Racconto di Guido Cremonese

 

È così raro trovare una donna geniale, anche – starei per dire specialmente – fra quelle che passano per tali, che quando qualcuna emerge fra le sue simili per originalità di carattere, è come un faro luminoso nelle tenebre.

Perché io non ammetto genialità femminile al di fuori dell’arte drammatica e dell’amore.

Quando si tratta di fingere, la donna è naturalmente maestra: fatela passare dalla finzione alla creazione artistica e la vedrete meno che mediocre.

Ho conosciuto delle donne di genio: ma il loro genio si esplicava in ciò che è proprio alla natura femminile: l’amore.

Ogni organo ha una funzione propria; ogni organismo produce dei fenomeni specifici; perciò la donna non può, con perfezione, produrre se non ciò che è femminile.

Le donne geniali cui ho accennato lo erano tutte nell’amore o in qualche manifestazione affettiva del carattere. In queste cose la donna supera immensamente l’uomo: e non vi è uomo di genio o di squisita sensibilità fisica o morale – il che per me è lo stesso – capace di manifestare i profondi fenomeni affettivi di cui è capace la donna.

Nella Savini era, per questa sua genialità, una donna pericolosa.

Suo marito – Corrado – non era un uomo eccezionale. Non geloso, non tiranno; ma neppure stupido o debole. Uno di quei mariti equilibrati, che, appunto perché non soggetti ad eccessi, sono più temibili degli altri.

Eppure, se vi fu mai un marito… sfortunato, al mondo, questo fu ed è Corrado Savini.

Quando conobbi Nella me ne innamorai subito. Inutile dire della sua bellezza fisica: del suo corpo venusto, dei suoi capelli d’oro acceso, dei suoi occhi neri, profondi, vertiginosi.

Ciò che più colpiva, in una donna fisicamente così perfetta, era il mistero morale che si leggeva nel suo sguardo ed in tutta la sua persona.

Si comprendeva in lei un essere profondo, molteplice, superiore, celato in quelle forme superbe: si sentiva, in quella donna, la vicinanza di un abisso morale: si presentivano, a primo tratto, delle bellezze selvagge, terribili, serbate a qualche eletto della fortuna in quell’anima di genio che affascinava senza che si potesse dire il perché.

Il fatto più sicuro e più strano è questo: che tutte le persone dotate di un po’ di cervello si accorgevano di questo fascino dell’ignoto che la circonfondeva come la deità aleggiava intorno alle antiche divinità pagane: tutti, tranne Corrado Savini, l’uomo perspicace ed equilibrato. Per lui Nella era una donna come le altre: egli non era mai penetrato al di là della scorza di quella bellezza fisica; ed in quel pallore semi-trasparente di creola non aveva intuito la sensibilità raffinata di un’anima superiore, ma aveva veduto soltanto un tipo interessante di bellezza.

Mi avvidi, fin dal primo momento, di non dispiacerle.

Si dava un ricevimento nella sua villa: le fui presentato da un comune amico, cui avevo domandato tale piacere.

Eravamo seduti sotto una quercia, abbastanza lontani dalla massa degli invitati per non essere uditi. Quando l’amico ci lasciò soli, azzardai qualche complimento.

L’ho troppo ammirata al teatro, nell’ultima stagione d’opera, per poter rinunziare ad esserle presentato.

Vidi subito il freddo sorriso del suo volto ergersi fra me e la sua anima come un muro insuperabile: e compresi che al di là di quel muro c’era l’infinito. Beato chi poteva penetrarvi: doveva essere l’immersione in una felicità senza limiti, od in uno spasimo mortale.

Il complimento non era l’arma per penetrare in quell’anima.

D’altronde, tutti bisbigliavano sullo strano carattere, sull’alta intellettualità di Nella: nessuno ne sparlava o ne diceva tanto che bastasse a dare su lei un giudizio concreto. L’imbarazzo mi pervase fin dal principio della conversazione.

— Non è un’ammirazione volgare, la mia: è il desiderio di un’ebbrezza spirituale che ella – lo sento – può dare a coloro che hanno il privilegio di godere della sua conversazione.

Nella tacque ancora un momento: poi, come persona che esce da una lunga riflessione, mi chiese:

— È stato a visitare l’Esposizione di belle arti?

— Ho esposto… – risposi sorridendo.

— Che cosa?

Le enumerai le mie tele: e ad ogni titolo erompeva in un lieve grido di gioiosa ammirazione.

— Ma come! Io ho ammirato tutto ciò! … Ma la firma non era…

— È uno pseudonimo: Flavius Lumen.

— Uno pseudonimo celebre! Ora ricordo i quadri e la firma. Oh… lei!

E per alcuni minuti non fece che elogiare l’opera mia, mostrandomi di averla analizzata e compresa.

— Deve essere ben fiero di possedere una simile arte!

— Non lo creda, signora.

— No? Perché?

— Perché il mio sogno non è il dipingere le forme.

— E che cosa, dunque?

— Il pensiero.

