Racconto di Charles Bukowski
Non so quanti anni siano passati, se quindici o venti. Me ne stavo a sedere in casa, era una calda sera d’estate e mi sentivo spento.
Uscii dalla porta e mi ritrovai in strada. L’ora di cena era già passata per un mucchio di famiglie, che ora si erano piazzate davanti ai loro televisori. Mi incamminai lungo il boulevard. Dall’altra parte della strada c’era un bar di quartiere situato in un vecchio edificio in legno dipinto di verde e di bianco.
entrai. Dopo una vita intera passata nei bar, questi avevano perso per me qualunque attrattiva. Quando avevo voglia di bere qualcosa, andavo in un negozio di liquori, facevo i miei acquisti e poi tornavo a casa a bermeli in solitudine.
Entrai e mi sedetti su uno sgabello lontano dalla folla. Non ero a disagio, mi sentivo semplicemente fuori posto. Ma se mi veniva voglia di uscire, era quello l’unico posto dove potevo andare. Nella nostra società, la maggior parte dei locali interessanti o è contro la legge o è troppo caro. Ordinai una bottiglia di birra e mi accesi una sigaretta. Non era che uno dei tanti bar del quartiere.
Gli avventori si conoscevano tutti. Raccontavano barzellette sporche e guardavano la TV. C’era un’unica donna, lì dentro, vecchia, vestita di nero, con in testa una parrucca rossa. Aveva al collo una dozzina di collane e continuava a accendersi la sigaretta. Cominciai a provare una certa nostalgia per la mia stanza e decisi sì di tornarci appena finita la birra. Un tizio entrò nel locale e si appollaiò sullo sgabello di fianco al mio. Non alzai gli occhi a guardarlo, non mi interessava, ma dalla voce capii che doveva avere più o meno la mia età.
Era conosciuto, lì dentro. Il barista gli si rivolse chiamandolo per nome e un paio di clienti lo salutarono. Rimase seduto vicino a me con la sua birra per tre o quattro minuti, poi disse: “Ehi, come va?”
“Me la cavo.”
“Sei nuovo della zona?”
“No.”
“Non ti ho mai visto qui.”
Evitai di ribattere. “Sei di Los Angeles?” domandò.
“Diciamo di sì.”
“Credi che i Dodgers ce la faranno quest’anno?”
“No.”
“E a chi tieni?”
“A nessuno. Non mi piace il baseball.”
“E cosa ti piace?”
“La boxe. Le corride.”
“Le corride sono uno sport crudele.”
“Sì, tutto è crudele quando si perde.”
“Già, ma il toro non ha via di scampo.”
“Nessuno ce l’ha.”
“Mi sembri molto pessimista. Credi in Dio?”
“Non nel tuo genere di dio.”
“E in quale, allora?”
“Non ho ancora deciso.”
“Io, da quando mi ricordo, sono sempre andato in chiesa.”
Non risposi. “Posso offrirti una birra?” mi domandò.
“Certo.”
Arrivarono le birre. “Hai letto il giornale, oggi?” mi domandò.
“Sì.”
“Hai visto quelle cinquanta ragazzine che sono bruciate vive in un orfanotrofio di Boston?”
“Sì.”
“Non è terribile?”
“Penso di sì.”
“Ah, lo pensi…”
“Sì.”
“Non è che lo sai…”
“Suppongo che, se fossi stato presente, continuerei ad essere tormentato dagli incubi per tutta la vita. Ma un conto è esserci, un conto è leggere una notizia sul giornale.”
“Non ti addolora l’idea di quelle cinquanta ragazzine bruciate vive? Si spenzolavano dalle finestre urlando.”
“Dev’essere stato terribile. Ma in fondo non era altro che un titolo, e un articolo sul giornale. Non sono stato a rifletterci troppo. Ho girato pagina.”
“Non hai sentito niente, vuoi dire?”
“Se vuoi metterla così…”
Rimase in silenzio per un attimo e buttò giù una sorsata di birra. Poi strillò:
“Ehi, qui c’è un tizio che dice di non aver sentito un cazzo di niente leggendo di quelle cinquanta orfanelle bruciate vive a Boston!”
Tutti si voltarono a guardarmi. Io mi concentrai sulla mia sigaretta. Per un attimo nessuno parlò. Poi la donna con la parrucca rossa disse: “Se fossi un uomo ti farei fare la strada a calci in su e in giù un centinaio di volte.”
“Non crede nemmeno in dio!” continuò il tizio che mi stava seduto accanto.
“Detesta il baseball. Gli piacciono le corride e se la gode un mondo a vedere bruciare vive le orfanelle!”
Chiesi al barista un’altra birra, una sola, per me. Mi spedì la bottiglia con una smorfia di disgusto. C’erano due ragazzi che giocavano al biliardo. Il più giovane, una specie di gigante che portava una maglietta bianca, depose la stecca e mi si avvicinò. Si fermò alle mie spalle, riempiendosi d’aria i polmoni per far sembrare più ampio il torace.
“Questo è un posto per bene. Non vogliamo stronzi, qui dentro. Gli sfondiamo il culo, agli stronzi. Gli facciamo sputare l’anima, la loro animaccia merdosa!”
Lo sentivo lì in piedi, dietro di me. Presi la bottiglia mi riempii il bicchiere, bevvi e accesi una sigaretta. La mia mano era assolutamente ferma. Il ragazzo rimase lì per un po’, poi tornò al biliardo. L’uomo che era seduto vicino a me smontò dallo sgabello e se ne andò. “Quel figlio di troia è un negativo,” lo udii dire. “Odia la gente.”
“Se io fossi un uomo, lo costringerei a chiedere pietà,” disse la donna con la parrucca rossa. “Non li tollero, i bastardi di quel tipo.”
“Sembra Hitler da come parla,” disse qualcuno.
“Le odio, queste mezzeseghe.”
Terminai la birra e ne ordinai un’altra. I due ragazzi continuarono a giocare al biliardo. Qualcuno se ne andò e i commenti su di me cominciarono a diradarsi.
L’unica che insisteva era la donna con la parrucca rossa. Continuava a bere ed era sempre più sbronza.
“Coglione, coglione… sei un vero coglione! Puzzi come una fogna. Scommetto che detesti anche il tuo paese, vero? Il tuo paese, tua madre e tutto il resto. Già, li conosco i tipi come te! Siete tutti dei coglioni, delle merde senza spina dorsale!”
Verso l’una e mezzo finalmente se ne andò. Anche uno dei ragazzi che giocavano a biliardo se ne andò e l’altro, quello con la maglietta bianca, si sedette a un’estremità del banco e si mise a parlare con il tizio che mi aveva offerto da bere. Alle due meno cinque mi alzai e senza fretta uscii dal locale, fino alla strada dove abitavo. Non si vedeva una luce accesa. Trovai il mio cortile. Aprii la porta ed entrai. Nel frigo era rimasta solo una birra. La stappai e la bevvi.
Poi, mi spogliai, andai in bagno, pisciai, mi lavai i denti, spensi la luce, mi avviai verso il letto, mi ci infilai e mi addormentai.
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