Racconto di Silvia Avallone
Si era presentata senza avvertire. Nella tarda mattinata di Ferragosto, quando l’afa e il silenzio crescevano insopportabili nella città deserta, assediando le tapparelle abbassate, le finestre chiuse. Si era materializzata sul pianerottolo buio e soffocante del quarto piano, con un borsone sportivo e la bambina in braccio.
– Fammi entrare – gli aveva detto.
Lui aveva tentennato ma si era arreso spalancando la porta, vergognandosi dell’odore acre che ristagnava nel bilocale, dei pantaloncini corti, da mare, che indossava. E là non c’era nessun mare.
La bambina piagnucolava, stanca e sudata. Aveva i capelli sottili appiccicati alla fronte, una salopette di jeans sporca di terra. Alessia la teneva con un braccio solo, a cavallo di un suo fianco, al modo delle zingare. Aveva gettato a terra il borsone con violenza. Aveva aspettato impaziente che lui chiudesse e si voltasse. Quando Luca trovò il coraggio, lei prese la bambina e gliela ficcò addosso.
– Non ce la faccio.
Si lasciò cadere sul divano rovesciando la testa, senza togliersi i grandi occhiali da sole che le nascondevano il viso, anche se di luce là dentro ce n’era poca. Non era mai cambiata. Gli stessi pantaloncini di jeans, cortissimi, di quando aveva sedici anni. Gli stessi tacchi. La stessa scollatura estrema da cui usciva il reggiseno. Lo stesso rossetto fucsia sulle labbra carnose a forma di cuore, che gli altri alle superiori gli dicevano: Lo sai cosa ci fa Alessia, con quella bocca? Lo sai, mezza sega?
L’impatto fisico con la bambina lo mise a disagio. Cercò con gli occhi, goffo, spaurito, un punto dove poterla appoggiare. Allyson protestava allungando le braccia in direzione della madre.
– Non mi lascia vivere. Non ne posso più.
Luca sistemò la bambina sul tappeto, in mezzo a due cuscini, porgendole un cagnolino di pezza che teneva lì per le rare volte in cui Alessia gliela portava.
– Stanotte non mi ha fatto dormire, mai. Sai cosa vuol dire: mai? – Accavallò le gambe, abbronzate e lunghe, non più esili come quando andava in giro in motorino per il quartiere, a farsi immortalare dai cellulari. – Neanche ieri, neanche l’altra notte. È da tre mesi che non mi fa chiudere occhio. Non mi fa lavare i capelli, non mi fa fare un aperitivo in pace. Tu lo sai cos’è l’inferno?
La bambina continuava a piangere. Aveva afferrato il cane di pezza e lo aveva allontanato da sé con rabbia.
– Ecco, è questo. E tu non ne sai un cazzo.
Si alzò scocciata, tirò fuori dalla tasca un ciuccio su cui erano appiccicati granelli di sporco e residui di tabacco. Lo pulì con la saliva, ciucciandolo prima lei, e poi zittì Allyson con un gesto brusco e sicuro.
Luca era rimasto chinato sul pavimento, ad ascoltarla e basta come aveva sempre fatto.
– Non dici niente. Stai lì a guardarmi come uno sfigato, mentre io non ho più una cazzo di vita. Mi presento al lavoro che non sto nemmeno in piedi. Lavoro come una schiava in quella merda di supermercato.
Luca avrebbe voluto chiederle di non dire quelle parole, che Allyson non poteva ancora comprenderle ma era come una mancanza di rispetto. Era inutile. Alessia continuava, non più bella. Con i segni dei turni al banco della gastronomia non tanto sul viso, quanto dentro la voce, nel linguaggio. Lei, che voleva diventare famosa. Che aveva fatto dei provini a Milano, ed era stata in televisione. Adesso aveva trent’anni e gli stava gridando: – Tu lo sai, cosa vuol dire tutto il giorno con quelle vecchie stronze che ti dicono come devi affettare il prosciutto, che si lamentano che costa troppo, che ti trattano come una sguattera, e poi torni a casa che puzzi di grasso, e c’è una che ti strilla nelle orecchie e non ti fa dormire.
Non lo sapeva. Luca vedeva Allyson nel fine settimana, ogni quindici giorni, e la teneva perlopiù sua madre. Lui si limitava a osservarla gattonare, impugnando oggetti per lei sconosciuti e prodigiosi, come una bottiglietta di plastica, un cucchiaino, a cui attribuiva sillabe sconclusionate ed entusiaste; a intervenire quando la sorprendeva a curiosare troppo vicino a una presa elettrica; a provare a imboccarla.
– Credevo mi avrebbe dato un senso. E invece. Oggi è Ferragosto, e sono qui e non ho niente da festeggiare.
Alessia si tolse i Gucci della bancarella. I suoi occhi stanchi erano circondati da uno spesso strato di matita nera che non faceva altro che renderli più piccoli, e più vecchi.
– Perché sei venuta? – Riuscì a chiederle, finalmente.
Di là, nell’unica altra stanza, c’era la sua tesi di dottorato quasi finita. Nel computer acceso, sullo schermo in standby, c’era la sua via d’uscita. A ottobre l’avrebbe discussa, avrebbe ottenuto il posto di merito in Facoltà, per cui aveva lavorato duro da dieci anni. Era stato un incidente di percorso, quella notte. Qui, sul divano-letto, dopo la festa d’inaugurazione del locale di un amico. Si conoscevano dalle elementari, erano cresciuti insieme pur prendendo strade opposte. Era stata una notte in cui avevano avuto l’uno bisogno dell’altra, di potersi affidare e spogliare. E quando lei, poi, era rimasta incinta e aveva voluto tenere la bambina, lui non aveva alcun diritto di opporsi.
Le aveva pagato le ecografie. Era andato in ospedale e aveva riconosciuto Allyson, pur rimanendo fuori durante il parto. Aveva accettato la y greca, e di provvedere economicamente, di vederla ogni quindici giorni. Allyson che adesso stava cercando di arrampicarsi su una poltrona, esplorando il minuscolo appartamento trasandato, che non era casa di nessuno.
– Sono venuta perché ho bisogno che fai il padre.
Alessia fissò Luca, per la prima volta, negli occhi.
– Ho bisogno che mi aiuti. Che adesso saliamo in macchina, andiamo a Rimini, a Cervia, a Riccione. Dedici tu. E facciamo finta di essere una famiglia normale. Ne ho bisogno.
Lo avevano preso in giro, al locale. Sei stato l’unico fesso a farti incastrare, lo avevano deriso. E lui aveva continuato a studiare a testa bassa, a dare ripetizioni di fisica e di matematica ai liceali per potersi permettere un affitto fuori da casa sua. Da sua madre che lo asfissiava, da suo padre che era morto troppo presto, e ora Alessia cos’è cosa gli stava chiedendo?
La vide alzarsi dal divano, raccogliere da terra Allyson e cominciare a baciarla. Sui capelli, sulle guance, sul collo, dappertutto. Giocava a volerla mangiare, la minacciava teneramente.
La sua voce era già cambiata. D’improvviso non sembrava più stanca. Né la trentenne che aveva avuto dei sogni. Né quella facile del quartiere.
– Sai dove ci porta, adesso, papà?
Allyson sputò il ciuccio, sorrise con i due minuscoli incisivi che le erano appena spuntati.
– Aspetta – disse Luca.
Non poteva. Non aveva senso.
Non quadrava. Non ne era capace.
– Prendi il borsone – gli rispose Alessia. – Dentro ci sono tre asciugamani.
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