— Comprendo: un simbolo, non è vero?

— No: non intendo parlare della pittura simbolica. Intendo parlare di quelle figure che sono belle non solo plasticamente, ma che, come certe immagini di Leonardo, lasciano vedere entro gli occhi, nel sorriso, al di là della figurazione materiale, un pensiero, un’espressione spirituale, un’anima.

— Comprendo. Tutto ciò deve essere il frutto di un tormentoso lavoro di ricerca, di tentativi, su una stessa tela.

— No: è un colpo di fortuna.

E poiché mi guardava con ingenua meraviglia, spiegai:

— Trovare un modello ideale… una figura che non sia solo una bellezza plastica, ma soprattutto una bellezza morale: analizzarla prima di dipingerla, e poi esprimere coi colori ciò che si è compreso… ma soprattutto trovare un tale modello: ecco la fortuna!

— Comprendo. Per un pittore è una conquista. E non l’ha ancora trovato, il modello?

— Se potessi farle il ritratto, avrei raggiunta quella fortuna!

— Eh! d’un colpo! Senza quasi conoscermi!

— Io la conosco: io l’ho analizzata: io posseggo già la metà degli elementi per il mio quadro. Mi permetterà di farle il ritratto?

— Per fare ciò che ella ha sognato occorre una conoscenza meno superficiale. Venga… si faccia vedere ogni tanto… e se un giorno avrà veramente trovato in me il suo modello, ed io in lei il mio pittore, ne riparleremo.

Un giorno sorpresi fra Nella e suo marito una strana conversazione.

Invitato a desinare in casa loro, stavo sfogliando un album sulla terrazza che prospetta il lato interno della villa, quando, da una finestra aperta, mi giunse all’orecchio questo brano di dialogo:

— Bruni non viene? – chiedeva Corrado.

— No: non l’ho invitato.

— Sei curiosa! Una volta lo dichiaravi simpaticissimo…

— Ed ora m’è divenuto antipatico.

— Non so perché, Nella: ma sembra che tu sia gelosa di me.

— In qual modo?

— Quando sto per affezionarmi ad un nuovo amico, lo allontani.

— Potrebbe essere che fossi gelosa. Ti dispiacerebbe?

— Al contrario… Solo osservo che ciò sarebbe in contrasto con i nostri patti… – mormorò Corrado lievemente.

Io ero un po’ seccato dalla mia strana situazione; ma Nella si presentò quasi subito.

— Devo darle una notizia che, spero, le farà piacere.

— Me la dia subito.

— Domani vengo a fare una visita al suo studio.

— Per incominciare il ritratto?

— Vedremo. Ecco mio marito. Corrado, il signor Bardi vuol farmi il ritratto. Non te ne ho mai parlato perché ero ancora incerta: ma il nostro artista è tanto simpatico quanto le sue opere: e poiché egli mi prega di posare, sento di non poter resistere al suo desiderio.

Io rimasi allibito dalla franchezza di quel linguaggio.

Lungi dall’adontarsene, Corrado le rispose con calma:

— Se ciò ti fa piacere, non ho nulla da obbiettare.

— Sarei più contenta se facesse piacere a te.

— Dal momento che è un tuo desiderio, il soddisfarlo fa piacere anche a me.

— Così va bene. Allora è inteso: domani verrò a posare da lei, Bardi.

Questa notizia mi riempì di gioia.

Non comprendevo Nella: non avevo neppure un’idea approssimativa di ciò che avrei potuto ottenere da un simile carattere; ma la speranza dell’avventura mi diede la febbre, febbre di gioia e di impazienza.

Questo stato di orgasmo mi rese impossibile il lavorare, lo stare in casa. La sera, mentre passeggiavo nervosamente, senza una mèta determinata, incontrai Bruni, il vecchio amico. Lo sapevo intimo di casa Savini: e la mattina stessa avevo udito Nella e Corrado parlare brevemente di lui.

Parve che egli dividesse il mio desiderio di trattenersi a discorrere, perché, dopo dieci minuti, eravamo seduti ad un caffè, ingolfati in un’animata conversazione il cui soggetto pareva interessare tutti e due, mentre non era che un pretesto per entrambi.

Bruni fu il primo a perder la pazienza.

— Tu stai facendo la corte a Nella…

Rimasi trasecolato. Dopo un momentaneo imbarazzo riuscii a dominarmi e risposi:

— Mi pare che gliela faccia tu… ed anche intima, poiché la chiami col nome di battesimo.

Bruni fece un gesto di malumore e tacque un po’ prima di rispondere.

— Sta’ attento: ti parlo da vecchio amico. È pericolosa.

— Ti risponderò franco, caro Bruni: io non le faccio la corte: le farò solo… il ritratto.

— Quando Nella accetta un simile omaggio, è segno che ti appartiene di già, moralmente almeno.

— Ne sei sicuro? – chiesi con involontario impeto.

— Vedo che non mi ero ingannato sulle tue intenzioni. Sì, caro Bardi: ti apparterrà; ma non te lo auguro.

