poi prevale la razionalità. La precarietà diventa convinzione.
“Soltanto seguendo l’istinto, il modo d’essere iniziale, ci si può sentire giustificati e in pace con se stessi”.
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