— Comprendo che è stata una tua amante… Ma come mai? …

Non sapevo neppur io che cosa chiedere. Nella era un mistero vivente, poiché mai un’indiscrezione o una maldicenza l’avevano sfiorata: era la sfinge del sentimento da tutti scrutata e da nessuno compresa. La rivelazione di Bruni era come una luce troppo viva per degli occhi abituati alle tenebre.

— Sarai sempre un sognatore! Nella è ciò che vuole essere. Il suo cuore è un cimitero che non rende mai le spoglie di chi vi è sepolto. E quando Nella seppellisce qualcuno, ha tali forze a propria disposizione che è inutile ribellarsi: bisogna lasciarsi seppellir vivi. Tu sei attratto da un fascino. Nella sarà tua, la studierai; e quel mistero che ti attrae diverrà sempre più impenetrabile per te fino a quando ti convincerai che il mistero non esiste se non come creazione del tuo spirito.

— Ma tu?

— Ti ho detto abbastanza, perché tu comprenda che dirò quanto voglio e non più. Ti ripeto: guardatene, se sei ancora in tempo. Ma se no, studia pure l’enigma, cerca di non cadere in sua balìa con le mani legate, e poi… dimmene qualcosa. Sono freneticamente curioso di sapere ciò che ne penserai.

— L’ami?

— Non credo che si possa amare una donna simile. Il sentimento che lega a lei è indistruttibile, ma non è amore: è qualcosa che assomiglia alla complicità. Se ti ho detto ciò che non ho mai detto a creatura umana, è perché ti voglio bene.

— Ma la forza in che consiste?

— Il marito.

— Come! – esclamai al colmo dello stupore – Quell’uomo creduto incorruttibile? … e quella ricchezza? …

— No: nulla di tutto ciò che pensi. Savini è un uomo capace di uccidere freddamente, calcolatamente, chiunque egli sospettasse di attentare al suo onore.

— Ma…

— Non una parola di più. Ho detto troppo. E quasi temesse di lasciarsi sfuggire qualche altra confessione, Bruni mi salutò in fretta e se ne andò senza cerimonie.

Un geloso? Un calunniatore?

Il giorno seguente, tormentato dall’impazienza, io aspettavo la venuta di Nella.

Allorché udii il rumore di una carrozza arrestarsi davanti al mio studio, il cuore mi diede un tuffo.

Che cosa sarebbe avvenuto? Potevo sperare in un’avventura?

Prima che avessi il tempo di riacquistare la mia freddezza d’animo, Nella era sulla soglia.

L’incesso da gran dama, la venustà delle mosse cessarono all’istante appena la porta fu chiusa dietro le sue spalle.

Con atto civettuolo, nuovo per me, fece il giro dello studio, osservando, criticando, elogiando; poi si sdraiò mollemente su un divano e mi guardò con occhi languenti.

— È tutto qui?

— Che cosa?

— Lo studio. Non è possibile che non ci sia uno stanzino segreto… molto civettuolo e comodo…

— C’è… – mormorai un po’ sgomento.

E sollevando una tenda turca, le mostrai una porticina.

Nella si rizzò. Fissandomi con uno sguardo che non le conoscevo, mi chiese concitatamente:

— Abbozza presto, lei?

— Di solito, sì. Ma oggi… non sono calmo.

— Occorre che lo sia. La mia carrozza è giù che aspetta: mio marito sarà qui fra due ore, ed è un uomo puntualissimo. Sicché, non abbiamo tempo da perdere.

E prima che riuscissi a raccapezzarmi in quello strano discorso, mi strinse nervosamente un polso e, aperto rapidamente l’uscio del salottino, mi trasse dietro a sé. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Confesso che quando incominciai il ritratto non ero molto padrone di me. Ciò che un’ora prima mi pareva il vertice di un sogno irrealizzabile, ora – per la troppo vertiginosa rapidità dell’ascensione – mi faceva l’effetto di una martellata al capo.

Ero stordito: non sapevo se dovessi rallegrarmi di me stesso o se non dovessi temere di quello strano tipo di donna dominatrice che, di momento in momento, acquistava una maggior padronanza su me.

Il mistero mi pareva squarciato: la donna dall’apparenza fredda e impenetrabile era una sensuale frenetica: la moglie insospettata era un’artista di profondità psicologica inimmaginabile.

Lo strano di Nella consisteva evidentemente in questo: che mentre le donne sensuali sono per lo più imprudenti e superficiali, essa univa, all’ardore infrenabile di piacere, una freddezza di concezione e di percezione così precise, che mai avevo conosciute le eguali.

Mentre mi affrettavo a gettar giù un abbozzo che potesse decentemente giustificare un’ora impiegata altrimenti, Nella mi avvertì, colla freddezza imperiosa che mi si andava rivelando:

— Domani alla stessa ora sarò qui.

La donna dello stanzino non era la donna del ritratto. Pareva che l’eccesso di abbandono, di dolcezza lasciva di poco prima, generasse in lei la rude reazione del presente.

— Cerca di avere una fisionomia un po’ più dolce: altrimenti farò uno strano ritratto.

Con la pronta abilità dell’artista compose il volto ad un sorriso: ma quel sorriso non era il sorriso della sua anima. Evidentemente non era calma: l’eccitamento la forzava ad un’espressione la cui dolcezza eccessiva non era naturale, non era sua.

Amo troppo l’arte per essere adulatore nei momenti di esaltazione artistica. Perciò, un poco duramente, replicai:

— Quel sorriso non è naturale: è forzato.

— Abbozza il corpo, poiché il viso non si può ritrarre.

— Ti sembrerò duro…

— No: ti comprendo. L’arte non ammette attenuazioni di sentimento, né permette inutili perditempi. Anch’io ti sembrerò dura.

— No: comprendo anch’io la tua arte di amare.

— Forse…

— Non mi accusi di freddezza? Non mi chiedi conto della mia ammirazione?

— So che non sei freddo: e conosco la tua ammirazione da molto tempo. D’altronde, a che domandarlo? Mi ami? Tanto meglio per te: godrai di più. Per me l’amore è come un albero carico di frutti saporosi. Ognuno deve sforzarsi di gustarne più che può, più presto che può…. perché la stagione delle frutta finisce presto. Peggio per chi si indugia a cercar di sapere se il suo compagno mangia o no.

Questo strano egoismo del godimento mi turbò un poco e mi fece comprendere che io, per Nella, interessavo in ragione del piacere che potevo darle. La differenza fra una simile donna ed una depravata volgare consisteva soltanto nella scelta accurata del compagno… che doveva aiutarla a cogliere le frutta.

Ed ecco che il mio sogno di avventura amorosa, il mio bel sogno di passione contrastata, combattuta, trionfata, cadeva di fronte ad una realtà che era infinitamente lontana da tutte le mie ipotesi.

— Come mai – chiesi – tuo marito è così puntuale ai convegni? Non gli salta mai il ghiribizzo di anticipare?

— Fra me e mio marito esiste il patto della fiducia assoluta. Vedrai.

Pochi minuti dopo Savini era nello studio.

Con fine discernimento critico mi fece alcune osservazioni sull’abbozzo compiuto, poi chiese a sua moglie:

— Sei stanca?

— Stanca? La conversazione di Bardi è deliziosa. Se dovessi avere un amante, sarebbe il mio prediletto.

Allibii. Questo ardimento nello scherzare col fuoco era spaventevole. Mi caddero i pennelli dalla sinistra, e Savini mi auto cortesemente a raccoglierli.

— Mia moglie ha delle sortite che scombussolano l’uomo più calmo – osservò sorridendo.

— Ed il povero Bardi è rimasto scombussolato. Ma stia tranquillo: quel pericolo non c’è né per lei né per altri.

— Ne sono persuaso – mormorai. – D’altronde, per noi artisti la donna che ci conquide, artisticamente parlando, non ha nulla di comune con la realtà materiale. Mi parrebbe una profanazione il pensare ad un modello, idealizzato dai miei pennelli, in tutt’altro modo da quello in cui vi pensavo nel ritrarlo.

— Questa si direbbe una sfida. Badi! … Fortuna che io sono la sfinge di marmo… come mi chiamano… altrimenti sarei capace di tentare l’artista.

— Per l’amore vi sono altre donne… meno ideali – risposi. – E quelle non sarei capace di dipingerle.

— Come! Non ha mai fatto il ritratto ad un’amante?

— Ecco: dei bozzetti frettolosi, delle impressioni, sì: ma in simili casi non riesco a creare un’opera profonda, qualcosa che possa dirsi opera d’arte.

— Cosicché – osservò Savini – da un suo ritratto di donna si può dedurre se il modello sia stato o no sua amante!

E ridemmo tutti e tre.

Due giorni dopo aspettavo Nella all’ora ormai solita. Ma in sua vece venne il marito, il quale, con un’aria beata, mi presentò un biglietto di sua moglie. Era una lettera chiusa: e temevo di aprirla; ma Savini sedette senza complimenti e mi disse con semplicità:

— È inteso, fra me e Nella, che non devono esserci né malintesi né gelosie. In confidenza, io credo che a mia moglie secchi un poco questa mia assoluta fiducia. Non le dispiacerebbe che io fossi un po’ geloso, e fa di tutto per farmi esser tale; ma io ho deciso di non darle questo gusto e non glielo darò. Vede? Mi fa portare una lettera ed io non mi curo di sapere che cosa contenga. Legga, legga pure.

Io prevedevo questo invito; e perciò mi ero prudentemente allontanato da lui. Apersi la lettera e lessi:

«Mio carissimo,

«Sono trattenuta a casa da un’amica. Anziché venir io da te, vieni tu, verso le cinque, che andremo a fare una passeggiata in carrozza.

«Tua Nella.»

Ormai ne sapevo abbastanza su quel carattere, perché mi fossi illuso sul contenuto della lettera: non mostrai quindi alcuna sorpresa, e, col tono più naturale, dissi a Savini:

— La sua signora mi invita a fare una passeggiata in carrozza alle cinque. Lo sa?

— Non lo sapevo. Ho piacere.

Non mi parve che avesse molto piacere: ma vidi che non sospettava. Era solamente seccato.

— Mi permette di accettare l’invito?

— Ma certo! L’invito di una signora è sacro.

— E lei… non ci terrà compagnia?

— Non posso, a quell’ora. Vi raggiungerò al passeggio. Conosco la passeggiata preferita da Nella.

Ci lasciamo in quest’intesa. Alle cinque io ero a casa della mia strana amante.

— Sei imprudente! – le osservai – Che bisogno c’è di scrivere certe cose, e soprattutto in tal forma?

— Avresti paura? A me piace la vertigine del pericolo. Eppoi, dal momento che lo faccio, è segno che è il modo più sicuro.

— Non ne sono troppo persuaso.

— L’amore senza pericoli non mi piace: mi fa l’effetto di un’acqua stagnante.

— Di’ piuttosto che ami il pericolo, che vuoi la vertigine del pericolo anziché l’amore. Questo è per te un mezzo per raggiungere l’altro.

— Può essere… o, piuttosto, è così. Ognuno ama a modo proprio.

— Ma verrà un momento in cui Savini scoprirà tutto.

— Non credo. So io come si fa a tenerlo nell’illusione facendo ciò che più mi piace. Del resto, se scoprirà tutto, tanto peggio per lui.

— Ma questo non è più amore! In simili condizioni diventa una tortura!

— Come! Anche tu intendi l’amore come una lascivia tranquilla e poltrona?

Rimase interdetta.

— «Anche tu?» – chiesi fissandola – E chi altri? …

— Mio marito! – rispose arditamente.

— Savini ci raggiungerà al passeggio.

— So dove suole raggiungermi. Nella villa del principe X abbiamo affittato una casetta che doveva servire di ritrovo pei cacciatori quando la villa non era un pubblico passeggio. Andiamo.

Fremetti. Quale nuova sorpresa mi preparava la mia pericolosa amica?

In principio la passeggiata parve deliziosa. Nella penombra mistica dei viali secolari Nella era pervasa da uno strano sentimento di abbandono. Parlò poco: e per un momento la credetti appassionata… a mio modo.

Io non avevo avuto il tempo di affezionarmele: solo quello di desiderarla; ma la bellezza di quel corpo muliebre era tale, mentre la donna taceva, da ispirare qualcosa di più di un desiderio, o per lo meno un desiderio così profondo da assomigliare alla passione.

Quando fummo giunti al padiglione, il lacchè aperse la porta e le finestre; poi, evidentemente abituato a quelle visite, tornò a sedere accanto al cocchiere: e mentre noi ci avviavamo al padiglione, la carrozza si allontanò al passo.

Avevo offerto il braccio a Nella che percorreva, appoggiata a me, i pochi metri che ci separavano dalla casetta. Un cavallo giunse al galoppo: il cavaliere lo fermò un attimo in quel punto: e Bruni – che era lui – ci salutò con un ironico sorriso.

Nella, con moto nervoso, volse il capo altrove; e, traendomi innanzi con forza, mi fece entrare rapidamente nel padiglione.

Questo si componeva di un salone anteriore, con un vasto camino cinquecentesco e con mobili dello stesso stile; da un lato si aprivano due stanze più piccole; dal salone, una scala in legno dava adito ad altre due stanze poste sopra le due accennate. Da per tutto vi era grande ricchezza di mobilio, di stoffe, di armi esotiche, di curiosità.

— A che cosa vi serve questo delizioso ritiro?

— Ogni tanto veniamo a fare come una scampagnata: stavolta… servirà a noi due.

Mentre io mi indugiavo ad una delle finestre, ammirando il panorama di una vallea alberata e traversata da un ruscello, Nella mi tolse bruscamente alla mia contemplazione.

— Presto! Non abbiamo molto tempo disponibile! Vieni qui… Non valgo più del paesaggio, io?

— Come…!

— Sei curioso! Fra un quarto d’ora Savini sarà qui. Non dubitare: Bruni, incontrandolo, gli dirà in che preciso minuto siamo arrivati.

— E non chiudi la porta?

— Ci mancherebbe!

— Ma pensa: anche un passante, un curioso, potrebbe entrare.

— Non è mai accaduto.

E mi precedette in uno dei salottini del piano superiore. Appena entrata, da una finestra guardò fuori, lontano…

— Laggiù… vedi?

— Dove?

— In fondo al viale…

E scrutando con un binocolo che, certo non per caso, era lì a portata di mano, mormorò:

— È lui… Viene a piedi. Sciocco! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Dopo un quarto d’ora o poco più giungeva Savini. Nella, affacciandosi alla balaustra della scala interna, gli gridò:

— Ma vieni su, dunque! Sei eterno, nelle tue passeggiate! Bardi sta ammirando il paesaggio e dice che vuol ritrarlo. Gli daremo la chiave, non ti pare?

— Certo… – rispose Savini nel salir le scale.

In quel momento, mentre mi rizzavo rapidamente, la mia mano, insinuatasi per caso tra la spalliera ed il sedile del divano, incontrò una carta che mi affrettai a mettere in tasca. Poi raggiunsi in fretta la finestra da cui dovevo ammirare il paesaggio.

— Se avessi un temperamento geloso, credo che non mi mancherebbe il motivo di esserlo… – mormorò Savini nello stringermi la mano.

— Ed è ben sicuro di non esserlo?

Alzò le spalle con un moto leggermente sdegnoso e cambiò discorso.

— Che le pare di questo padiglione?

— Superbo! È una sorpresa per chi lo giudica dal rustico aspetto esteriore.

— È la cosa che lo rende più interessante.

Mi pareva impacciato: ci guardava poco; ed evidentemente era roso da un interno dubbio.

Anche Nella se ne avvide; ma, con nuova mia sorpresa, lo investì quasi:

— Che hai? Sei preoccupato? Sei geloso forse? O devo essere io la gelosa? Su, su, presto, la verità!

Non credo di essermi mai trovato in un imbarazzo simile.

Savini indugiò un poco a rispondere; poi, fissando sua moglie negli occhi, le chiese:

— Sei felice?

— Finché lo sei tu, lo sono anch’io.

— E se io non fossi più felice?

— Ordina! Non sono un carattere meschino, per cambiare da un’ora all’altra, lo sai.

Quello era certamente il miglior modo di disarmare Savini: ed io non sapevo che cosa augurarmi come risposta da parte sua. L’amore di Nella mi dava troppi spaventi per darmi tempo di godere sia pure delle emozioni. Ad un gaudio tranquillo non pensavo neppure: una simile donna non era capace di concepire la tranquillità.

Ma Savini non rispose. Si allontanò preoccupato ed andò in cerca della carrozza.

— È geloso. – mormorai concitatamente.

— Non importa! Penso io a tutto! Tu bada a non contraddirmi e a lasciarmi fare.

— Ma perché camminare continuamente sull’orlo del precipizio, quando c’è tanta larga strada al di fuori di questo continuo spasimo avventuroso?

— Perché camminando sulla strada larga non si inganna mio marito. È troppo furbo per non scoprire un intrigo dei soliti: a lui bisogna farla sotto gli occhi. Solo in tal modo si può sfidare la sua penetrazione.

— Mi pare che, con tutta la tua astuzia, sii riuscita a farlo sospettare.

— Egli sospetta sempre, ma non è mai certo. Questo è il mio sistema.

Savini ci raggiungeva in carrozza. Io stavo per salutarli e andarmene, quando Nella mi trattenne con un gesto risoluto.

— Come! Vuole andarsene? Vorrebbe fare tutta la strada a piedi? Che penserebbe di me se, dopo averlo fatto venire fin qui in carrozza, lo lasciassi abbandonato in piena campagna?

— Non vorrei disturbare il piacere di un ritorno delizioso in due.

— Ma sentitelo! Fallo salire tu! Finirò per innamorarmene, io, di questo pittore così primitivo! Come si fa a non profittare con slancio dell’invito di una bella signora? Che le importa di mio marito? È geloso? Peggio per lui! Già, io non credo che mi faccia un tale onore!

Savini sorrideva: salii in carrozza e mi abbandonai in balìa alla corrente.

— Sta’ attento, Savini! Il nostro artista mi interessa. Sorveglia il ritratto, perché – rammentalo – ha una speciale importanza psicologica.

— Sentite – dissi assumendo con sforzo un’aria di famigliarità giocosa – i vostri scherzi saranno bellissimi; ma vi confesso che, non essendoci abituato, io non mi ci diverto affatto.

Savini sorrise.

— Non fidarti di quel sornione! Credo che mi faccia la corte.

— Non verrò più a passeggio con voi. È roba da farne una malattia di fegato! – protestai.

Giunti alla villa, io e Savini lasciammo Nella a casa ed uscimmo insieme.

Savini era in vena di confidenze. Non so se mi parlasse per scoprir terreno o per avvertirmi: in ogni modo la sua perfetta cortesia mi diceva che egli non sospettava affatto la verità, ma solamente era annotato delle maniere equivoche di Nella. Era forse, quello, il vero aspetto del suo temperamento ed il suo solito modo di pensare.

Mi trovavo fra due esseri di cui uno aveva traviata e deviata l’intuizione dell’altro per sempre: e che si affannavano tutti e due ad un giuoco pericoloso e sottile che la più piccola mossa falsa poteva far divenir tragico.

— Da qualche giorno Nella è più strana del solito.

— Le pare?

— Sì: sono abituato, è vero, a questa sua falsa allegria rumorosa; ma ho notato che essa ha dei periodi di maggiore acutezza. Attualmente siamo in uno di questi periodi.

— A che cosa lo attribuisce?

— È difficile trovare un rapporto fra ciò che Nella fa e ciò che pensa: tanto più che – credo – nessuno sa ciò che pensi.

— Neanche lei?

— Io? Sì… ordinariamente la comprendo: comprendo che è un carattere irrequieto, mutevole, assetato di distrazioni…, ma neppur io comprendo il perché di questi periodi di esaltamento della sua stranezza.

— Non le è mai venuto in mente che la sua signora sia ammalata?

— Sì; ma respinge energicamente qualunque consulto medico. D’altronde, se malattia vi fosse, non potrebbe essere che qualcuno dei soliti disturbi isterici tanto comuni nelle donne. È ciò che suol dirsi un’impulsiva. Per esempio: lei vede con quale entusiasmo ha cominciato a posare pel suo ritratto. Ebbene, non mi stupirei che domani non volesse più saperne.

— Ne sarei desolato! – esclamai, mentre, in fondo al cuore, me lo auguravo sinceramente.

— Mi duole il dirlo: ma è un fatto che passa troppo rapidamente dagli entusiasmi alle avversioni. Eppure è una donna intelligente.

— Quanto a questo, non vi è dubbio.

A me, veramente, pareva che la fosse troppo.

Quando fui solo, cominciai a riflettere seriamente alla mia situazione. Erano passati pochi giorni dacché Bruni mi aveva dato un avvertimento: e già le sue parole ammonitrici mi tornavano alla mente come la voce di un rimorso.

Dicevo a me stesso che se Nella fosse stata una donna capace di amare come tutte le altre, avrebbe potuto destare delle passioni inestinguibili e donare delle dolcezze infinite. Ma con un simile carattere! … La sua improvvisa dedizione aveva spezzato l’incanto sotto il quale io mi sentivo già unito a lei: ma la donna era tale che anche il facile possesso non la diminuiva ai miei occhi.

Credevo che realmente mi avesse studiato e mi conoscesse prima di darmisi; e credevo fino ad un certo punto che le piacesse lo strano ed il pericoloso. Ero sicuro – non per lusinga di amor proprio – che il suo possesso pronto, apparentemente facile, era un privilegio riserbato agli eletti. Ma perché?

L’unica risposta plausibile che trovai alla domanda che continuamente mi martellava la mente fu questa: Nella tradisce il marito prima di dargli il tempo di sospettare. Quando un’amicizia è durata abbastanza e quando un dubbio può cominciare a sorgere, Nella spezza l’una e l’altro con un colpo di scena. Ciò è da grande artista… ma può renderla felice?

Quando verrà, per me, l’ora del colpo di scena? Presto.

Lo presentivo e lo desideravo.

L’indomani, poco prima della venuta di Nella, mi rammentai del foglio trovato nella villa. Lo cercai e vidi che era una lettera. In qualunque altra circostanza sarei stato discreto; ma stavolta non potei resistere alla tentazione, perché soddisfacendo la curiosità speravo di istruirmi o di trovare una via di uscita a quella strana situazione.

«25 giugno 19…

«Adorato Carlo,

«Ti dirò domani per quale improvvisa necessità mi è impossibile raggiungerti. Pensa a me nell’ora in cui mi aspetterai nel delizioso padiglione.

«Tua Nella.»

Evidentemente Nella aveva lasciato quel biglietto nel luogo prestabilito per la corrispondenza; ed ivi era rimasto dimenticato.

Che fare? Distruggerlo o renderglielo… come mezzo per troncare la ormai pericolosa avventura?

Non ebbi il tempo di riflettere, perché il mio strano modello giunse con qualche minuto di anticipo.

Dopo un abbraccio nervoso Nella mi disse sorridendo:

— Complimenti pel modo in cui te la sei cavata iersera. È stata un’abilità da maestro, la tua!

— Non ne ho alcun merito. Quello mio di ieri si chiama il coraggio della disperazione.

— Pare impossibile! Eppure è chiaro che i drammi o accadono subito o non accadono affatto.

— Anche questa può essere una teoria plausibile; ma per me è un giuoco inutilmente pericoloso e fastidioso.

— Sciocchezze! – mormorò con aria sprezzante – E questo ritratto?

— Va male. Se tuo marito dovesse giudicare dalla tela…

— Bisogna che tu faccia un capolavoro. Bisogna, capisci?

— All’arte non si comanda.

— Ma allora? Il sogno che io rappresentavo per te? Il mistero, l’anima che era in me? Tutto svanito?

— Che te ne importa? L’amore non è, a tuo dire, un albero su cui ogni amante deve pensare a cogliere i frutti per sé?

— Qui non si tratta di amore: si tratta di mio marito. Egli ha preso alla lettera le tue parole. Se il ritratto non verrà qualcosa di superiore al comune, e presto, penserà male.

— Savini non è un bambino. D’altronde… io vedevo in te un mistero… che avrei potuto riprodurre a mio modo. Ora il mistero non lo vedo più.

Dipingevo nervosamente, a scatti. La mia opera, purtroppo, mancava di carattere tanto nella mia maniera quanto nel tipo del soggetto.

Come avrei potuto, d’altronde, fare un tipo di una donna che oggi vedevo diversissima da quella che era per me pochi giorni prima? Solo ispirandomi alla realizzazione di un carattere di depravazione profonda avrei potuto riprodurre la donna quale io la vedevo. Ma… che cosa ne avrebbero pensato gli altri che la vedevano sotto una diversa luce?

Perché Nella posava davanti a tutti, ma non posava, non poteva posare a sfinge di marmo davanti a me.

— Mio marito ci osserva: forse sospetta. Bisogna allontanare i suoi sospetti.

— Col tuo solito sistema di fare delle pazzie sempre più pericolose?

— Ti inviterò a passare con noi qualche giorno in campagna. Savini suole lasciarmi sola per settimane intere.

— Ed io, naturalmente, devo sempre più compromettermi ai suoi occhi? Non voglio saperne.

— Senti: ho deciso così, e così dev’essere. Altrimenti, in qualunque modo, ti comprometterò lo stesso. Che tu venga in campagna o che tu resti in città, non puoi mica impedirmi di venire a trovarti!

— Posso anche partire d’improvviso per ignota destinazione.

— Ti cercherò e ti seguirò.

— Ma perché? Che bizzarria è questa?

— Un mio capriccio.

— Te lo dirò, in che consiste il tuo capriccio.

— Sentiamo.

— Andare avanti; compromettermi più che è possibile: poi, appena il pericolo si fa serio, abbandonarmi come un oggetto inutile. Non è così?

— E se fosse? Pensa alla mia condizione. Non posso, in un modo plausibile, troncare la nostra amicizia…

— No: ma puoi darle, di fronte a Savini, un carattere di amicizia pura e semplice.

— Non ci crederebbe: lo so. Per conseguenza, per traviare il suo giudizio, devo nascondergli la verità mettendogliela sotto il naso. Ad un’audacia simile egli non pensa affatto, non crede.

— E poi?

— E poi bisogna andare di audacia in audacia…

— Fino a quando?

— Fino a quando mi accorgerò che c’è del pericolo.

— E se io mi rifiutassi di assecondarti? Che cosa puoi invocare? L’amore?

— No: amore, fra noi due, non ne è mai esistito. Noi siamo i due fedeli dell’albero… Io ho il diritto di continuare a cogliere i frutti finché mi garberà. Sarò noiosa, tenace… ti comprometterò… ed allora… tanto peggio per te. Per mio conto, ho molto ascendente su mio marito e me la caverò. Egli, del resto, è della teoria di coloro che uccidono l’amante e non la moglie.

— Bellissima teoria. Allora io gli dirò che cerchi… l’amante, e che lo uccida.

Nella mi guardava con una certa sorpresa negli occhi. Trassi di tasca la lettera, e, mostratagliela da lontano, la lessi ad alta voce.

— Savini – aggiunsi – penserà a trovare questo signor Carlo. Se non lo troverà, tanto peggio per te. Ma sono certo che è un suo amico e che ne conosce la scrittura. La data, poi, lo aiuterà a sapere chi fosse, allora, colui che… coglieva i frutti.

Pallida, verde, trasformata in un essere laido, Nella si rizzò, rigida nei movimenti, tremante come un’epilettica.

— Datemi quella lettera!

— Mai!

— Sciocco! Vile! Non so che farmi di voi e del vostro ritratto.

— Ed io sono contentissimo di averlo… incominciato. Il principio è stato la parte migliore del lavoro. Mi illudevo che poteste amarmi.

— Io? – mi rispose con un sorriso di disprezzo indefinibile.

— So bene che non potete amare né me né altri: del resto, io vi ringrazio. Non ho da rimproverarvi che la vostra inutile nervosità.

Dopo un ultimo sguardo di sprezzo mi volse le spalle ed uscì.

Un’ora dopo, Savini, mortificato, era nel mio studio.

— Glielo dicevo, Bardi! Nella è stupidamente capricciosa. Le è passata l’idea del ritratto e… non credo che ci ritornerà più sopra. La conosco, io! Mi scusi, sa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Dopo due giorni, alla ferrovia, mentre stavo per partire, incontrai Savini con Nella ed un giovanotto a me sconosciuto. Savini mi venne incontro con premura: gli altri due, per convenienza, dovettero avvicinarsi.

— Andiamo in campagna. Il signor Lauri farà penitenza con noi.

— Dipinge, il signore? – chiesi con finta ingenuità.

Nella mi lanciò una occhiata fulminante che mi fece sorridere.

— No – rispose Savini – è appassionato per la campagna, ma non dipinge

— Allora arriva a proposito! È la stagione adatta per cogliere le migliori frutta.

Il treno che doveva portarmi via si metteva in moto: e non potei aspettare una replica alla mia ultima frecciata.